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I PAESI ASIATICI POSSONO UNIRSI CONTRO IL PROTEZIONISMO ATTRAVERSO IL FORUM DI BOAO

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La conferenza annuale per l’anno 2013 del Forum di Boao per l’Asia (BFA) si è chiusa lunedì. Il tema di questa edizioni era “L’Asia alla ricerca dello Sviluppo Complessivo: Ristrutturazione, Responsabilità e Cooperazione”. Dal momento che la ripresa economica non è stata affatto costante nel 2012 e che le previsioni nel 2013 non sono ancora ottimistiche, tutti i Paesi asiatici devono individuare interessi comuni, ridimensionare le distanze e ricercare uno sviluppo condiviso.

Ci sono già diverse organizzazioni economiche trans-regionali in Asia che possono costruire piattaforme per quei Paesi che cercano la cooperazione, fra cui la Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) e l’Intesa per il Dialogo Trans-Pacifico (TPP). Gli Stati Uniti si inseriscono negli affari regionali dell’Asia e indeboliscono la tendenza del regionalismo asiatico a mettere da parte Washington attraverso l’APEC. Per quanto concerne il TPP, oltre alla condivisione dell’indotto emerso dal rapido sviluppo economico dell’Asia, l’intento più importante per gli Stati Uniti da promuovere è che il TPP li aiuti a prendere in mano l’iniziativa nel processo integrativo della regione Asia-Pacifico.

Per lungo tempo, la regione asiatica è rimasta priva di un vertice o di un’organizzazione che fosse seriamente guidata dall’Asia e che sintetizzasse gli interessi degli asiatici, fino a quando il Forum di Boao per l’Asia non ha colmato questa lacuna. L’Asia sta evidenziando un’opportunità storica. La pace e lo sviluppo sono ancora i temi dei nostri giorni. La ricerca della pace, della stabilità, dello sviluppo e della cooperazione  è l’obiettivo comune dei popoli asiatici di ogni Paese.

La globalizzazione economica si sta sviluppando sempre più dinamicamente e la ristrutturazione economica ha raggiunto un primo successo in molte nazioni del nostro continente. Grazie al ritmo sostenuto dell’ottimizzazione industriale e dell’avanzamento tecnologico, i Paesi asiatici hanno raggiunto un potente livello. Nel processo di integrazione regionale, le nostre nazioni sono sempre più interdipendenti. Il dialogo e il coordinamento tra gli Stati asiatici sono aumentati e la loro capacità di scongiurare i rischi è migliorata.

Tutti questi fattori hanno gettato le più solide fondamenta e creato le migliori condizioni per la pace, la stabilità, lo sviluppo e la cooperazione in Asia. In ogni caso, dobbiamo anche notare che ci sono ancora molti problemi e complicazioni sulla via della cooperazione regionale. Le contese storiche e le contraddizioni pratiche mettono in pericolo la fiducia reciproca tra i Paesi asiatici.

Considerando il perno statunitense sull’Asia, il crescendo di tensione nelle dispute territoriali all’interno della regione e l’emersione di un protezionismo commerciale globale, i nostri popoli si trovano davanti ad un compito molto oneroso nel mantenimento della pace e della stabilità regionale e nella ricerca della prosperità condivisa. Il commercio complessivo dell’Asia è pari ad un terzo del totale mondiale. L’interdipendenza tra i nostri mercati è molto forte. Inoltre, i Paesi asiatici mantengono interessi comuni nella resistenza al protezionismo commerciale e nella persuasione al libero corso del mercato globale.

Dopo la crisi finanziaria internazionale nel 2008, molte economie, come quella statunitense o quella dell’Unione Europea, hanno provato a proteggere le loro imprese nazionali, a ridurre la pressione e ad aumentare le opportunità occupazionali attraverso metodi quali i dazi anticoncorrenziali (antidumping, ndt) e i dazi compensativi (countervailing, ndt).

Le maggiori economie asiatiche, come il Giappone, la Corea del Sud e la Cina, hanno tutte un modello economico pensato per l’esportazione. La dipendenza dei Paesi asiatici dai mercati degli Stati Uniti e dell’Unione Europea è un punto debole del loro sviluppo economico. Dunque, i Paesi asiatici dovrebbero unirsi per resistere alla creazione di quelle barriere commerciali imposte da Washington e da Bruxelles e cercare un percorso comune di individuazione di metodi giudiziari internazionali per evitare che il protezionismo possa svilupparsi ancora. Dovremmo ridurre la dipendenza dei mercati asiatici dai mercati occidentali incrementando gli scambi economici e commerciali intraregionali. Il protezionismo euro-americano sta producendo un effetto estremamente negativo sulla ripresa economica in Asia. In questo caso, la liquidità del mercato è importantissima all’interno della regione. Dovremmo promuovere un commercio intraregionale per sostituirlo al commercio interregionale e mantenere il rapido sviluppo dell’economia globale.

In effetti, esistono dispute territoriali tra alcuni Stati asiatici. Ma allo stesso tempo, ci attendono sfide condivise. Per mettere da parte i rancori e raggiungere uno sviluppo comune, ogni Paese asiatico dovrebbe mostrare rispetto per i diritti sovrani di ognuno degli altri e fermare il protezionismo commerciale mosso dai sentimenti nazionalisti. Ognuno di noi ha la responsabilità di mantenere la pace regionale e la stabilità e di stemperare le tensioni regionali indotte dalle solite minacce per la sicurezza, al fine di creare un favorevole ambiente per il libero commercio tra i Paesi asiatici. È anche questo il significato spirituale del Forum di Boao.

 

 

FONTE: Global Times (8/4/2013, pag. 14)

 

L’articolo è stato compilato dalla redattrice del “Global Times” Shu Meng sulla base di un’intervista al Professor Wu Shicun, presidente dell’Istituto Nazionale per lo Studio del Mar Cinese Meridionale.

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DOSSIER KOSOVO – INTERVISTA AL PROF. LUCIANO BOZZO

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A cura di Andrea Turi

 
Partiamo dagli recenti sviluppi che sono quelli di ieri (2 aprile 2013): l’ottava sessione del dialogo tra Serbia e Kosovo tenutosi a Bruxelles con la mediazione dell’UE doveva essere quello risolutivo. Si è concluso, invece, con un niente di fatto. Le chiedo: secondo Lei, un accordo è possibile? 

In effetti un accordo è difficile e credo che richiederà tempi lunghi e condizioni giuste. Voglio dire, in fin dei conti la guerra del 1999 è terminata da meno di quindici anni che sono tanti ma, poi, non così tanti in una prospettiva storica, i risentimenti sono fortissimi e soprattutto sono ancora aperte le questioni “calde” che sono, per esempio, quelle delle minoranze serbe presenti in Kosovo e soprattutto nel Nord del Kosovo, la questione della sovranità del Kosovo che continua a non essere riconosciuto dalla Serbia come Paese sovrano così come da altri Stati europei, primo fra tutti la Spagna e per evidenti motivi, il fatto che permangano, comunque, delle minoranze albanesi nei territori del Sud della Serbia, il fatto anche molto doloroso sotto alcuni aspetti che in Kosovo siano locati alcuni dei luoghi cari alla memoria religiosa e storica serba perché bisogna ricordare che il Kosovo bene o male sia, il termine è stato utilizzato molto in passato in maniera retorica ma fotografa molto bene la realtà, la “culla” della civiltà serba e quindi dobbiamo pensare ai grandi monasteri ortodossi come quello di Pec che rimangono punti di riferimento ideali della cultura della Serbia. Questi, secondo me, sono gli elementi che ostacolano in modo evidente il processo di “normalizzazione” e lo ostacoleranno ancora nei prossimi anni assieme agli elementi psicologici e al risentimento per quello che è successo durante la guerra, durante e dopo, e che ovviamente da parte serba non può non essere forte. Comprendo le ragioni albanesi, non posso ignorare le ragioni di Belgrado che ha naturalmente perduto una guerra in cui si è vista sottrarre una parte di territorio che considerava nella sua prospettiva a buona ragione nazionale e che in quel territorio vede le proprie radici storiche.

Quindi, in sostanza, la mia non è una prospettiva ottimistica nel breve e medio periodo.

 

 

Secondo lei esiste un compromesso che possa essere accettato da entrambe le parti?

Se la volontà vera che sottostà al dialogo è quella di raggiungere un accordo, penso che un compromesso debba essere trovato perché altrimenti non vedo come se ne possa uscire. Per esempio, un compromesso potrebbe essere accettabile nei termini di una forte autonomia per non dire una vera e propria indipendenza delle province situate a Nord del Kosovo e quindi di garanzie forti nei confronti delle minoranze serbe e per i monasteri ortodossi sparsi nella regione che hanno una valenza storica e culturale rilevante. Più difficile è vedere cosa la Serbia possa e voglia poter dare in cambio al governo kosovaro albanese per ottenere vantaggi di questo tipo. Qui credo che il terreno si faccia molto scivoloso.

 

 

Torniamo al 1999. Quando scoppiò la guerra quali erano gli interessi nella regione? Perché era importante avere il controllo della regione?

I motivi reali della guerra si capiscono subito se si prende in mano una cartina geografica: il Kosovo è una regione situata proprio nel cuore della regione balcanica. Dal Kosovo, infatti, è possibile raggiungere un novero di Paesi che sono collocati intorno alla regione in questione; il Kosovo, inoltre, ha una notevole e fortissima valenza culturale e storica per l’Albania e gli albanesi. Quindi, il controllo del Kosovo consentiva, ed ha consentito, per esempio agli Stati Uniti tanto per non fare nomi, di situare lì una importante base militare, la più grande ed importante base militare statunitense all’estero. Ha consentito agli Stati Uniti di sviluppare un rapporto assolutamente privilegiato con l’Albania e con il popolo albanese sia dentro che fuori i confini dell’Albania. Consente agli Stati Uniti di esercitare un controllo e all’occorrenza anche una pressione sui vicini del Kosovo. Non credo, però, che la guerra per il Kosovo fosse dettata e sia stata il risultato di un calcolo, diciamo, strategico à la Risiko per impadronirsi di un territorio centrale ecc. Credo, piuttosto, che a quella guerra si sia arrivati perché, alla fine dei conti, ad un certo punto era la prospettiva considerata inevitabile da tutte le parti in causa: la Serbia pensava probabilmente che con il confronto delle forze di riuscire a raggiungere i suoi obiettivi di politica estera ma soprattutto di politica interna e penso a Milosevic; gli Albanesi pensavano di riuscire a raggiungere l’indipendenza; gli Americani pensavano di eliminare Milosevic per poter realizzare quell’ennesimo regime-change funzionale ad un intero progetto di politica estera statunitense; gli europei pensavano come al solito cose molto diverse e non essendo coesi sulla linea da seguire si sono allineati alla visione degli Stati Uniti. Tutto ciò è sfociato inevitabilmente nella guerra e nel risultato della divisione di Serbia e Kosovo, evento che da un certo punto di vista era scontato anche se non così scontato visto che se non ricordo male dall’aprile siamo arrivati sino alla fine di giugno (se non addirittura da marzo) e alla fine i Serbi hanno mollato anche per la forte pressione diplomatica esercitata dalla Federazione Russa. Quindi la situazione venutasi a creare non è stato soltanto il frutto di un’azione militare, intendo quella fondata sull’impiego del potere aereo, che ad un certo punto sembrava non riuscire a rivelarsi risolutiva tant’è che si era in procinto di effettuare un intervento per vie di terra che sarebbe stato problematico e costoso in termini umani.

 

 

In caso ancora l’avesse, qual è l’importanza oggi del Kosovo sullo scenario internazionale?

Ha un’importanza per gli attori direttamente coinvolti quindi per l’Albania ed evidentemente per la Serbia. Le recenti elezioni in Serbia e le prossime elezioni politiche che si terranno in estate in Albania bene o male hanno visto e vedranno una posizione centrale della questione del Kosovo che rappresenta per questi due Paesi una questione di un certo, per non dire molto, rilievo.

Interessante è quello che sta succedendo in Albania: il ritorno, cosa peraltro scontata per certi versi, dei progetti di Grande Albania, i riferimenti ormai espliciti in tanti pronunciamenti pubblici dei leader albanesi più importanti proprio alla prospettiva di una progressiva integrazione delle regioni del Kosovo nello Stato albanese che, naturalmente, se questo avverrà, potrebbe mettere in moto, come è già avvenuto, dei processi di risveglio albanese in tutti quei Paesi vicini in cui rilevante è la componente albanese, penso alla Macedonia, alla stessa Grecia della zona dell’Epiro, penso alla zona del Montenegro. Per la Serbia è una questione particolarmente delicata, una questione che ha a che fare con la sovranità nazionale, la Serbia ha patito quella che considera una umiliazione ed una ingiustizia ed è evidente che questa cosa più o meno sotto traccia a prescindere, insomma, dall’enfasi che ad essa danno i diversi leader ed esponenti politici serbi pesa e continuerà a pesare.

 

 

Dacic ha dichiarato a metà marzo che Pristina non è ancora pronta ad un accordo perché ha le spalle coperte dal potere statunitense. Lei poc’anzi ha già espresso la centralità della regione per Washington. Dato per certo il ruolo degli Stati Uniti in Kosovo, Le chiedo se, oggi, la Federazione Russa può avere un ruolo da protagonista in Kosovo e, più in generale, nella regione balcanica.

La Federazione Russa un ruolo da protagonista sul palcoscenico balcanico lo ha avuto e credo che continuerà ad averlo. D’altra parte la Federazione Russa fa parte dei famosi BRICS, è un Paese in espansione economica, che gode grazie alle risorse naturali di possibilità economiche, che significano anche possibilità di pressione politica, rilevanti. Però, che questo, nel breve e medio periodo consenta, come dire, di bilanciare la situazione mettendo la Serbia, dal punto di vista negoziale e diplomatico, sullo stesso piano del Kosovo mi sembra improbabile. Anche perché non credo che la Federazione Russa si voglia spendere più di tanto per una causa che, temo, sia perduta. La Serbia in questo momento è in una posizione di grande debolezza: è rimasta isolata dopo la guerra, lo è per certi versi tutt’ora. È chiaro che l’Albania è in una posizione tutta diversa. È vero quanto da lei riportato che l’Albania e in particolare intendo il Kosovo albanese e il suo governo si trovi in una posizione di forza perché evidentemente alle loro spalle ci sono gli Stati Uniti.

Non altrettanto chiaramente dietro il Governo di Belgrado e le sue richieste vedo la Federazione Russa perché appunto rimanendo verissima la solidarietà che i russi hanno sempre dimostrato in questi ultimi anni nei confronti della Serbia e anche durante il conflitto,  o subito dopo, non so quanto vogliano e si possano spendere per la causa serba e non so se questo è nell’interesse prioritario della Federazione Russa.

 

 

E l’Unione Europea che interesse ha nella regione in generale ed in Kosovo in particolare?

L’Unione Europea nella regione balcanica ha sempre avuto…anzi, meglio, l’Unione Europea nella regione balcanica avrebbe sempre dovuto avere un interesse che era quello di evitare la destabilizzazione dell’area, di evitare l’aumento della conflittualità e che, soprattutto, la conflittualità scattasse a livello violento. Purtroppo, a partire dagli anni ottanta e i primissimi anni novanta l’Europa si è presentata spesso, quasi sempre, divisa e poco efficace da un punto di vista diplomatico su quello scenario. Le conseguenze le conosciamo: in fin dei conti, anche il fatto che la crisi scoppiata nell’ex Jugoslavia nel momento in cui la Federazione si trovò coinvolta in quel cataclisma geopolitico che era stato la fine della guerra fredda e il crollo del Muro con quel che ne è conseguito, andare fuori controllo di quella situazione fu dovuta anche a certe iniziative, più o meno affrettata, di rilevanti attori dello scenario politico europeo a cominciare probabilmente dalla stessa Germania: i riconoscimenti affrettati, non concordati con i partner e così via.

Non mi sembra, ad essere onesto, che le cose da allora siano cambiate molto a prescindere dal fatto che ci sia adesso Lady Ashton e una presunta politica estera condivisa. L’Europa politica vive un momento di grande crisi, inutile nascondercelo, e che quindi riesca, possa e voglia nel futuro immediato, in particolare qualora si verificassero nuove crisi locali, e spero che questo non avvenga, giocare un ruolo maggiormente significativo del ruolo giocato in passato mi sembra improbabile, non vedo gli elementi che potrebbero giustificare un’asserzione, un’affermazione di questo tipo.

 

 

Lo intravede un futuro europeo di Serbia e Kosovo? Crede che l’opzione europea sia quella cui ambiscono i due Governi oppure ci sono altre opzioni?

Mah, fino a pochi anni fa avrei detto che l’opzione europea fosse un’opzione pressoché obbligata. Sia per ragioni, se vogliamo, ideali, storiche e culturali perché evidentemente stiamo parlando di territori che sono a buon diritto e a buona ragione europei, che sono nel cuore dell’Europa, che sono strettamente legati alla storia dell’Europa, anche se per secoli sono stati territori di confine e territori che sono stati sotto il controllo di una potenza, l’Impero Ottomano, che non era potenza europea. Indubbiamente, nei primi anni novanta, il riferimento di tutta quell’area geopolitica dei Paesi balcanici che uscivano da decenni di regimi comunisti era ed è stata l’Europa. Indubbiamente c’è stata un’ondata di entusiasmo che ha preceduto, accompagnato e seguito l’ingresso in Europa di Paesi di quell’area come la Romania o più a Nord la Polonia.

Nel frattempo, però, sono cambiate tante cose. Sono cambiate tante cose perché il progetto europeo di integrazione è in crisi, molti Stati europei, in particolare quelli che sono più vicini per vari aspetti di natura geografica e culturale agli Stati balcanici, sono quelli che in questo momento si trovano in grave crisi economica e finanziaria all’interno dell’Unione. Al tempo stesso c’è stato, a partire dall’anno 2000, un evidente risveglio e il manifestarsi di una politica estera e di difesa molto muscolare da parte della Federazione Russa che è chiaro è legata a quei popoli, in particolare al popolo serbo da vincoli storici e culturali di antica data, mentre a Sud c’è un risveglio di tipo neo-ottomano: la Turchia è un Paese che sta bruciando le tappe sulla via dello sviluppo, è un Paese in enorme crescita, che ha sfiorato il 6% di incremento annuo del PIL dal 2007 ad oggi, cioè, negli anni di peggior crisi per l’eurozona. L’Euro è una moneta, in questo momento, forte ma l’area economica cui essa fa riferimento non è altrettanto forte in tutte le sue componenti. Cresce l’euroscetticismo, sia all’interno di Eurolandia che, ovviamente, fuori dai confini di Eurolandia. Gli stessi turchi, per esempio, che fino a qualche anno fa erano particolarmente ansiosi ed esercitavano forti pressioni per entrare in quella che poi è diventata l’Unione Europea oggi mi paiono molto più prudenti e scettici e, alla fine, abbastanza disponibili anche a rimanerne fuori visto che sono stati tenuti alla porta a lungo e oggi vedono venir meno di, non dico tutte, alcune condizioni che li avrebbero resi entusiasti partecipi del processo di costruzione europea.

Quindi, se mettiamo assieme tutte queste cose, oltre alle crisi locali come ad esempio i risentimenti serbi nei confronti dell’Europa specie nei confronti di alcuni Stati dell’Europa e che, penso alla Spagna, ci siano risentimenti di alcuni stati europei su come è stato risolto il conflitto serbo – albanese sul Kosovo, tutto questo, dicevamo, delinea un quadro che mi fa dire che quella europea sia l’unica opzione anche se, personalmente, potrei anche auspicare un ulteriore allargamento dell’Unione europea in quell’area eccetera. Però, realisticamente, ci sono tutte queste condizioni nuove che lo rendono molto più difficile.

 

 

Chiudo con questa domanda: possibile un nuovo atto di forza per risolvere la questione?

Un atto di forza potrebbe essere pericoloso e controproducente. Non credo che la Serbia, poi, si trovi in condizioni economico-politiche tali da permetterle nuove avventure. Tutto questo mi lascerebbe propendere per affermare che tutto è possibile in politica ma che ci sono cose molto poco probabili.

 

 Firenze, 3 aprile 2013.

 

 

*Luciano Bozzo, Professore associato, insegna Relazioni Internazionali e Studi Strategici nel Corso di laurea triennale in “Studi internazionali” dell’Università di Firenze. Insegna inoltre nei Corsi di laurea specialistica in “Relazioni internazionali” e in “Scienze aeronautiche”, al Master in “Comunicazione e Media” dell’Università di Firenze e al Master in “Human Rights and Conflict Management” della Scuola Sant’Anna di Studi Universitari e Perfezionamento di Pisa. È Direttore del Centro universitario di Studi Strategici ed Internazionali (CSSI), costituito presso il Dipartimento di Scienza della Politica e Sociologia. Insegna dall’a.a. 1990-1991 Strategia Globale al Corso superiore della Scuola di Guerra Aerea di Firenze. E’ membro dell’International Institute for Strategic Studies di Londra. Ha partecipato come caposquadra alla missione di monitoraggio delle elezioni amministrative in Albania nel 1996. Nel periodo 1998-2001 è stato a più riprese impegnato in Bosnia, nel quadro delle attività per l’applicazione degli accordi di Dayton.

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INTERVISTA A GERARD GALLUCCI

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A cura di Andrea Turi

 

Per prima cosa la ringrazio della sua disponibilità a rispondere alle mie domande. Vorrei cominciare dalle ultime notizie riguardanti le relazioni tra Serbia e Kosovo. In base alla sua esperienza, dopo il fallimento del dialogo a Bruxelles, è ancora possibile che le due parti trovino un accordo nel breve e medio periodo? Se no, perché?

Certamente è sempre possibile raggiungere un accordo tra le parti contendenti ma entrambe devono essere pronte al compromesso e, se c’è un mediatore, il mediatore deve essere neutrale. Il problema fino ad oggi per quanto riguarda il raggiungimento di una soluzione pacifica sul Kosovo è stato che i “mediatori” – Unione Europea e Stati Uniti – non sono stati neutrali e hanno permesso a Pristina di dettare le proprie condizioni.

A partire dal 2008, hanno messo da parte un’agenzia veramente neutrale – le Nazioni Unite (Unmik) – e hanno cercato di imporre una soluzione unilaterale favorevole a Pristina. In passato, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno cercato utilizzando le forze armate – KFOR e EULEX – per spingere i Serbi del Nord del Kosovo ad arrendersi a Pristina. Nelle recenti sessioni del dialogo, l’Unione Europea (seguendo la linea della Germania) e gli Stati Uniti hanno provato a forzare la Serbia ad accettare i termini proposti da Pristina per raggiungere la “sovranità” nel Nord, utilizzando la leva della data per i negoziati di adesione all’UE: questo è stato l’equivalente di un ricatto. E questo continua a non funzionare perché nessun Governo serbo potrà essere giudicato nell’atto di consegnare semplicemente i Serbi del Kosovo nelle mani di Pristina. Speriamo che questo possa dire ai paesi del Quintetto – Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia e Italia – che non ci sarà nessuna soluzione pacifica per il Nord del Kosovo fino a che loro non accetteranno il fatto che si debba trovare un reale compromesso e spingere Pristina ad accettarlo.

 

 

Quindi la sua opinione sull’Unione Europea in qualità di mediatore non è buona.

A guarda dall’esterno – e a giudicare dalla mancanza di risultati – sembra che l’Unione Europa sia stata tutto meno che neutrale ed equilibrata. La sua ultima proposta, a quanto pare, rappresentava un semplice “prendere o lasciare” in cui si chiedeva di accettare il controllo di Pristina sul Nord della regione. Ad essere onesti, può essere stato che Ashton avesse dei limiti posti su di lei dal forte sostegno statunitense per Pristina e, in qualsiasi circostanza, dall’apparente mancanza di entusiasmo di Berlino per l’adesione serba all’Unione.

 

 

Serbia e Europa, quindi. La data di inizio delle negoziazioni è completamente arbitraria e la Serbia, comunque, non avrebbe garanzie che sarà invitata ad unirsi all’Unione Europea in futuro. La “data” rappresenta un puro e semplice mezzo di ricatto per convincere Belgrado ad arrendersi sul Kosovo e niente più?

Questo è ovvio da tutto quello che i leader politici europei e tedeschi hanno detto. È chiaro che il fallimento nel raggiungere un accordo nell’ultimo round dei dialoghi con Pristina significa che la Serbia non ha ottenuto questa data. Fino ad ora, sembra che l’UE si accontenti di mantenere la partecipazione della Serbia in disparte per tutto il tempo che ci vuole affinché la Serbia si arrenda al Kosovo. Un approccio alternativo potrebbe essere quello di consentire alla Serbia di avviare i negoziati per l’adesione con l’aspettativa che nel corso dei prossimi anni, i problemi pratici possano essere risolti e le grandi questioni politiche tra la Serbia e il Kosovo maturare fino al punto di arrivare ad una soluzione.

 

 

Qual è quindi il futuro dei due Paesi? È il cammino europeo, l’opzione europea, la migliore soluzione per entrambi? O, forse, ci sono altre alternative più praticabili, soprattutto per la Serbia?

Sia la Serbia che il Kosovo sono parti dell’Europa. Così come lo sono Macedonia, Montenegro e Bosnia-Erzegovina. Nella misura in cui la stessa Unione europea sopravviverà e prospererà,   appartengono tutti ai suoi confini.

 

 

Torniamo al fallimento del dialogo. Parlava di compromesso. È possibile raggiungere un equilibrio tra le due parti? Ritiene che il piano Ahtisaari sia ancora un soluzione valida e praticabile? 

Il piano Ahtisaari è stato ben progettato per la situazione del Kosovo: forniva un quadro di riferimento per un reale decentramento del Governo locale e collegamenti continui con la Serbia. Ci sono però due problemi: non è stato pienamente realizzato a sud dell’Ibar e avrebbe bisogno di dettagli importanti per essere applicato a Nord dell’Ibar. Questi dettagli ancora da definire fanno perno sul ruolo esatto di Pristina nelle decisioni dei Governi locali nelle municipalità a maggioranza serba, specialmente nei settori di polizia, tribunali e finanziamenti. Ma queste sono questioni pratiche e presumibilmente potrebbero essere risolte attraverso soluzioni pratiche.

 

 

Ritiene ancora che il problema dei “poteri esecutivi” da attribuire all’associazione delle municipalità serbe del Nord del Kosovo sia non un problema ma un “falso problema”? Se è così, quale è il problema vero?

Pristina e i suoi alleati internazionali possono aver sollevato la questione delle autorità “esecutive” come un modo per evitare un reale compromesso. Il piano Ahtisaari è chiaro (allegato 3) quando specifica che le associazioni municipali (nel documento vengono chiamate partnership) possono avere organi decisionali composti da rappresentanti dei Comuni. Le associazioni potranno adottare tutte le azioni necessarie all’implemento ed esercitare la loro collaborazione funzionale attraverso, tra le altre cose, l’istituzione di un organo decisionale composto da rappresentanti nominati dalle assemblee dei comuni partecipanti, l’assunzione e il licenziamento del personale amministrativo e di consulenza, e le decisioni relative al finanziamento e altre esigenze operative del partenariato. Si possono chiamare questi organismi esecutivi o meno, ma ci sono già nel Piano Ahtisaari.

Il vero problema potrebbe essere determinato dalla paura che le associazioni comunali possano diventare una sorta di Kosovo Republika Srpska. Ma fino a quando queste non avranno un ruolo nel governo centrale, né in materia di polizia e di tribunali – il Piano Ahtisaari dà il ruolo di protagonista al livello locale del governo municipale – il confronto con la Bosnia sarà discutibile.

 

 

Lei ha affermato (Kosovo – Pristina doesn’t really want negotiations on the Nroth, May 22nd, 2012) che Pristina non vuole negoziazioni sul Nord, vuole il Nord. Pensa che ci potrebbero essere atti di forza per ottenere questa parte del Paese? 

Pristina ha già tentato di introdurre la sua polizia e i suoi agenti doganali nel Nord usando la protezione della KFOR e dell’EULEX. È la polizia speciale (ROSU) che periodicamente molesta i Serbi kosovari che vivono sulla sponda Nord del fiume Ibar. A quanto pare, gli ufficiali di Pristina sono ancora trasportati al confine settentrionale su elicotteri dell’EULEX.  Il Primo Ministro del Kosovo ha già messo in guardia in passato che Pristina avrebbe cercato di imporre la propria autorità nel nord con il sostegno internazionale.

Ma il vero pericolo non è se il Kosovo lancerà il suo esercito o la polizia in qualche massiccio sforzo per la conquista del Nord ma piuttosto il fatto che resta la possibilità per Pristina di intraprendere azioni provocatorie – iniettare le forze di polizia speciali ulteriormente verso nord, più frequenti “ritorni” unilaterali allo scopo di prendere terra – al fine di creare una crisi che “richieda” un intervento da parte della NATO. Speriamo che il Quintetto sia sensibile a questa possibilità e prevenga tali azioni.

 

 

La Serbia è sola e sembra non avere molte altre alternative all’ultimatum proposto da Bruxelles, specialmente se Washington sembra risoluta nell’attuare quello che ha già deciso per il futuro del Kosovo. Secondo lei, la Serbia dovrebbe “accettare” l’ultimatum e continuare il dialogo per evitare di trovarsi davanti ad un fait accompli con la conseguente perdita di tutto il suo potere negoziale?

Non sono io quello che deve dire alla Serbia cosa dovrebbe fare. Ma è chiaro che lo sforzo da parte dell’UE e degli Stati Uniti per mantenere la partecipazione della Serbia all’UE in ostaggio dei disegni sul Nord di Pristina non ha funzionato. Per quanto riguarda la stessa Unione europea, dovrebbe vedere le sue buone ragioni nel portare la Serbia nell’Unione. L’Europa non può essere completa fino a che non include i Balcani. É comprensibile che l’UE non voglia portare al suo interno un’altra divisione che ricorda quella di Cipro. Kosovo e Serbia dovranno, alla fine, riconciliarsi l’un con l’altra. Ma piuttosto che cercare di spingere la Serbia in una situazione in cui ha tutto da perdere, Bruxelles dovrebbe assumere un ruolo guida nella ricerca di un compromesso reale. Lady Ashton finora non si è mossa in questa direzione.

 

 

L’Ambasciatore della Federazione Russa a Belgrado, Aleksandar Cepurin, ha recentemente dichiarato che la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1244 è un documento ancora valido ed in essere. Concorda con il fatto che il luogo giusto per risolvere la questione possano essere le Nazioni Unite?

È certamente vero che la UNSCR 1244 è ancora applicabile in quanto non è mai stata né modificata né ritirata dal Consiglio di Sicurezza. L’ONU è ancora in campo in Kosovo con responsabilità di peacekeeping. L’ONU è un organismo neutrale e anche Pristina dovrebbe essere saggia da permetterne il ruolo se veramente aspira, un giorno, a diventarne membro. Per unirsi all’ONU sembrerebbe indispensabile rispettare l’ONU.

Il problema è la realtà di come funziona l’ONU: lavora nell’ambito del suo mandato ma anche nell’ambito della politica in seno al Consiglio di Sicurezza. Fin d’ora, il Quintetto sembra voglia tenere l’ONU fuori dalla questione in quanto non è in grado di controllare un possibile ruolo neutrale delle Nazioni Unite con la stessa facilità con cui può controllare un coinvolgimento dell’UE. Ma ad essere onesti, la Russia stessa non ha insistito nel riportare la questione al Consiglio di Sicurezza né si è offerta di inviare di nuovo i suoi propri peacekeepers in Kosovo. (Le forze russe hanno partecipato alla KFOR in passato).

 

 

Come reputa il lavoro dell’amministrazione internazionale in Kosovo dal 1999 e l’applicazione del diritto e della legge nel Paese?

UNMIK è stata una missione ampia con molte responsabilità, non tutte compatibili e non tutte con il pieno supporto di tutti i membri del Consiglio di Sicurezza. Inoltre, cadde sotto l’influenza della maggioranza della popolazione che la circondava. Detto questo, credo che la missione abbia fatto il meglio che ha potuto in quelle circostanze. EULEX (e ICO) sono questioni diverse: avevano piena autorità concessa dallo stesso governo del Kosovo. Ma sono caduti preda – con meno scusanti – degli stessi problemi che gravavano sull’UNMIK.

 

 

Un’ultima domanda: quali sono i Paesi che hanno ancora interessi in Kosovo e quali sono questi interessi?

Domanda complessa per una risposta breve. Ma può essere che nessun Paese abbia veri vitali interessi lì. La Germania preferisce un Kosovo “indipendente” così da rinviare lì i migranti. Gli Stati Uniti vogliono qualunque cosa gli albanesi del Kosovo vogliono e si accontentano di lasciare i problemi all’UE. L’UE vuole che gli venga riconosciuta con successo la gestione di un importante sforzo nella costruzione di una Nazione. Nessuno di questi interessi, però, stanno apparentemente premendo al punto di determinare politiche efficaci che si occupino delle questioni interne del Kosovo – come la corruzione e la criminalità – o producendo un vero sforzo per risolvere il problema del Nord.

 

 

* Gerard Gallucci, ex inviato delle Nazioni Unite in Kosovo (2008).

 

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INTERVISTA A SHKELZEN GASHI

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Intervista a cura di Andrea Turi     

 
Vorrei iniziare con le ultime novità circa i rapporti tra la Serbia e il Kosovo. L’accordo tra Belgrado e Pristina è stato firmato sulla base di 15 punti. Qual è lo scenario futuro che prenderà vita in questa situazione? Sembra di essere di fronte a una nuova Republika Srpska.

L’Interim Agreement For Peace and Self-Governance in Kosovo (Rambouillet Agreement, 1999), accettato dalla Delegazione del Kosovo ma non da quella della Serbia, prevedeva che i Serbi del Kosovo avessero un’autonomia all’interno del Kosovo, un’autonomia non-territoriale, solo in altri campi. Il Comprehensive Proposal for the Kosovo Status Settlement (Martti Ahtisaari’s Proposal, 2007), che è stato accettato dalla Delegazione del Kosovo ma non dalla Delegazione della Serbia, ha rafforzato l’autonomia dei Serbi in Kosovo. Inoltre, la proposta avanzata da Martti Ahtisaari ha creato le basi per l’autonomia territoriale dei Serbi in Kosovo, perché in base a questa proposta le municipalità in cui i Serbi del Kosovo sono in maggioranza hanno il diritto di creare un partenariato o un’associazione e di cooperare con le istituzioni della Serbia e di ricevere da queste aiuto finanziario. Adesso, con il First Agreement of Principles Governing the Normalization of Relations (Brussels’ Agreement 2013), firmato da entrambe le delegazioni, l’autonomia dei Serbi è stata ampliata a campi che non erano inclusi nel Rambouillet Agreement (1999) e nella proposta di Martti Ahtisaari: tribunali, polizia, istituzioni politiche. Le basi per una autonomia dei Serbi in Kosovo è cementata. Quindi, sì, siamo davanti ad una nuova Republika Srpska e se i Serbi in Kosovo sfrutteranno questa opportunità, allora alla fine di questo decennio potranno essere un’entità politica come la Republika Srpska.

 

 

A prima vista, dopo una rapida analisi, si potrebbe avere l’impressione che i “15 punti” si muovano sulle linee del precedente Piano Ahtisaari respinto. In sostanza, che cosa c’è di diverso?

Il piano Ahtisaari offre ai Serbi in Kosovo un più alto livello di autonomia in questi campi: lingua, eduzione, media, sanità, finanze e religione. Pertanto, la piattaforma politica della Serbia non ha demandato ulteriori diritti in questi campi. La Serbia ha richiesto diritti addizionali in tre campi: forze di polizia, tribunali e istituzioni politiche. Per quanto riguarda il campo della polizia, tutte le municipalità in cui i Serbi kosovari sono in maggioranza, stando alla proposta Ahtisaari, hanno il diritto di eleggere il comandante delle stazioni di polizia, mentre una catena di comando unificata per i servizi di polizia dovrebbe essere conservata in tutto il territorio del Kosovo. Pertanto, la piattaforma politica della Serbia chiedeva una polizia autonoma, formalmente parte del Kosovo, che avrebbe dovuto funzionare sotto l’autorità dell’Executive Council of the Community of Serb Municipality in Kosovo. Questo è garantito, più o meno, dall’accordo di Bruxelles. Fino ad ora, le strutture di sicurezza serbe nel nord del Kosovo sono state pagate dal Governo della Serbia, mentre da adesso, saranno pagate dal Governo del Kosovo, perché formalmente appartengono alla Polizia kosovara, ma il loro comandante sarà eletto dalla Comunità delle Municipalità serbe in Kosovo.

In campo giudiziario, stando alle disposizioni del piano Ahtisaari, le municipalità a maggioranza serba, in un certo modo, avevano il diritto di costituire tribunali distrettuali, mentre la piattaforma politica del Kosovo  chiedeva che i tribunali nella regione della Comunità delle municipalità serbe del Kosovo avesse l’autorità di decidere su tutte le tematiche giudiziarie. L’Accordo di Bruxelles dispone che la Corte d’Appello di Pristina stabilirà un quadro di riferimento per trattare con tutte le municipalità kosovare a maggioranza serba, ma dall’altra parte, enfatizza il fatto che le autorità giudiziarie dovranno operare all’interno della cornice legale del Kosovo.

Per quanto riguarda le istituzioni politiche, la proposta di Martti Ahtisaari prevedeva che le municipalità serbe in Kosovo potessero formare una partnership che avrebbe avuto il diritto di cooperare con le istituzioni della Repubblica di Serbia, ma le cui competenze non erano specificate concretamente. La Serbia nella sua piattaforma politica ha affermato che la Comunità della Municipalità Serbe in Kosovo avrebbe dovuto avere la sua Assemblea e il suo Consiglio Esecutivo. Con l’Accordo di Bruxelles, la Comunità delle Municipalità serbe in Kosovo avrà l’Assemblea, il Consiglio Esecutivo e il Presidente. Avrà anche il suo statuto. L’Accordo di Bruxelles è appena il primo accordo, così con i prossimi accordi che saranno raggiunti presto, le competenze della comunità saranno definite più concretamente, non solo nei campi citati in questo accordo ma anche in altri.

 

 

Ora, sarà possibile portare le questioni dalla carta al terreno? Che problemi ci potrebbero essere per l’attuazione dei “15 punti”?

Fondamentalmente ci sono due ostacoli per l’attuazione dell’accordo di Bruxelles: i Serbi del Kosovo e il Movimento Vetëvendosje! (Autodeterminazione!). Sono sicuro che i Serbi del Kosovo saranno neutralizzati dalla Serbia perché dall’implementazione dell’Accordo di Bruxelles dipende l’integrazione della Serbia in Europa. Inoltre, i Serbi kosovari con quest’accordo guadagnano più che gli Albanesi. Inoltre, sono sicuro che il movimento Vetëvendosje! non sarà in grado di fermare l’attuazione dell’Accordo di Bruxelles, ma alle prossime elezioni, l’Accordo di Bruxelles sarà una delle ragioni che influenzeranno la crescita di Vetëvendosje!.

 

 

Con la cosiddetta “normalizzazione” nel nord del Kosovo, la Serbia riconosce “de jure” la sovranità di Pristina, “de jure”, ma non “de facto”. Un punto sicuramente a favore di Belgrado è l’annullamento della disposizione che consente l’associazione di Pristina alle organizzazioni internazionali. Quindi, è l’accordo tra la Serbia e il Kosovo è vantaggioso per entrambi o qualcuno ha guadagnato di più?

È vero che con l’accordo di Bruxelles la Serbia riconosce la legislazione del Kosovo, in particolare per quanto riguarda la polizia, i tribunali, l’organizzazione di elezioni, e così via. Questo è un riconoscimento estremamente implicito della sovranità “de jure” del Kosovo, mentre, d’altro canto, il Kosovo ha riconosciuto esplicitamente l’autonomia dei Serbi in Kosovo, anche con forti competenze. L’Accordo sarebbe stato di comune vantaggio solo se la Serbia avesse riconosciuto esplicitamente l’indipendenza del Kosovo.

Secondo me, il Kosovo dovrebbe dare l’autonomia ai Serbi perché loro hanno sofferto molto dopo il 10 giugno 1999 e specialmente durante le rivolte del 17-18 marzo del 2004, ma la Serbia dovrebbe riconoscere esplicitamente l’indipendenza del Kosovo e gli Albanesi, nei territori in cui i Serbi hanno l’autonomia, dovrebbero avere gli stessi diritti che i Serbi nella Repubblica del Kosovo.

Inoltre, non ci dimentichiamo che la parte Nord del Kosovo è sotto il controllo dei Serbi e della Serbia con il forte sostegno della comunità internazionale perché dopo l’ingresso delle truppe NATO in Kosovo, i membri del KLA hanno ricevuto l’ordine dai propri comandanti di non attraversare il ponte sul fiume Ibar perché, altrimenti, la NATO gli avrebbe sparato.

 

 

Ora, quale è il futuro del Kosovo? Quale sarà l’impatto dell’accordo sulla scena politica del Kosovo?

Il futuro del Kosovo è molto scuro. Il più grande problema del Kosovo, secondo me, è il Primo Ministro Hashim Thaci perché è pronto a firmare qualsiasi cosa gli chieda l’Unione Europea solo per salvare se stesso dalle accuse di crimini di guerra e corruzione. Pertanto, la Serbia ha guadagnato di più con questo accordo grazie al fatto che il Kosovo era rappresentato, in queste negoziazioni, da Hashim Thaci.

Per quanto riguarda, invece, l’impatto dell’accordo sullo scenario politico del Kosovo, sono sicuro che il Partito Democratico del Kosovo (Partia Demokratike e Kosoves – PDK) del Primo Ministro, Hashim Thaci, subirà una flessione alle prossime elezioni, mentre il primo partito di opposizione, per numeri, la Lega Democratica del Kosovo (Lidhja Demokratike e Kosoves) subirà un drastico ridimensionamento, e allo stesso tempo, il movimento Vetëvendosje! crescerà.

 

 

Parlando della Grande Albania, qualcosa di fattibile o solo un sogno politico? L’esito delle prossime elezioni albanesi avranno una certa importanza per il futuro del Kosovo?

Per il momento gli Albanesi non sono in una situazione tale da imporre il progetto di unificazione tra il Kosovo e l’Albania. Questo progetto può essere realizzato solo se è nell’interesse della comunità internazionale, o per meglio dire, nell’interesse degli Stati Uniti. Mentre, per quanto riguarda i risultati delle elezioni in Albania, non hanno alcuna importanza per il Kosovo, perché la presa di posizione dei principali partiti politici lì – PD e PS – nei confronti del Kosovo è simile: essi sostengono ogni progetto della comunità internazionale per il Kosovo.

 

 

Qual è la vostra opinione sul lavoro svolto dall’Unione Europea come mediatore? Pensa che abbia mantenuto una posizione neutrale ed equilibrata tra le parti?

L’Unione Europea come mediatore in questo processo non ha preso in considerazione almeno due meritevoli suggerimenti dati da uno dei più diligenti mediatori internazionali nella crisi della ex-Jugoslavia, l’ambasciatore Geert-Hinrich Ahrens, nel suo libro Diplomacy on the Edge: Containment of Ethnic Conflict and the Minorities Working Group of the Conferences on Yugoslavia: 1) gli interlocutori devono essere scelti con cura e quelli che rappresentano interessi criminali devono essere rifiutati, 2) non è soddisfacente raggiungere un risultato attraverso pressioni sul lato più debole nei negoziati.

 

 

Qual è la vostra opinione sul lavoro della comunità internazionale in Kosovo?

In sostanza la comunità internazionale in Kosovo ci ha cambiato l’occupazione. Ora non abbiamo la Serbia, ma abbiamo un’ élite politica criminale, che ha distrutto il Kosovo come fece la Serbia durante gli anni novanta. Una parte considerevole di responsabilità del fatto che abbiamo un’élite politica criminale è dovuta alla comunità internazionale in Kosovo, che ha avuto competenze complete nei settori della polizia e dei tribunali nella regione. Inoltre, la comunità internazionale ha avuto forti prove, ma si è rifiutata di arrestare i malviventi che hanno usurpato la scena politica in Kosovo.

 

 

Com’è che la società civile ha accolto la notizia dell’accordo?

Sfortunatamente, non abbiamo una società civile. Ho l’impressione che, per una parte considerevole della popolazione, sia chiaro che il Kosovo avrebbe potuto ottenere un accordo migliore se non fossimo stati rappresentati da Hashim Thaci.  Ma, non va dimenticato, la maggior parte dei mezzi di comunicazione in Kosovo, tra cui la televisione pubblica, è sotto il controllo del governo.

 

 

Ultima domanda: parafrasando il titolo del libro di Denis MacShane, il Kosovo è ancora importante sullo scacchiere internazionale? Perché? Se no, perché no?

Il Kosovo sarà importante sulla scacchiera internazionale almeno finché l’EU e gli USA non avranno messo la Serbia sotto il loro controllo. L’obiettivo principale degli Accordi di Rambouillet era di mettere sotto controllo della NATO non solo il territorio del Kosovo, ma anche quello di Serbia e Montenegro. Così, il Kosovo è stato utilizzato come pretesto per porre la Serbia e Montenegro sotto controllo NATO. In modo simile, l’UE con l’Accordo di Bruxelles per porre la Serbia sotto il proprio controllo sta usando il Kosovo attraverso la legalizzazione della forte presenza serba in Kosovo. Il Kosovo ha riconosciuto l’autonomia dei Serbi in Kosovo, mentre la Serbia non è stata forzata a riconoscere l’indipendenza del Kosovo.

 

 

 

* Shkelzen Gashi è un politologo kosovaro indipendente. Pubblica frequentemente nella stampa kosovara analizzando fenomeni che caratterizzano la realtà politica del Kosovo oggi. Si occupa in particolar modo della società civile in Kosovo dopo la fine del conflitto del ’99.

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PRESENTAZIONE DEL LIBRO “LA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN TRA ORDINAMENTO INTERNO E POLITICA INTERNAZIONALE”: EVENTO A ROMA

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Il 15 giugno a Roma verrà presentato il libro “La Repubblica Islamica dell’Iran tra ordinamento interno e politica internazionale”, di Ali Reza Jalali.

Intervengono come relatori all’evento:

  • Giuseppe Aiello (Titolare della casa editrice Irfan Edizioni)
  • Ali Reza Jalali (Autore del libro)
  • Claudio Mutti (Direttore della rivista di geopolitica Eurasia)
  • Ali Puormarjan (Direttore dell’Istituto Culturale dell’Ambasciata della R. I. dell’Iran)

L’evento è organizzato dalla casa editrice Irfan Edizioni, con la collaborazione della rivista di geopolitica Eurasia, l’Associazione Imam Mahdi e l’Istituto Culturale dell’ambasciata iraniana a Roma. Indirizzo: LAB COM, Via Ridolfino Venuti 34/A (Piazza Bologna) Roma (ORE 11). L’ingresso è libero. Vi sarà anche un rinfresco.

 

 

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LA PRIVATIZZAZIONE DELLA POLITICA E IL MOLOCH DELLO SVILUPPO

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La tragedia avvenuta in Bangladesh riaccende i riflettori sulla questione delle esternalizzazioni nella produzione di beni da parte dei grandi marchi. La produzione materiale di abiti, macchinari e accessori tecnologici avviene spesso in Paesi del terzo mondo o cosiddetti emergenti; se da una parte c’è l’ovvia e immediata ragione economica (produrre in quei Paesi, dove le telecamere non sono mai accese, a costi ridottissimi e mantenendo in condizioni di semi-schiavitù la forza lavoro), dall’altra c’è anche la questione del marchio.

Il vero marchio trascende il prodotto in sé e diventa un’esperienza di vita, diventa filosofia di vita e parte della vita stessa, trascende il prodotto fisico anzi, il sogno dei grandi guru dei marchi è proprio quello di disfarsi del prodotto e di vendere il concetto, l’esperienza, l’emozione che esso contiene. Diventa difficile parlare di territorialità e di legame con il territorio quando si tratta di questi colossi, e internet diventa quindi lo spazio ideale per i marchi, “liberati dai Paesi del mondo reale dei negozi e della produzione, questi marchi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come diffusori di merci o servizi quanto come allucinazioni collettive” (1).

La politica non è da meno e le due amministrazioni Bush Jr. hanno attinto a piene mani dal modello delle hollow corporations, consultando esperti di indagini di mercato e di marchi. Difesa dei confini, protezione civile, intelligence e missioni militari all’estero sono state tutte appaltate a settori privati; il direttore del fondo di finanziamento, Mitch Daniels, ha espresso chiaramente il concetto: “il governo non ha il compito di fornire servizi, ma di accertarsi che siano forniti”. Chealrotte Beers, che aveva diretto diverse agenzie pubblicitarie, venne assunta come sottosegretario alla Diplomazia e agli Affari Pubblici e le critiche per quella nomina furono respinte dal segretario di Stato Colin Powell con queste parole: “Non c’è niente di male ad assumere una persona che sappia vendere. Noi vendiamo un prodotto, e ci serve qualcuno che possa rinnovare il marchio della politica estera e della diplomazia americana”.

La Lockheed Martin, famosa tra le altre cose per la paternità dei discussi caccia F-35, è il più grande appaltatore al mondo della difesa, e un’inchiesta del 2004 del “New York Times” elencava tutti gli ambiti in cui opera, tra cui l’organizzazione del censimento nazionale, la gestione dei voli spaziali e l’assistenza sanitaria. La privatizzazione della politica si estende anche oltre i patri confini: l’occupazione militare dell’Iraq ha visto un consistente impegno di compagnie private quali Blackwater e Halliburton. Quando uomini della Blackwater aprirono il fuoco in piazza Nisour a Baghdad, uccidendo diciassette civili, l’amministrazione statunitense se ne lavò le mani scaricando sugli appaltatori tutta la responsabilità, e la compagnia risorse rinnovando il marchio e assumendo il nuovo nome di Xe Services.

Gli attentati dell’11 settembre 2001 strinsero la nazione attorno al presidente Bush, molto contestato e molto poco apprezzato, e raccolsero molti Paesi europei e non, ostili a quell’amministrazione, attorno agli USA, cosicché l’intervento militare in Afghanistan venne accettato. La guerra all’Iraq fece però scendere nuovamente le quotazioni della Casa Bianca all’estero e a lungo andare anche all’interno della nazione. Il marchio USA era ai minimi storici, finché non arrivò Obama.

Barack Obama, durante la sua prima campagna presidenziale, ricevette più finanziamenti da Wall Street di qualsiasi altro candidato e, una volta eletto presidente, ha confermato nei gangli delle istituzioni economiche e finanziarie persone come Ben Barnake, e continua tuttora sulla strada neoliberista.
Le strategie geopolitiche statunitensi non cambiano: ostilità aperta nei confronti dell’Iran, un uso intensificato dei droni nelle zone di guerra, sostegno incondizionato a Israele (nonostante l’evidente e autentica antipatia di Obama per Netanyahu), opposizione a un blocco europeo unitario, Guantanamo rimane tuttora aperta e funzionante e Obama si è opposto ai processi contro i responsabili di Bush che autorizzarono le torture (2).

Si assiste così a una progressiva privatizzazione dello Stato e della res publica e delle relazioni internazionali. Il liberalismo economico è diventato un modello per i governi occidentali, d’altra parte il capitalismo è anche il portatore di una sua propria antropologia, quella dell’Homo  oeconomicus con la relativa riduzione di qualsiasi cosa a merce, a valore economico con una conseguente tendenza a ridurre i costi. La penetrazione del modello occidentale, che ha come modello gli Stati Uniti  ma che ormai li ha superati e inglobati, passa attraverso la proliferazione dei bisogni di nuovi beni da acquistare.

Il modello dello sviluppo prevede sempre nuovi consumatori e nicchie di mercato in ogni angolo del mondo, poiché ha bisogno di una inarrestabile ed esponenziale crescita. La crisi strutturale che stiamo vivendo e la consapevolezza che questo modello di crescita infinita non si concilia con un sistema chiuso e finito, quale è il nostro pianeta, stanno accelerando e diffondendo ideologie alternative, quali comunitarismo e decrescita.

Inquinamento e sfruttamento dell’ambiente stanno facendo sensibilizzare l’opinione pubblica, senza però mettere veramente in discussione il nostro modello, facendo così parlare di sviluppo sostenibile e di green economy; ma, come scrive Serge Latouche, per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell’impresa sviluppista, siamo entrati nell’era degli sviluppi con l’aggettivo. […] Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette veramente in discussione l’accumulazione capitalista. […] Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo […] si regge sempre su idee di cultura, natura, giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. […] Lo sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma non le cose”.

Qual è allora un modello credibile e alternativo a quello dello sviluppo? Il punto è proprio questo: non esiste una grande potenza o un continente, una confederazione di stati e nazioni che possa offrirne uno. Crollato il blocco sovietico, è crollato anche il contrasto tra due grandi modelli e quello sopravvissuto ha invaso il mondo, sia pure con adattamenti particolari. Si tratta quindi di trovare una via che non metta al centro il profitto e i mercati, ma comunità, identità e non veda il pianeta contemporaneamente come una miniera da sfruttare indefinitamente e come discarica.

 

 

* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.

 

 

(1)N. Klein, No Logo, p. 53

(2) http://www.eurasia-rivista.org/il-marchio-statunitense/18674/

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STRATEGIA DIPLOMATICA CINESE: LI KEQIANG IN VIAGGIO VERSO L’EUROPA

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Il primo ministro cinese Li Keqiang ha incontrato il presidente pakistano Asif Ali Zardari ad Islamabad, dove si trova per la seconda tappa del suo viaggio diplomatico che durerà nove giorni, inaugurato in India, e che si concluderà in Europa, nella fattispecie in Svizzera ed in Germania.

Li Keqiang incontrerà anche il nuovo primo ministro Nawaz Sharif, leader della Lega Musulmana Pakistana, uscita vincente dalle elezioni dell’ 11 maggio scorso; è stata la prima volta che il Pakistan è andato alle urne dopo un regolare completamento della legislatura, dal momento che, in precedenza, i governi sono stati sempre interrotti da colpi di Stato militari. Notevole è stato l’incremento della partecipazione al voto, tuttavia, sono seguite proteste per presunti brogli.

Il Pakistan attualmente sta affrontando una rilevante crisi economica e registra un alto tasso inflattivo; una maggiore cooperazione sino-pakistana diviene funzionale in tal senso. Per la Cina il Pakistan rappresenta una regione chiave dell’Est asiatico, un canale importante per penetrare nel mondo islamico. Inoltre, Gwadar e i più facili collegamenti coi produttori di idrocarburi consentono a Pechino di aggirare le incertezze che nascono dal “dilemma di Malacca” e dalle tensioni lungo le rotte marittime più trafficate del pianeta.

Il primo ministro Li Keqiang ha assicurato un aumento della cooperazione economica – gli scambi commerciali hanno raggiunto i 12 miliardi di dollari, un incremento del 18% rispetto al 2011 – e di offrire il sostegno necessario affinché il Pakistan possa preservare la propria sovranità ed integrità territoriale.

Il 19 maggio il primo ministro Li ha incontrato il corrispettivo indiano Manmohan Singh.

La scelta dell’India come prima tappa è emblematica se consideriamo le recenti tensioni territoriali; lo scorso aprile Nuova Delhi ha accusato alcune truppe cinesi di aver sconfinato in un’area storicamente contesa.

“Non neghiamo che ci siano problemi tra le due parti – ha dichiarato Li Keqiang – E’ necessario migliorare i meccanismi di confine e renderli più efficienti”.

Obiettivo principale della visita è preservare la pace e la tranquillità, e rafforzare gli interscambi commerciali; i dirigenti dei due Paesi più popolosi del mondo hanno firmato 8 accordi di cooperazione. Il 21 maggio il ministro cinese ha presenziato alla cena del vertice sul commercio, durante il quale ha pronunciato un discorso di incoraggiamento alle imprese ad ampliare la collaborazione.

Il viaggio diplomatico di Li Keqiang proseguirà in Europa; intanto, è stata ufficializzata la notizia dell’incontro tra il Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping con il Presidente degli Stati Uniti Obama, annunciato dal portavoce del ministero degli Esteri Qin Gang.

Sarà una visita diplomatica “non ufficiale” a sottolineare l’importanza data alla sostanza piuttosto che al protocollo nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi; una riproposizione della “diplomazia del ping pong”.

Il ministro degli Esteri Wang Yi ha detto che Xi e Obama discuteranno un “piano globale per il futuro delle relazioni bilaterali, mentre il portavoce del ministero, Hong Lei, ha aggiunto che“l’incontro intende promuovere la comunicazione, la fiducia e la cooperazione reciproca in termini vantaggiosi per entrambi i Paesi, e si propone di contribuire a gestire in modo efficace le loro differenze”.

 

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«… ADDOSSATEVI IL FARDELLO DEL BIANCO – LE BARBARE GUERRE DELLA PACE»

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«… Addossatevi il fardello del Bianco

   Le barbare guerre della pace»

(Rudyard R. Kipling, Il fardello dell’uomo bianco)

 

 

Difficile, a prima vista, trovare un punto di contatto fra il suicidio spettacolare di un intellettuale nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi (21 maggio) e la macellazione rituale di un soldato britannico in un sobborgo di Londra (22 maggio).

Tutt’al più, la furia del giovane inglese di colore che si è riversata sul militare reduce dall’Afghanistan sembra suggerire la correttezza delle riflessioni di Dominique Venner sui pericoli che minacciano “la patria francese ed europea”.

Paradossalmente, invece, il gesto estremo di Venner anticipa la denuncia di Michael Olumide Adebolajo — che non parla certo a nome dell’Islam, ma che tuttavia si fa portavoce di un disagio diffuso meritevole di maggiore e più approfondita considerazione da parte dell’Occidente — il quale così si esprime nell’ultimo messaggio lanciato pubblicamente prima dell’arresto:

«We swear by almighty Allah we will never stop fighting you. The only reasons we have  done this is because Muslims are dying every day. This British soldier is an eye for an eye, a tooth for tooth. We must fight them. I apologise that women had to witness this today, but in our land  our women have to see the same. You people will never be safe. Remove your government. They don’t care about you.» — “Per Allah onnipotente, noi giuriamo che non smetteremo mai di combattere contro di voi. La sola ragione per cui abbiamo fatto questo è che i Musulmani muoiono ogni giorno. Questo soldato inglese rappresenta soltanto un occhio per occhio, dente per dente. Noi dobbiamo combattere contro di loro. Mi scuso con le donne che hanno dovuto assistere a questo, ma nella nostra terra le nostre donne devono vedere le stesse cose. La vostra gente non sarà mai al sicuro. Cambiate governo. Al vostro governo non importa niente di voi”.

Mi spiego meglio. I francesi, galanti e galantuomini ma anche pragmatici, sono soliti dire che nella vita di una donna non conta il primo uomo, ma l’ultimo. Questa dell’ultimo impegno mi è sempre parsa un’osservazione pertinente, e suscettibile di applicazione in molti ambiti: così, non m’interessa che cosa Venner abbia fatto nei suoi 78 anni di vita — combattente in Algeria, militante e intellettuale di destra, amante di caccia e armi, pagano etc. M’interessa invece quello che Venner ha lasciato scritto nell’ultimo post del suo blog (http://www.dominiquevenner.fr/2013/05/la-manif-du-26-mai-et-heidegger/) e nel messaggio lasciato sull’altare di Notre-Dame.

Sul blog, dopo aver denunciato l’ “infamia” della legge a favore dei “matrimoni” omosessuali, Venner parla di una “tradizione europea che rispetta la donna” e dell’ “islam che non la rispetta”; parla di una “Francia caduta in potere degli islamici”; parla del “pericolo catastrofico” di una sostituzione della popolazione di Francia ed Europa con una popolazione afro-maghrebina; parla di “riconquista della memoria identitaria francese ed europea”. Nel messaggio, denuncia “gli immensi pericoli per la patria francese ed europea”, la distruzione degli “ancoraggi identitari” e “il rimpiazzo delle nostre popolazioni”.

Ora, a parte ogni valutazione sugli omosessuali, scendiamo nello specifico: ammetto serenamente di faticare non poco a comprendere in cosa una legge che, consentendo il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso, attua di fatto una politica di normalizzazione della trasgressione possa nuocere alla tradizione e all’identità della patria francese ed europea più dell’appoggio senza riserve alle guerre imperialiste americane; più del sostegno incondizionato all’entità sionista che occupa militarmente la Palestina; più della totale acquiescenza verso l’occupazione americana del suolo europeo che si protrae da settant’anni; più dell’islamofobia e dello “spirito di crociata” instillato da George Bush jr. nelle torpide coscienze occidentali all’indomani dell’11 settembre.

Con tutto il rispetto per le opinioni e le scelte di Dominique Venner e di chi la pensa come lui, non posso non rilevare che da decenni, ormai, da più parti si afferma a gran voce la necessità imprescindibile di liquidare le categorie mentali di “Occidente” e di “Europa”: perché desuete e anzi dannose per la comprensione delle nuove dinamiche planetarie — e tutto questo a maggior ragione dopo la catastrofe dell’11 settembre 2001: intendendo qui catastrofe nel suo senso più strettamente etimologico di “repentino cambiamento di stato”. A partire da quella data, niente è rimasto come prima: la situazione internazionale è mutata radicalmente, e gli eventi hanno subìto un’accelerazione esponenziale con sviluppi imprevisti. Che a più di un decennio da quei fatti si possa ancora parlare con orgoglio di un’Europa (ma quale?!?) da salvare, è cosa che lascia perplessi — me, almeno.

Non trovo, per concludere, parole migliori di quelle scritte da Alain de Benoist proprio in risposta a Dominique Venner («Alain de Benoist répond à Dominique Venner. La droite en questions», in “Eléments”, n. 119, décembre 2005-février 2006): «La fedeltà è, per esempio, la fedeltà alle promesse che si sono fatte, la fedeltà agli amici che si comportano da amici, la fedeltà al compito che ci si è assegnato, la fedeltà al metodo che si è scelto. La fedeltà non è la testardaggine o l’ostinazione, e meno che mai l’alibi dell’impotenza o della rigidità. Non consiste nel ripetere idee false, anche se questo può aiutare a vivere, né nel gloriarsi di non rimpiangere per principio niente di quel che si è fatto».

 

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OBAMA INCONTRA PEÑA NIETO

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Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, forte della sua conferma alla Casa Bianca, ha intrapreso, lo scorso 2 maggio, un viaggio in Messico e Costa Rica, sancendo il riavvicinamento di Washington alla regione centroamericana. All’ordine del giorno temi da sempre al centro dell’agenda messicano-statunitense: regolamentazione dell’immigrazione, lotta al narcotraffico e libero commercio. Obama ha incontrato l’omologo messicano, Enrique Peña Nieto, neoletto nel novembre del 2012, al quale ha confermato la volontà di proseguire il progetto di liberalizzazione commerciale. Immigrazione, commercio e sicurezza rappresentano le sfide che Obama e Nieto dovranno affrontare per dare quell’impulso necessario a concretizzare il tanto decantato progetto d’integrazione nordamericano.

 

 

 

Nodo immigrazione: il dibattito continua

Il tema dell’immigrazione è stato un fattore decisivo per la rielezione di Obama. Negli Stati del Sud, come Texas, California e Arizona, più soggetti al fenomeno e notoriamente conservatori, il voto degli immigrati è stato determinante nella corsa alla Casa Bianca. La forte interdipendenza tra i due Paesi sulla questione dell’immigrazione ha fatto dei messicani i diretti interessati nell’ottica di una riforma del sistema migratorio statunitense, ad oggi incapace di rispondere alle esigenze e alle difficoltà della sua economia.

Secondo Obama è arrivato il momento di rivedere e ripensare le leggi in materia e infatti è stato proposto da quatto senatori un pacchetto di leggi bipartisan che permetterebbe a 11 milioni di “latinos” clandestini (di cui solo 7 messicani) di intraprendere un percorso burocratico che legalizzerebbe la loro permanenza sul suolo statunitense. Non si tratta di un’amnistia, ma semplicemente di dare la possibilità agli immigrati che risiedono da anni negli U.S.A. di essere tutelati da un sistema legale che non preveda la loro espulsione. La riforma prevede anche una forma di facilitazione per le famiglie messicane di ricongiungimento con i familiari clandestini legalizzati in territorio statunitense. Obama otterrà molto probabilmente anche l’appoggio dei repubblicani, che da tempo chiedono delle misure più efficaci per regolarizzare il flusso migratorio attraverso un controllo più esteso e ferreo del confine, unico punto sul quale i due governi  hanno realmente collaborato.

Negli ultimi dieci anni infatti la cooperazione tra Stati Uniti e Messico si è arenata. In un’ottica bilaterale occorre tornare a considerare il Bracero Programm (1942-1964): un accordo firmato da Roosevelt con il governo messicano per l’importazione di lavoratori messicani sul suolo statunitense (quando gli U.S.A. necessitavano di forza lavoro). Nel 2001 erano stati avviati dei colloqui tra l’amministrazione Bush e l’amministrazione Fox per raggiungere ad un accordo bilaterale che avrebbe  dato il via ad una serie di provvedimenti: un programma di reclutamento e inserimento di lavoratori messicani nel mercato del lavoro statunitense; la concessione di permessi di soggiorno; il rafforzamento dei confini con il Messico; un programma d’investimenti in alcune comunità messicane di confine da parte degli Stati Uniti per scoraggiare l’immigrazione clandestina.(1)

Dopo l’attentato dell’undici settembre però, qualsiasi tipo di concertazione e gestione condivisa dell’immigrazione è naufragato. Da quel momento il “migrante” è stato recepito più come un problema legato alla criminalità invece che come risorsa per l’economia statunitense. La politica migratoria di Bush si è orientata su politiche di sicurezza in senso stretto, riducendosi a una serie di provvedimenti di fortificazione delle duemila miglia di confine con il Messico, attraverso un piano di rafforzamento delle frontiere elaborato dal Border Patrol (agenzia di controllo migratorio controllata dal Department of Homeland Security) nel 1986 e ridefinito nel 2005. Dagli anni novanta gli agenti impiegati alla frontiera, equipaggiati con le migliori tecnologie (compresi 6 aircraft), sono aumentati da 3700 a 18500 per una spesa totale di 1 miliardo di dollari.(2) A tali provvedimenti sono state affiancate delle severe politiche d’incarcerazione e rimpatrio dei clandestini.

Sostenere che in questi anni vi sia stata scarsa cooperazione tra Stati Uniti e Messico è quasi eufemistico. L’ex presidente messicano Calderòn ha giocato un ruolo sostanzialmente marginale, limitandosi ad appoggiare senza se e senza ma le politiche di Bush attraverso l’Istituto Nacional de Migracion messicano – organo dipendente del Ministero dell’Intero ed atto a controllare l’immigrazione.

La strategia politica alla base di questi provvedimenti è stata la “prevention through deterrence” (prevenzione attraverso la deterrenza) e cioè una “deterrenza al confine” che avrebbe dovuto scoraggiare il fenomeno dell’immigrazione illegale attraverso delle ferree misure di sicurezza adottate sui punti più vulnerabili della frontiera. L’alta percentuale di “recidivismo migratorio” però tende a sconfessare l’efficacia di questi provvedimenti: secondo uno studio condotto dal Judiciary Committee tra il 2008 e il 2011, il 45 % dell’immigrazione illegale è costituito da messicani che hanno provato più di una volta a oltrepassare il confine.(3)

È altrettanto innegabile però che l’immigrazione clandestina si è ridotta notevolmente negli ultimi anni. Infatti nel 2005 si contavano circa 433.000 immigrati, mentre oggi sono scesi sotto i 150.000.(4)

E’ bene non escludere però un elemento importante a tal proposito, e cioè la forte interdipendenza tra il settore economico e quello dell’immigrazione. Le grandi difficoltà dell’economia statunitense, ufficializzate con l’entrata in recessione nel dicembre del 2007 e la galoppante economia messicana, la cui crescita nel 2013 ha superato il 4 %, hanno costituito un fattore di deterrenza più efficace delle misure insite nel Border Patrol.(5) Esiste un rapporto inversamente proporzionale tra crescita dell’economia in Messico e immigrazione illegale e proprio per questo motivo sia Stati Uniti che Messico hanno interesse a creare un sistema d’immigrazione che funzioni: controllare e organizzare tale criticità gioverebbe enormemente alle economie di entrambi gli Stati). Tuttavia è necessario che la forte asimmetria in materia d’immigrazione tra Washington e Città del Messico venga superata e che quest’ultima giochi un ruolo più attivo, senza dover subire e dipendere continuamente dalle riforme d’oltre confine.

a seguito dell’incontro tra i due Presidenti non è previsto un accordo bilaterale, ma Nieto ha affermato che fornirà tutto il suo appoggio per una riforma dell’immigrazione statunitense all’insegna di una “comprehensive policy”. Senza dubbio i due Stati continueranno a collaborare sulla “deterrenza al confine”. Ciò che forse ci si aspetta da questa interazione Obama-Nieto – che sembra poter trovare maggiori spazi di collaborazionismo rispetto alla coppia Obama-Calderon- è che venga considerato maggiormente l’elemento della “deterrenza entro i confini”, cercando dunque di puntare (attraverso il sostegno finanziario degli U.S.A.) sul mercato del lavoro messicano per scoraggiare il fenomeno dell’immigrazione illegale.

 

Criminalità e sicurezza: un nuovo approccio con l’amministrazione nieto?

Durante l’incontro tra Obama e Nieto è stato affrontato il tema del narcotraffico. La situazione di violenza generatasi in Messico negli ultimi 18 mesi, frutto del flusso bidirezionale creatosi tra i due Paesi- con la droga che parte dall’America del Sud e arriva negli Stati Uniti e le armi che fanno il percorso inverso-  testimonia l’inadeguatezza con cui è stato gestito il problema sino ad oggi. C’è molto scontento a Città del Messico per come è stata affrontata la sfida ai narcos e i 70 mila morti degli ultimi 7 anni pesano anche sulla coscienza di Obama, il quale ha rivolto un’importante autocritica alla propria amministrazione.(6) È necessario dunque che la nuova partnership imbocchi una via alternativa alla “guerra totale” contro i trafficanti di droga.

In materia di sicurezza la questione dei narcos è soggetta ad un altro tipo di collaborazionismo tra il governo messicano e statunitense. Il ruolo del Messico pesa sicuramente di più rispetto a quello che ricopre nella gestione dell’immigrazione illegale e il precedente governo messicano, presieduto da Felipe Calderon, non può chiamarsi fuori.

La lotta ai cartelli della droga ha alle spalle una storia di accordi bilaterali importanti. Il pilastro su cui si è eretta la cooperazione tra Stati Uniti e Messico negli ultimi anni è l’”Iniziativa Merida”, un accordo bilaterale firmato dall’amministrazione Bush nell’ottobre del 2007, in seguito alle richieste del governo Calderòn per un maggiore supporto e coinvolgimento degli Stati Uniti nella lotta al narcotraffico. L’accordo è stato accolto come un “nuovo paradigma” della cooperazione tra i due Stati: un progresso diplomatico che ha determinato una presenza importante degli U.S.A. nelle politiche di sicurezza messicane attraverso una maggiore assistenza (anche tecnologica) , lo stanziamento di fondi, il rifornimento di equipaggiamenti alle forze militari messicane e la creazione di gruppi di lavoro multilaterali.

L’Iniziativa Merida si articolava in 4 punti che esprimevano tutto il radicalismo militare nella lotta ai narcos: cercare di spezzare il potere dei cartelli della droga colpendo i vertici delle organizzazioni criminali; aumentare i controlli marittimi, aerei e al confine; migliorare il sistema giudiziario delle regioni messicane alla frontiera, in quanto principale area d-azione dei narcotrafficanti; limitare e contenere attraverso azioni militari l’attività dei cartelli. Calderon ha fatto della lotta ai narcos una priorità della sua agenda politica, catturando venticinque dei trentasette maggiori boss della droga facenti capo alle due maggiori organizzazioni criminali: il DTO (Drug trafficking organizations) e Las Zetas. I fondi stanzianti dagli Stati Uniti dal 2008 al 2012 ammontano a quasi due miliardi di dollari, di cui 873,7 milioni sottoforma di equipaggiamenti e armi per le forze militari messicane.(7)

La guerra scatenata da Calderon e Stati Uniti contro i cartelli non ha però sortito gli effetti sperati e anzi la reazione dei narcos è stata durissima. Il bilancio di questi anni di guerra alla droga è un ecatombe: 70 mila morti, di cui solo 10 mila a Ciudad Juarez (definita  la città più pericolosa del mondo) e 26 mila desaparecidos. A demolire la strategia interventista di Calderon si aggiungono i dati relativi ai flussi di armi sul confine messicano-statunitense: dal 2007 ad oggi sono state sequestrate più di 90 mila armi, di cui 60 mila provenienti dagli Stati Uniti a sostegno dei narcotrafficanti e a cui si sommano gli scandali relativi agli agenti corrotti dell’FBI che avrebbero facilitato il rifornimento alle organizzazioni.(8) Pare inoltre che anche la cattura d’innumerevoli boss sia stato vana: i vecchi capi arrestati o uccisi sono stati sostituiti da leader più giovani e violenti.

L’insediamento di Nieto sembra però poter costituire quell’elemento di discontinuità necessario a orientare diversamente questa cooperazione. Il neo presidente ha già preso le distanze dal radicalismo del precedente governo e non ha intenzione di dare continuità alla pesante eredità lasciata dal suo predecessore. L’Iniziativa Merida sembra poter evolversi verso un altro tipo di approccio al problema: cercare quelle che sono le vere cause della criminalità in Messico, a cominciare dal debole assetto istituzionale giudiziario e dall’alto tasso di corruzione. Nel febbraio del 2013 è stato presentato il Programa Nacionl para Prevencion Social y la Delincuencia, che ha istituito una Commissione Intersegretariale per promuovere la coesione sociale, riscattare gli spazi pubblici e diffondere la cultura della pace. La nuova cooperazione tra Stati Uniti e Messico deve ripartire quindi da un programma che privilegi il miglioramento delle istituzioni, il miglioramento delle società messicana, lo sviluppo economico (soprattutto in quelle regioni più colpite dal narcotraffico) e la tutela dei diritti umani. Il presidente messicano ha affermato che il successo della sua strategia si misurerà sulla base delle riduzioni degli omicidi e altri crimini e non sul numero di arresti. Mettere al centro dunque la protezione dei cittadini attraverso un’Iniziativa Merida che abbia come obiettivo primario la prevenzione del crimine e non la sua estirpazione violenta. A differenza del suo predecessore, Nieto privilegia l’Institution Building: una riforma delle forze di polizia, includendo dei programmi d’informatizzazione (in parte finanziati dagli U.S.A.) e di addestramento speciale di unità anticrimine; una riforma del sistema delle carceri (a fine 2011 queste erano del 23% sopra la loro capacità di ospitalità); una riforma del codice penale che elimini clientelismo e corruzione dalle istituzioni; programmi di scolarizzazione e di sviluppo economico per le comunità di confine vittime del narcotraffico.(9)

La nuova presidenza di Nieto e la presa di coscienza da parte di Obama del fallimento dei precedenti approcci “militari” al problema, possono costituire delle premesse nuove sulle quali costruire una partnership che individui nel miglioramento della democrazia in Messico la chiave per sconfiggere la criminalità organizzata.

 

Libero commercio: gli accordi NAFTA per un’integrazione nordamericana

Il libero commercio costituisce indubbiamente la spina dorsale del rapporto tra Stati Uniti e Messico e probabilmente il motivo principe del viaggio di Obama. Durante l’incontro il Presidente statunitense ha affermato l’importanza di una progressiva e sempre maggiore integrazione tra le due economie, andando oltre gli accordi NAFTA e intensificando la cooperazione nel settore energetico. Obama ha infatti istituito un “gruppo di alto livello”, presieduto dal vicepresidente Joe Biden, per studiare e pianificare nuovi meccanismi di cooperazione commerciale, per la produzione e il miglioramento di beni e servizi e per l’innovazione tecnologica. Washington è conscia dell’importanza del Messico in questo momento. La lenta ripresa dell’economia statunitense non può certo contare come una volta su i due colossi India e Cina, entrambi potenze che in questa fase storica stanno subendo delle flessioni/rallentamenti. Gli U.S.A. si trovano in difficoltà soprattutto per quanto riguarda le esportazioni e hanno bisogno di Paesi che acquistino dal loro settore manifatturiero. L’economia messicana ha invece sorprendentemente tenuto durante la fase più acuta della crisi internazionale ed è, tra le economie emergenti, quella che in questo momento si trova in condizioni migliori. Obama ritiene che il Messico ricopra un ruolo chiave per la ripresa economica degli Stati Uniti.

Gli Accordi NAFTA (North American Free Trade Agreement), trattato di libero scambio commerciale firmato nel 1992 dai governi di Messico, Stati Uniti e Canada, costituiscono il perno attorno al quale ruota la relazione economica messicano-statunitense. Dopo decenni di politiche protezioniste attuate dal Partido Revolucionario Institucional, che avevano sostenuto le industrie messicane con agevolazioni fiscali e lauti sussidi statali e protetto la produzione e l’esportazione con ingenti dazi doganali, il pressante debito pubblico obbligò il governo in carica a tagliare drasticamente la spesa pubblica e a intraprendere delle riforme di liberalizzazione. Negli anni novanta il Presidente messicano Salinas iniziò ad attuare dei programmi di privatizzazione dei monopoli statali e imprese pubbliche e ad abbattere le barriere doganali che avevano allontanato fino a quel momento internazionale gli IDE (Investimenti Diretti Esteri). Il decisivo cambio di rotta avvenne con la firma degli accordi NAFTA, allora considerato il più grande trattato di libero commercio del mondo, che avrebbe dovuto garantire una maggiore attrazione degli investimenti esteri da parte del Messico, rendere quest’ultimo più competitivo sul mercato globale attraverso un aumento delle esportazioni e importazioni, abbattere quelle frontiere di scetticismo politico tra Messico e Stati Uniti e favorire un progressivo pluralismo politico messicano (visto che il Partido Revolucionario Istitucional aveva governato ininterrottamente dal 1929 al 2000).

La firma degli accordi NAFTA non avvenne in un “unidirezionale trionfalismo politico” e molti economisti si interrogarono sull’efficacia e gli effetti che avrebbe potuto avere un trattato economico così anomalo, in quanto stipulato tra due Paesi altamente industrializzati, (Stati Uniti e Canada) e un Paese in via di sviluppo. Il timore più grande degli esperti era che una liberalizzazione così repentina avrebbe provocato disoccupazione negli U.S.A. a causa della possibilità che molti investitori avrebbero potuto spostato la loro produzione in Messico attratti da un   costo del lavoro più basso e da una tassazione inferiore.

Al di là degli scetticismi, gli accordi NAFTA prevedevano, per un periodo iniziale di quindici anni, l’immediata eliminazione dei dazi doganali su molte categorie di prodotti statunitensi diretti in Messico (auto, computer, tessili e prodotti agricoli), cui si aggiungeva la rimozione delle restrizioni sui flussi d’investimenti e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale.

In generale il progressivo abbattimento delle barriere ha permesso agli Stati Uniti di triplicare gli scambi con  il Messico, e in particolare: dal 1993 al 2012 le esportazioni sono aumentate del 420 % (da 41,6 a 216,3 miliardo di dollari) e le importazioni del 596 % (da 39,9 a 277,2 miliardi di dollari). Al momento della firma il mercato tra i tre paesi del blocco era inferiore a 297 miliardi di dollari mentre oggi ammonta a 1,6 trilioni.(10)

È difficile poter esaminare nitidamente gli effetti del NAFTA sull’andamento economico dei due Paesi, in quanto quest’ultimo è soggetto anche alle diverse politiche economiche attuate dai governi. Ciononostante è possibile fare alcune considerazioni. Da una prospettiva statunitense l’impatto netto che gli accordi hanno sull’economia è relativamente piccolo, perché gli scambi commerciali con il Messico costituiscono non più del 1,4% del PIL e quindi poco più di un miliardo di dollari all’anno.(11) Sicuramente le esportazioni statunitensi ne hanno giovato e in particolar modo considerando il settore automobilistico: dall’entrata in vigore degli accordi le esportazioni con il Messico sono aumentate del 232% e nel 2011 il mercato messicano è diventato il primo partner con il 26 % totale delle esportazioni statunitensi sul piano internazionale nel campo dell’automobile.(12)

Dal punto di vista messicano i trattati del NAFTA hanno una rilevanza complessiva più importante . Gli aspetti positivi sono individuabili nella produttività messicana: gli accordi hanno permesso al settore manifatturiero messicano di adattarsi più velocemente agli standard tecnologici di U.S.A. e Canada, di creare nuovi posti di lavoro qualitativamente migliori, di contribuire a mantenere una costante crescita economica nel tempo (ad oggi al 4 %). Secondo un’analisi condotta dal Office of the United States Trade Representative il Messico è diventato il secondo partner degli Stati Uniti per le esportazioni. Gli investimenti degli Stati Uniti in Messico sono aumentati dal 1993 al 2011 del 501% (da circa 15,2 a 91,4 miliardi di dollari) così come quelli messicani su suolo statunitense che sono passati dagli 1,2 miliardi (anni novanta) ai 13,8 miliardi (2011) (13). All’apertura dei mercati e soprattutto grazie agli investimenti esteri, si è  assistito anche ad un  cambiamento sociale soprattutto per quanto riguarda la redistribuzione della ricchezza(che ha provocato l’emergere di una classe media messicana forte e competitiva). Secondo il Tufts University’s Global Development and Environment Institute negli ultimi 15 anni il prezzo dei beni di consumo è sceso quasi del 50 % e i salari sono aumentati permettendo ai messicani di investire e aprire nuove attività. Secondo la Banca Mondiale, inoltre, il livello di povertà è sceso dal 69% al 43 % tra il 1996 e il 2012 a testimoniare che più della metà della popolazione appartiene ad una fascia medio-alta (in termini di ricchezza).

Tuttavia è necessario considerare anche gli aspetti meno positivi. Il settore ad avere reagito negativamente agli accordi NAFTA è stato quello dell’agricoltura – settore cruciale nell’economia messicana. Le crescenti esportazioni da parte degli U.S.A. di prodotti agricoli (venduti ad un prezzo di circa il 30% inferiore) hanno costretto molti agricoltori ad abbassare i prezzi per rendersi competitivi provocando la chiusura di molte aziende agricole e facendo aumentare la disoccupazione (circa 2 milioni di lavoratori hanno perso il lavoro dal 1994).(14) Con il crollo delle esportazioni nel settore agricolo molti agricoltori disoccupati si sono trasferiti nelle grandi città cercando di inserirsi nel settore manifatturiero, ossia quello che maggiormente aveva beneficiato dalle politiche liberali. L’aumento di 1,3 milioni di posti di lavoronelle aziende manufatturiere non ha però compensato il buco occupazionale provocato nell’ambito agricolo, che ancora oggi si trova in difficoltà.(15)

In generale gli accordi NAFTA hanno legato inevitabilmente l’economia messicana a quella statunitense nel bene e nel male. Era prevedibile dunque che la crisi economica che ha colpito gli Stati Uniti sette anni fa, avesse delle ripercussioni sul mercato messicano, le cui importazioni e esportazioni hanno subito una flessione. Probabilmente è troppo tardi perché il Messico si smarchi dalla dipendenza economia da Washington e si inserisca come individualità di rilievo sul mercato internazionale. Il Messico oggi è il Paese che ha firmato il maggior numero di trattati di libero commercio al mondo: 49 accordi con 44 Stati diversi. Tuttavia, secondo la Segreteria Economica il 78 % del commercio messicano è realizzato con gli Stati Uniti.(16)

Si evince che per realizzare un partenariato commerciale più efficiente e competitivo anche su scala mondiale occorre rivedere e ripensare gli accordi NAFTA.

Molti esperti sostengono che, sebbene l’economia messicana si sia avvicinata maggiormente ai livelli statunitensi e canadesi, la distanza rimane ancora considerevole, soprattutto perché alla liberalizzazione commerciale non sono state affiancate delle politiche atte a intensificare l’integrazione regionale del blocco. Da un punto di vista economico è bene tenere presente che il NAFTA non è un accordo trilaterale, ma doppiamente bilaterale: ciò vuol dire che gli scambi avvengono principalmente tra U.S.A.-Canada e U.S.A.-Messico, struttura che purtroppo inibisce le potenzialità import-export messicane. Per aumentare la competitività del blocco occorre favorire maggiormente gli scambi commerciali anche tra l’economia canadese e messicana. Inoltre il grande progetto d’integrazione regionale non può essere concepito solo in termini economici, ma occorre, come già detto, che il commercio sia sostenuto da politiche nel campo infrastrutturale e migratorio. In particolare, dopo l’11 settembre 2001, le ferree misure di sicurezza del Border Patrol hanno notevolmente limitato il flusso di merci, soprattutto a causa della cosiddetta “regola dell’origine”.

In ambito infrastrutturale alcuni esperti sostengono che sarebbe positivo creare un Fondo d’Investimento Nordamericano, gestito dalla Banca Mondiale, che permetta ai tre Stati d’investire in infrastrutture (soprattutto alle frontiere) che facilitino il collegamento e lo scambio di merci. La proposta di Obama di creare un gruppo di alto livello presieduto da Biden e finalizzato ad armonizzare e concertare le diverse idee e politiche tra i tre Stati, è sicuramente un passo in avanti. Alcuni economisti sostengono tuttavia che, per sfruttare a pieno le potenzialità del blocco, sia necessario superare l’ossessiva dipendenza commerciale dalla struttura governativa degli Stati Uniti e creare quindi una Commissione Nordamericana per studiare nuovi programmi d’integrazione commerciale, energetica, infrastrutturale e culturale composta da esponenti della società civile e dell’imprenditoria. Il fondo d’investimenti non si limiterebbe dunque al miglioramento del settore infrastrutturale ma servirebbe anche a favorire l’integrazione  culturale tra i tre diversi Stati attraverso programmi nel campo dell’istruzione (facilitino volti ad esempio a facilitare lo scambio di studenti).

 

 

Conclusione: il fattore Peña Nieto

La tappa di Obama a Città del Messico, prima di partecipare ai vertici sudamericani, ricorda molto il comportamento dei presidenti statunitensi durante la Guerra Fredda, i quali si fermavano a Londra prima di prendere parte ai vertici europei della NATO. In quest’ottica il Messico ricopre per gli U.S.A. un ruolo privilegiato rispetto agli altri Paesi sudamericani. Immigrazione, commercio e lotta al narcotraffico rappresentano l’ostacolo da superare sulla strada dell’integrazione. Esse costituiscono delle questioni che occorre risolvere attraverso una visione unita e congiunta proprio per l’interdipendenza tra i tre temi e che perciò sono risolvibili solo con una concertazione e condivisione comune di idee e politiche. Il fattore decisivo, o di novità se si vuole, nei rapporti bilaterali tra Messico e Stati Uniti rispetto al passato, potrebbe essere costituito dalla neo presidenza di Peña Nieto, cui la classe dirigente americana guarda con curiosità. L’agenda riformista del neopresidente messicano, che sembra guidare un nuovo PRI che difficilmente deraglierà più verso forme di autoritarismo grazie alla rinnovata classe dirigente e alle riforme costituzionali degli ultimi anni, fa ben sperare Obama. Il Pact of Mexico, ovvero il pacchetto di riforme di Nieto che prevede una serie di provvedimenti (tra cui riduzione della violenza, lotta alla povertà, riforma dell’istruzione, sostegno alla crescita e leggi anti-corruzione) sembra potersi avvicinare alla linea politica del presidente statunitense, soprattutto in materia di sicurezza.

 

 

*Davide Delaiti, laureato in Studi Internazionali presso l’Università di Bologna, Facoltà di Scienze Politiche

 

 

(1)    Marc. R. Rosenblum, William A. Kandel, Clare Ribando Seelke, Ruth Ellen Wasem, Mexican Migration to the United States: Policy and Trends, Congressional Research Service, 7 Giugno 2007, Washington, p. 19.

(2)    Ivi, p 20.

(3)    Ivi, p. 24.

(4)    Gobierno Federal de México, Secretaria de Gobernación (SEGOB), Apuntes Sobre Migración, July 1,2011. Sito:  http://www.inm.gob.mx/index.php/page/Apuntes_sobre_migracion; SEGOB, Boletín Mensual de EstadísticasMigratorias, 2005-2010, http://www.inm.gob.mx/index.php/page/Boletines_Estadisticos.

(5)    Index of Economic Freedom, Country: Mexico, The Heritage Foundation, sito: http://www.heritage.org/index/country/mexico.

(6)    Clare Ribaldo Seelke, Mexico’s new Administration: Priorities and Key Issues in U.S.- Mexican Relations, Congressional Research Service, 16 Gennaio 2013, Washington, p. 10.

(7)    Kristin M. Finklea, Clare R. Seelke, U.S.-Mexican Security Cooperation: the Mèrida Initative and Beyond, Congressional Research Service, 14 Gennaio 2013, Washington, p. 9.

(8)    Ivi, p. 10.

(9)    U.S. Department of State, 2011 Country Report on Human Rights Practices: Mexico, May 2012, http://www.state.gov/j/drl/rls/hrrpt/humanrightsreport/index.htm?dlid=186528.

(10) M. Angeles Villareal, Ian F. Fergusson, NAFTA at 20: Overview and Trade Effects, Congressional Research Service, 21 Febbraio 2013, Washington, p. 11.

(11) Ivi, p. 12.

(12) Merchandise trade statistics in this paragraph are derived from data from the U.S. International Trade Commission’s Interactive Tariff and Trade Data Web, at http://dataweb.usitc.gov.

(13) Office of the United States Trade Rapresentative, Executive office of the President, Dates of Mexico: http://www.ustr.gov/countries-regions/americas/mexico.

(14) Catie Duckworth, The Failure of Nafta- Analysis, Eurasia Reviews, 21 Giugno 2012.

(15) Ibidem.

(16) Alberto Najar, De què le sirve a Mexico ser el paìs con màs libre comercio del mundo?, BBC- Mundo, 14 Maggio 2013, Città del Messico.

 

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L’ARGENTINA E IL PROBLEMA DELL’INFLAZIONE

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In Argentina uno dei temi caldi è certamente rappresentato dall’inflazione galoppante, che sta caratterizzando l’economia del Paese.

La questione inflazionistica è recentemente salita alla ribalta principalmente attraverso due episodi: innanzitutto il provvedimento di censura adottato dal Fondo Monetario Internazionale nei confronti di Buenos Aires; secondariamente la figuraccia di cui si è reso protagonista ultimamente il Ministro dell’Economia argentino.

Per quanto riguarda la prima questione, il 2 febbraio scorso il FMI ha adottato una dichiarazione di censura nei confronti di Buenos Aires, accusandola di fornire dati poco accurati e non veritieri riguardo all’inflazione. Ad occuparsi di tali statistiche nel Paese sudamericano è l’ Indec (Instituto Nacional de Estadísticas y Censos), il quale ha calcolato per il 2012 un’inflazione del 10,8%; invece i dati proposti da alcune agenzie private o enti internazionali attestano l’inflazione mediamente intorno al 25%.

Tale divario ha lentamente generato l’attuale messa in discussione della credibilità dei dati forniti dall’istituto e quindi l’accusa di mancanza di trasparenza in capo al governo argentino da parte del FMI. Quest’ultimo ha infatti intimato al Governo di Cristina Kirchner di correggere al più presto le inesattezze, non oltre il 29 settembre 2013. (1)

Si tratta della prima tappa di un processo di sanzione all’interno dell’organizzazione internazionale; un processo che, se non vedrà un celere ravvedimento da parte delle autorità argentine, non farà che aggravare il conflitto tra FMI e Argentina, potendo potenzialmente sfociare nell’espulsione del Paese dall’organizzazione.

La risposta della Kirchner non è stata affatto docile; dalla sua pagina twitter ha tuonato contro il FMI, accusandolo di non essere stato in grado di prevedere le crisi economiche degli anni passati, né di aver sostenuto l’Argentina durante la sua gravissima crisi del 2001.

Da Buenos Aires non sembrano quindi volersi piegare facilmente ai dettami provenienti da Washington; a questo proposito sembra che le lezioni del passato siano state recepite. La Kirchner afferma infatti che negli anni ’90, il suo Paese sia stato “alunno modello” del Fmi, mettendone in campo le politiche di privatizzazione generalizzata e non ottenendo da tale zelo altro che la distruttiva crisi economica del 2001.

Al contrario, la Kirchner sembra voler dare un taglio netto al passato di subordinazione ai dettami stranieri, puntando da più direzioni verso un approccio più strettamente nazionalista. In particolare ciò emerge da due episodi noti: la nazionalizzazione dell’impresa petrolifera Ypf e il contrasto con Londra per riottenere le Malvinas.

Infatti, nel 2012 Buenos Aires ha deciso di nazionalizzare la Ypf, suscitando forti polemiche; tale impresa petrolifera era stata privatizzata negli anni ’90, seguendo le indicazioni di stampo neoliberista del Fmi. Nel corso degli anni 2000, però, la produzione di gas e petrolio è notevolmente diminuita, non riuscendo a soddisfare il fabbisogno interno di tali risorse e quindi causando un incremento notevole delle importazioni argentine di tali beni. Nel 2011 le quote di tali importazioni sono addirittura raddoppiate rispetto all’anno precedente. (3) Alcuni dati resi noti dalle autorità statali sono anche più significativi. Essi attestano infatti per quanto riguarda il petrolio il passaggio da 110 milioni di barili estratti nel 2009 a 10 milioni solo due anni dopo; invece, relativamente all’estrazione di gas nei medesimi anni (2009-2011), il passaggio è stato dai 533mila metri cubi a 441mila. (4)

L’Argentina ha deciso di non rimanere a guardare e la scelta di nazionalizzare la propria industria petrolifera appare orientata da ragioni prettamente economiche, per altro già esperita da molte altre nazioni.

Un aspetto invece più ideologico del nazionalismo, ha preso forma con la crisi argentino-britannica rispetto alla questione delle Malvinas-Falklands.

Ad ogni modo, che si tratti di motivate ragioni economiche orientate al benessere del Paese o che se ne voglia preferire una lettura ideologicamente connotata, certo è che le scelte economiche e politiche della Presidentessa argentina rappresentano un punto di rottura col passato di subordinazione al neoliberalismo imposto dal mercato e incarnato nel Fmi. È necessario attendere le prossime scelte di Cristina Kirchner per comprendere se sarà possibile un dialogo con l’organizzazione o se si arriverà davvero alla rottura.

A svantaggio di Buenos Aires, rimane però l’evidenza di un’economia problematica, dominata dall’incertezza, che il Governo non sembra volere o sapere affrontare.

Emblematica è la figura pessima di cui si è reso protagonista Hernan Lorenzino, attuale Ministro dell’Economia.

Ci si riferisce a un’intervista effettuata da un televisione greca a Lorenzino, da cui emerge la sua sconcertante mancanza di preparazione e risposte concrete.

La giornalista, consapevole della rilevanza e della problematicità dell’inflazione nell’economia attuale dell’Argentina, si rivolge in maniera molto diretta al Ministro, domandandogli di quanto sia l’inflazione in Argentina in quel momento.

Lorenzino mostra immediatamente la sua sorpresa e tenta di aggirare la questione, affermando che le uniche statistiche attendibili in Argentina sono quelle dell’INDEC  (Instituto Nacional de Estadisticas y Censos), istituto che dipende dal Ministero dell’Economia.

Solo in seguito all’insistenza della giornalista, Lorenzino attesta con estrema incertezza il tasso d’inflazione al 10,2%, senza dare ulteriori spiegazioni.

La situazione però precipita quando viene affrontata la polemica che oppone ormai da oltre un anno il Fondo Monetario Internazionale e Buenos Aires. La giornalista fa riferimento alle sanzioni imposte da Washington “per la statistiche erronee” comunicategli dall’Indec e chiede al Ministro come abbiano intenzione di agire.

A questo punto il protagonista di questa pessima figura tenta con imbarazzo di rispondere in maniera confusa, balbetta e poi chiede una pausa, ma i microfoni rimangono accessi. L’intervista si interrompe qui. Si sente chiaramente l’argentino affermare “Me quiero ir”, perché in Argentina “parlare di statistiche sull’inflazione è complesso”.

Il problema nasce quando a rilasciare tali dichiarazioni è il Ministro dell’Economia. Chi altro dovrebbe affrontare, comprendere, risolvere tali questioni?

Interviene infine un assistente del Ministro, il quale si premura di spiegare all’incredula intervistatrice le ragioni di una tale brusca interruzione; il fatto è che in Argentina di inflazione non si parla, nemmeno coi media argentini.

La giornalista però sa che non è così. Per meglio dire, il Governo non ne parla; ma l’Argentina, gli argentini sì. “ […] Se si va per strada tutti dicono che c’è un’inflazione molto alta, tutti ne parlano; non è possibile che io non lo chieda. È come se non facessi bene il mio lavoro”.

Tali preoccupazioni, non sembrano però affliggere Lorenzino, né essere al primo posto nell’agenda della Presidentessa Kirchner.

A questo proposito, Nelson Castro, giornalista argentino, durante una puntata del suo programma televisivo El juego limpio, affronta la questione della figuraccia del Ministro Lorenzino, scagliandosi più che contro il protagonista, direttamente contro il Capo del Governo Cristina Kirchner.

Innanzitutto Castro ridicolizza Lorenzino, evidenziando come ci sia un lato positivo in questa vicenda e cioè che finalmente gli argentini sanno chi è il Ministro dell’Economia e che non sa di quanto è l’inflazione. Dunque, vista l’inutilità di un tale funzionario, perché non realizzare il desiderio di Lorenzino e permettergli di andarsene?!

Il giornalista non si ferma qui e rincara la dose, proponendo alla Kirchner di cogliere l’opportunità per assumere un vero Ministro, perché ne ha bisogno, come tutti hanno bisogno di aiuto per comprendere le cose che non conoscono.

L’argentino conclude affermando che “l’economia dell’Argentina è a bordo di un Titanic e purtroppo lei, che è il capitano […] di questo Titanic, è convinta che l’iceberg non esista”. (5)

Inoltre, l’economia argentina vive una seria restrizione alle importazioni a causa del blocco dell’acquisto di dollari, che sta mettendo in ginocchio parecchie industrie locali.

La scelta di impedire l’acquisto di dollari è stata presentata dal governo come una misura volta a combattere l’evasione fiscale e la fuga di capitale verso l’estero, ma è fonte di dure critiche, sia per la messa in dubbio della sua efficacia, sia per gli effetti collaterali che provoca.(6)

Buenos Aires, infatti, si trova ora a dover fronteggiare un attivo mercato parallelo del dollaro, contraddistinto da forti divergenze col tasso di cambio ufficiale. Si registra cioè un divario di circa 3 punti tra i due tassi; se sul mercato nero il dollaro viene cambiato a 7,93 pesos, il cambio ufficiale si ferma invece a soli 4,94 pesos.(7)

Lo scenario dell’economia argentina appare quindi caratterizzato dalla mancanza di una direzione chiara, peggiorata dalla poca definizione degli obiettivi perseguiti dal governo, come rilevato dall’Istituto di Cooperazione Economica Internazionale e dal suo Presidente Alfredo Somoza: “[…] Se avessero voluto solo bloccare o controllare la fuga di capitali verso altri stati, avrebbero avuto altri strumenti per farlo. Anche di tipo repressivo, come il controllo delle frontiere o delle banche stesse. Queste misure nuove invece colpiscono tutto e tutti e non si capisce a cosa servano”.(8)

In Argentina convivono quindi un mercato nero di valuta e statistiche inattendibili sull’inflazione e sul Pil. Un primo passo per la soluzione di tali problemi e la prevenzione di una generalizzata crisi economia potrebbe essere una corretta informazione dei tecnici e la sintonizzazione delle riforme economiche e amministrative con i problemi reali del Paese e della sua popolazione, che vede e vive la costante erosione del proprio potere d’acquisto e il conseguente abbassamento dei propri standard di vita.

 

 

 

* Rachele Pagani, laureanda in Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale presso L’Università degli Studi di Bergamo

 

 

 

(1) Il Fondo monetario censura l’Argentina: non ha fornito dati accurati sull’economia, Luca Veronese, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-02-02/fondo-monetario-censura-argentina-185355.shtml?uuid=AbgCTfQH

(2) Fmi, censura all’Argentina: corregga i dati, http://www.avvenire.it/Economia/Pagine/fmi-censura-argentina.aspx

(3) La nazionalizzazione dell’YPF: le ragioni degli argentini, di Mark Weisbrot, da The Guardian, http://temi.repubblica.it/micromega-online/lanazionalizzazione-dellypf-le-ragioni-degli-argentini/

(4) Nazionalizzazione YPF. Quale scenario si apre ora per l’Argentina?, Matteo Villa, http://www.meridianionline.org/2012/05/25/nazionalizzazione-ypf-argentina/

(5) Nelson Castro comenta el papelon del Ministro, http://www.youtube.com/watch?v=B0c-v40W10k

(6) e (8) Argentina, fra dollari e mercato nero, http://www.eilmensile.it/2012/06/11/argentina-fra-dollari-e-mercato-nero/

(7) Argentina, mercato a 3 dollari dalla realtà: situazione economica rischiosa, http://pangeanews.net/economia/argentina-mercato-a-3-dollari-dalla-realta-situazione-economia-rischiosa/

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“COMO MÁXIMO UNIÓN EUROPEA DURARÁ 10 AÑOS MÁS…”

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“Como máximo Unión Europea durará 10 años más…”

Entrevista de “VESTI” con el conocido politólogo ruso, presidente del Comité Islámico de Rusia Geidar Dzhemal

 

Ves.lv, 29-05-2013

 

Traducido del ruso por Arturo Marián Llanos

 

Geidar Dzhemal es uno de los expertos más populares en los canales de televisión rusos. Su opinión es interesante no solamente cuando la noticia sobre algún acontecimiento aún es candente y la polvareda de las discusiones todavía no ha reposado sobre las páginas de los periódicos en papel y los portales de internet. Otra cosa es más importante – los pronósticos políticos de Geidar Dzhemal a menudo se cumplen de una manera sorprendente. También ahora nos describe la futura Europa que nos cuesta comprender, en la que desaparecerá la corrección política, se esfumará el compromiso de la élite ante las amplias capas bajas y se perfilarán los contornos de la nueva organización, parecida al feudalismo con los prejuicios estamentales y elementos de presión violenta por parte de las fuerzas de seguridad. Todo ello, claro, acompañado de alto desarrollo tecnológico.

 

 

Larisa Pérsikova Nika Pérsikova

 

Hace 14 años, cuando Vladimir Putin acababa de ser elegido para su primer mandato y para la mayoría de la población no era más que heredero de Yeltsin, Geidar Dzhemal estuvo en Riga. Le entrevistamos y nos dijo una cosa muy interesante. “Putin llevará ahora una política patriótica, se pondrá a restaurar el estado y la dignidad nacional del pueblo.” “¿Por qué?” – preguntamos sorprendidas. Ya que por entonces el presidente de Rusia tenía clara fama de liberal. “Cualquier hombre que accediera ahora al cargo de presidente de Rusia, tendría que hacerlo, porque el tiempo ha llegado.”

Pasaron algunos años y en 2004 volvimos a entrevistar a Geidar Dzhemal. En esta ocasión también dijo una cosa significativa: si los EE.UU. quieren “sondear” a Rusia, montarán una provocación en Osetia del Sur o en Abjasia. Cuatro años después de esta conversación tuvo lugar la guerra georgiano- osetia.

De lo que ocurre en el mundo hoy, sobre los nuevos puntos calientes y peligros, del lugar que ocupa Letonia en los enfrentamientos entre el Oeste y el Este, Norte y Sur, conversamos ahora con el conocido politólogo.

 

Nueva Restauración

 

– Señor Dzhemal, recientemente en las elecciones en Gran Bretaña obtuvo éxito el partido de la independencia, que propone la salida de Gran Bretaña de la Unión Europea. En Italia y en España también se habla de la posible salida de estos países de la eurozona. En su opinión ¿hoy por hoy la Unión Europea es un sistema sólido?

– En primer lugar la Unión Europea fue construida según los moldes estadounidenses. Es decir, no cómo lo querían los europeos y por lo que lucharon durante varios siglos. Porque, en realidad, la unión europea ya existía en el siglo XIX. Porque toda Europa estaba gobernada por el concilio de las monarquías, entrelazadas por las relaciones de parentesco. Como se sabe, todas las monarquías clave, salvo Francia republicana, donde los Borbones fueron apartados, y Bonaparte perdió el imperio tras una guerra desastrosa – toda la demás Europa sencillamente estaba gobernada por parientes – primos hermanos y sobrinos.

La Unión Europea actual, que fue creada para sustituir aquella idea de la unidad, por la que en su tiempo luchó Napoleón y la que tenía en mente el Führer del Tercer Reich, esa Unión Europea no se corresponde en absoluto con el sueño histórico de los europeos. Porque existe como el sistema que sirve a la OTAN. Y la OTAN es el yugo que les fue colocado a los europeos después de la derrota de Europa en 1945. Es decir, que la OTAN es la forma que representa la pérdida de soberanía y el sometimiento de Europa por los Estados Unidos. Es por lo que actualmente la Unión Europea con respecto a los Estados Unidos está obligada a cumplir un papel servicial, incompleto.

Recordaré que los EE.UU. ejercen el papel de gendarme internacional desde hace tan solo un par de generaciones. Y que antes de la Segunda Guerra Mundial aunque ya se trataba de un país poderoso, que estaba entre los cinco primeros de Occidente, no era la potencia principal. Y antes de la Primera Guerra Mundial era un país con el estatus de Australia actual. Es decir, que la importancia de los EE.UU., su papel de superpotencia había aumentado increíblemente a costa de la derrota de Europa en 1945. Y a costa de la aparición del sistema bipolar, que sencillamente fue una confabulación entre Moscú y Washington, en última instancia un juego, además con una sola portería.

 

– Pero el mundo bipolar ya no existe, la Unión Soviética como superpotencia ha desaparecido…

– Y actualmente el Occidente de nuevo se acerca al umbral de la crisis cuyas proporciones, posiblemente, superen, los resultados de la Primera Guerra Mundial. Y, por cierto, la destrucción de la Unión Soviética, que a primera vista parece la victoria de Occidente, representa en realidad un durísimo golpe contra el orden mundial. Porque justamente la Unión Soviética proporcionaba a Occidente un seguro y se colocaba como un obstáculo en el camino de los

movimientos revolucionarios que podían socavar y posiblemente derrumbar este orden mundial (Che Guevara, por ejemplo, era perfectamente consciente de este papel de la URSS – N. del T.). O sea que la Unión Soviética de hecho no aprovechó a toda una serie de circunstancias favorables para destruir el sistema capitalista occidental – después de Vietnam y cuando comenzó a derrumbarse la estructura de la OTAN en Europa – junto con los acontecimientos de 1968 en Francia, la revolución de 1974 en Portugal – todo ello fue bloqueado por la URSS. (Hacia 1974 quedaba claro que la URSS había ganado la “guerra fría”, pero el Politburó se asustó ante tal perspectiva y no quiso forzar la victoria. Por un lado, los dirigentes soviéticos temían que la situación mundial derivara en el caos y, por el otro, no querían quedarse a solas con China. Posteriormente el segmento soviético de la corporatocracia mundial y parte de la nomenklatura dirigente pasaron de la “convergencia” con Occidente a la rendición consciente, abandonando todo compromiso ideológico – N. del T.). Y en actualidad la Unión Soviética ha desaparecido, desestabilizando la situación mundial general. Por lo que en mi opinión a Occidente le espera una reestructuración muy seria. Incluido el reformateo de la Unión Europea que difícilmente podrá sobrevivir en su forma actual…

El caso es que ahora el Occidente y todo el mundo vive la fase inicial de la transición de una formación socio-política a otra. Porque se ha acabado la era del, digamos capitalismo financiero, basado en la división entre la producción y el consumo a nivel global. Cuando en una parte del mundo se concentra el consumo, y en otra la producción barata. Todo ello organizado y protegido por el sistema del crédito especulativo. Esa forma del capitalismo financiero, de consumo, está agotada y se acaba. Mientras tanto, los Estados Unidos como el país, basado en el capitalismo liberal, ejerce de gendarme mundial. Los EE.UU. por lo tanto representan un obstáculo para dar el siguiente paso histórico. Hacia una nueva formación político-económica que se basará en otros principios totalmente distintos.

 

– ¿De qué formación se trata? ¿Cuál será su base?

– Se trata de la economía postconsumista, que se basará en el retorno de algunas prácticas propias de las formaciones anteriores. En particular ciertas formas del neofeudalismo y la coacción de las personas, sacada fuera de la esfera económica.

 

– ¿O sea que volvemos a la Edad Media?

– Se puede decirlo así. Pero en una nueva etapa, de alta tecnología. En resumen, los Estados Unidos representan un obstáculo para esta transición histórica y serán barridos por esta ola histórica.

 

– ¿Y cómo se imagina la transformación de la Unión Europea, cómo será la nueva Europa?

– Europa se liberará del papel de gendarme de los EE.UU. Lo cual no significa que Europa de nuevo se descomponga en estados nacionales y pierda la unidad. En esa época postliberal y postconsumista Europa de nuevo será transformada en un espacio unido, pero ya sin el factor estadounidense. Por así decir, sin las consecuencias del año 1945. Ya ahora en Europa se está planteando este tema y creo que dentro de 10 años en general se hará una revalorización de los años 1930-40 del siglo XX y la corrección política, relacionada con la derrota de Europa en 1945, con Núremberg será abandonada. Esa tendencia poco a poco, subterráneamente comienza a dominar en el espacio europeo.

Segundo. Y casi lo más importante. La Europa del mañana no tendrá nada que ver con la Europa de los años 1960-70. En primer lugar porque la élite europea en el espacio posterior al de la UE, me refiero al espacio de Europa unida posterior a la descomposición de la UE, se liberará de todos los compromisos sociales ante las amplias capas populares. Estos compromisos fueron asumidos cuando existía la URSS. Durante la etapa cuando los movimientos sindicales, obrero y comunista ejercían una fuerte presión. Durante la etapa posterior a 1945 cuando los principales partidos de Europa fueron el partido comunista francés y el partido comunista italiano. Mientras que los liberales de Gran Bretaña, que llegaron después de Churchill, atacaron con mucha fuerza a la clase dirigente tradicional, aristocrática – con sus leyes sobre la herencia y demás. Ahora ya no existe el factor que obligaba a las élites a hacer grandes concesiones a las capas bajas. Por eso se van a librar de cualquier compromiso social y de nuevo pasar a una sociedad estamental con los privilegios estamentales. Lo cual prácticamente ya está en el aire.

Es interesante además observar que, al igual que nuestros actuales oligarcas fueron criados en el seno del komsomol y del KGB, igualmente los dirigentes de Europa del mañana hoy se están criando dentro del marco de la estructura que le han permitido tener los EE.UU. Los europeos ya hoy están criando a su burocracia internacional. Pero en el seno de un sistema ajeno, que les fue impuesto de la Unión Europea. Está claro que este sistema ya se está resquebrajando y que desaparecerá.

 

Memorias del futuro

– Díganos, en el caso del derrumbe de la UE, que Ud. pronostica para dentro de 10 años, ese proceso de reformateo del espacio europeo – ¿qué destino le espera a Letonia, a las repúblicas bálticas?

– No excluyo que las repúblicas bálticas pierdan su estatus soberano, porque el estatus soberano seguramente será algo del día de ayer. Porque a Europa la espera el retorno al nuevo feudalismo. Será un sistema de vasallajes y de protectorados señoriales. En este sentido a las repúblicas del Báltico no les espera nada bueno. En primer lugar porque va a haber el retorno de los

estamentos y el Báltico no tiene gran tradición histórica propia, su propia aristocracia. Aunque, por supuesto, está Lituania. Pero en el caso de Lituania se trata más bien de un mito, no se entiende dónde están sus Gediminas. ¿Dónde están los representantes de la nobleza de Rech Pospolita, aquella unión polaco-lituana de hace 500-400 años? Existe en los manuales de historia, pero no en la realidad. Y en la realidad apenas está presente el factor clerical.

En cuanto a Letonia y Estonia allí, como sabemos, la nobleza estaba representada por los barones – caballeros germanos. Y, ciertamente, lo siguen siendo hasta el día de hoy. O sea que con la vieja, tradicional aristocracia de Alemania todo está en orden. Todos ellos se reúnen en los consejos de las corporaciones transnacionales. Todos ellos siguen controlando sus viejos castillos y sus cuentas bancarias y entran el puñado de oro, por así decir, de los señores del mundo. Por lo que en el futuro lo más probable es que a Letonia y Estonia les espera el papel de vasallos dentro del marco de la nueva unidad europea. En cuanto a Lituania, probablemente, su situación sea algo mejor.

Pero debo decir, que la pasada pertenencia a la URSS y la participación en el proyecto soviético – de los mismos tiradores letones rojos en la Guerra Civil – ya coloca al país en una situación desigual dentro del futuro sistema europeo. Así que los bálticos no deberían de esperar ningún plus de este futuro…

 

– Si le hemos entendido bien, se refiere a que la población letona para los europeos son más bien letones soviéticos y ante sus ojos ya no son neutrales.

– Sí, todo lo que se refiere a la Unión Soviética es percibido como elemento del sistema en el que fue interrumpida la sucesión histórica. Es decir la sucesión histórica de aquella nobleza que sigue considerando que es la única con los derechos globales para el dominio mundial. Ahora, en cuanto se vayan los liberales, los nuevos ricos y arribistas – y se irán muy pronto – y cuando pierda su importancia el imperio estadounidense, como el gendarme mundial, donde al menos de palabra se proclama el factor democrático e igualitario, de nuevo serán restaurados los privilegios de las viejas casas. Que, por cierto, existen no solo en Europa, porque el sistema de la vieja aristocracia interconectada se expande por todo el mundo. En él entra, pongamos, la dinastía hachemita de Jordania, la casa imperial de Japón y muchas otras.

La estructura monárquica no se ha ido a ninguna parte, está como en el frigorífico. Se une tranquilamente a la cúspide del capital bancario, la así llamada internacional financiera. Todos comprendemos que ningún príncipe trabaja de camarero, todos están metidos en los consejos de directores de las corporaciones transnacionales, como “General motors”, “Opel” y otras… Si se fija en cuántas monarquías hay en actualidad, descubrirá que muchas. En realidad, la mitad de los países que podamos señalar en el mapa resultarán ser

monarquías: Bélgica, Holanda, Escandinavia. Y en Alemania todas las dinastías están en su sitio. Claro que se trata de una república federal, pero a quién le importa. La casa real bávara está al completo. Y lo que se dice “vivita y coleando”. La casa real de Wurtemberg, todos esos archiduques de Sajonia y de Westfalia, todos están ahí. Todos están ocupados. En los demás países del mundo no europeo, tenemos la casa real Libia, la casa real Egipcia, todas están, por cierto, refugiadas en Europa y esperan su hora.

 

– Díganos, dentro del marco de lo que Ud. llama el neofeudalismo, ahora estamos hablando de la resurrección del Imperio Otomano, que está resurgiendo ante nuestros ojos – ¿tal vez muy pronto veamos al sultán?

– El caso es que ya en actualidad a Erdogán le llaman el sultán electo. Ya hoy en día él se ve en este papel. Se considera como tal. Le conozco personalmente, rezamos juntos en la mezquita – y he visto como dejaba que la gente le besara las manos. Eso fue todavía antes de que se convirtiera en el presidente, por entonces era el alcalde de Estambul – y ya le besaban las manos. Aunque eso en realidad va contra todas las normas islámicas. O sea que se comportaba como un bey, un pachá y no como un musulmán hermano.

 

Rico, pobre…

 

– Señor Dzhemal, Ud. decía que los programas sociales en Europa Occidental se irán recortando. Y ya se están recortando. Ciertamente, ya no existe la Unión Soviética, no hay competencia ideológica. Pero de momento en Letonia existe la esperanza de que simplemente estamos algo atrasados con respecto a Occidente, que pasará un poco de tiempo, avanzaremos y también tendremos buenos sistemas médicos y subsidios dignos. Pero, posiblemente, no seamos más que la vanguardia de la nueva realidad social. ¿Tal vez, en los territorios como el nuestro se está ensayando este futuro sistema social?

– Claro, con ustedes son menos considerados. Mientras que en Occidente aún existen restos del movimiento social. Allí todavía existen sindicatos, movimientos estudiantiles, a la calle salen centenares de miles de personas. En las condiciones actuales los burócratas europeos no están preparados para arriesgarlo todo, es decir para causar la explosión social. Pero ya se están preparando para esta explosión, para estar bien armados. Es por lo que están desmontando las estructuras sociales, creadas durante el enfrentamiento con la URSS, no de golpe, sino poco a poco. Pero se debe decir que el terreno ya está preparado, hoy el uno por ciento de la población posee el 90 por ciento de las riquezas mundiales.

Veamos cómo ha transcurrido este proceso. En 1920 el uno por ciento de la población mundial poseía el 40 por ciento de las riquezas mundiales. En 1970, después del medio siglo de la presencia de la URSS, el uno por ciento poseía tan solo el 20 por ciento de las riquezas. Por lo que la competencia con la

Unión Soviética les había obligado a reducir el porcentaje del control sobre las riquezas mundiales el doble. Pero hacia 1990 este porcentaje de nuevo comenzó a subir ¡y en actualidad el uno por ciento de la población mundial posee… el 90 por ciento de las riquezas mundiales! Lo cual quiere decir que en actualidad el uno por ciento de la población de la Tierra mantiene unas posiciones materiales-financieras mucho más poderosas que en 1920, cuando el poder soviético apenas acababa de aparecer, es decir que en comparación con los principios del siglo XX, monárquicos, capitalistas etc. – el uno por ciento de hoy ha reforzado sus posiciones el doble…

Por eso hoy el papel de las repúblicas bálticas en Europa se diferencia poco del papel, por ejemplo, de los serbios, que se han convertido en los inmigrantes interiores y también trabajan para la Unión Europea. Se diferencia poco del papel de los rumanos. Se trata de Europa periférica con el estatus rebajado, con el nivel rebajado de reconocimiento, que sufre la explotación del factor humano. En la práctica poco se diferencian los habitantes chabolistas de la India de los sin hogar de París. Pues en realidad a la verdadera nobleza y al capital bancario les da igual dónde vivan los parias. Para ellos el espacio europeo forma parte de la sociedad global. Hay que decir que este sistema semicolonial en Europa se estuvo expandiendo con la ayuda y apoyo de la nobleza periférica, local. Que tuvo lugar, lo mismo que en su día en la India y otros lugares, la confabulación entre la nobleza europea y la periférica.

Y como resultado, naturalmente, este puñado de oro, este 1 por ciento no piensa compartir los beneficios, no hay motivos que pudieran obligar a la nueva élite a compartir ahora algo con los de abajo. Claro que los programas sociales se van a cerrar. Ese será el futuro de Europa. Nada hace pensar lo contrario.

 

 

Parodia del incendio de Reichstag

 

– Señor Dzhemal, hace diez años cuando le entrevistamos y todavía se empezaba a hablar sobre el peligro del terrorismo islámico, de repente Ud. nos dijo que no existe ningún terrorismo islamista, que no son más que juegos de los servicios secretos de los EE.UU…

– En realidad ahora lo veo un poco distinto. Veamos, por ejemplo, los últimos acontecimientos de Boston. Las incongruencias son demasiado evidentes, por lo que no cabe valorar las explosiones en Boston más que como una representación. Representación con diferentes candidatos para el papel de los organizadores. Al principio fue detenido un súbdito saudita al que luego soltaron. Como resultado escogieron a los hermanos Tsarnáev con los que desde hacía tiempo trabajaba FBI, pero salta a la vista que los hermanos Tsarnáev no participaron en la organización del asunto, que todo fue organizado por ciertas fuerzas internas. Yo creo que luego, en un momento x, se desenmascarará esa operación de Boston, lo cual hace falta, seguramente, para comenzar la revisión de las conclusiones oficiales con respecto al 11 de septiembre. Es decir, que desde mi punto de vista, hay en marcha una ofensiva contra los neoconservadores, contra el Partido Republicano. Creo que muy pronto se planteará la cuestión de que el establishment político de los EE.UU. participó en todas estas operaciones especiales, que hicieron posibles las guerras en Afganistán e Iraq.

 

– Ud. dice que son los objetivos de política interior. Pero todavía antes de que fueran nombrados los sospechosos, Ud. había escrito en su artículo que lasacusaciones necesariamente se volverían contra el islam. Y, ciertamente, así ha sido. Y no solamente contra el islam, sino contra Rusia, el Cáucaso, Kazajistán y Kirguisia, o sea en realidad contra el marco de la Unión Aduanera…

– Sí, pero verá, en este asunto tan grande, muy de representación, participan muchas fuerzas, cada una con su propio orden del día. En mi opinión, en primer lugar los organizadores se proponen como objetivo la completa desacreditación de la máquina administrativa de los EE.UU. Porque han programado tantas incoherencias y han dejado tantos cabos sueltos que a la hora del juicio el asunto no se va a sostener.

En lo que se refiere a otras fuerzas, se proponen otros objetivos. Las fuerzas que llevan a cabo la investigación claro que utilizan a los Tsarnáev para la temática antirrusa. Surge la pregunta ¿quién los había enviado a Rusia? ¿Por qué Rusia no puso objeciones? Por qué Tamerlán ha pasado medio año en Rusia – cuando para un checheno que vive en el extranjero, viajar hasta Dagestán y vivir allí tranquilamente es prácticamente imposible. Hay muchas partes oscuras, misteriosas.

 

– Recordemos que cuando se derrumbaron las torres gemelas el 11 de septiembre, Putin fue uno de los primeros en apoyar a Bush. Hubo incluso un episodio de amistad entre Rusia y los Estados Unidos, de colaboración. Ahora en Boston ha sucedido un acto terrorista análogo, pero no se ha logrado recuperar algo parecido a aquella amistad…

– En primer lugar, Putin apoyó a los republicanos para distanciarse de la Familia, de los demócratas (“Familia” llaman en Rusia al segmento de la nomenklatura, ligado a Yeltsin, que se puso bajo la tutela de la pareja Clinton para llevar a cabo la privatización y la restauración del capitalismo en Rusia – N. del T.). Dado que precisamente la privatización, Yeltsin, Familia, estaban estrechamente ligados a la época Clinton. Todo aquello quedó desacreditado. Así que Putin buscando ensanchar la posibilidad de maniobra apostó por los neocones, los republicanos. Exactamente por eso en contra de las evidencias se puso a apoyar la versión de Bush y su proyecto. Pero hoy en la Casa Blanca se encuentra el continuador de la causa demócrata. Ahí se sienta Obama. Y es, digamos, que todavía más cosmopolita de lo que era Clinton. Obama en mucha mayor medida está relacionado con las fuerzas no estadounidenses o extraestadounidenses que cualquier otro demócrata antes de él. Por eso no tiene ningún sentido correr hacia él con saludos para alguien que ha estado 10 años trabajando con los republicanos.

 

– Pero después de la caída de las torres gemelas y la acusación contra los musulmanes los Estados Unidos tuvieron las manos libres e introdujeron las tropas en Afganistán. Si la acción terrorista en Boston es una operación especial similar ¿hasta qué punto desata las manos a los EE.UU. en sus

relaciones con Rusia, con Cáucaso? Por ejemplo, la ex-gobernadora de Alaska Sarah Palin hizo el llamamiento para bombardear a Chechenia, aunque la confundió con Chequia…

– Lo de Sarah Palin no fue más que una anécdota. Con respecto a lo de desatar las manos. Los acontecimientos de 2001 y los recientes de Boston son especularmente opuestos. Boston es una parodia de lo que ocurrió hace 12 años. Mientras que los acontecimientos de 2001 fueron por su esencia se podría decir que el incendio del Reichstag 2. Lo mismo que el incendio del Reichstag, la destrucción de las torres gemelas había permitido reformatear el campo del derecho dentro de los EE.UU. Fueron suprimidas multitud de garantías que ofrecía la Constitución de los EE.UU., de hecho los Estados Unidos fueron convertidos en un estado policial. Todo ello pasó con mucha velocidad, como una apisonadora, sobre el país que eran los EE.UU. anteriores al 11 de septiembre de 2001.

 

– Ud. habla del “estado policial”. Curiosamente, cuando pasó lo de Boston, los parientes estadounidenses de Tamerlán Tsarnáev asustados renegaron de él, incluso redactaron una declaración oficial que leyeron ante las cámaras. Luego habló una muchacha, en representación de la comunidad musulmana local – y con voz temblorosa también renegó de los hermanos Tsarnáev. Lo cual recordaba mucho cómo en 1937 en la URSS los hijos renegaban de los padres, cuando en público se leían las declaraciones: “Reniego de mi padre, porque es un enemigo del pueblo”. Cuando en Rusia ocurrían actos terroristas similares, mostraban a los parientes de los terroristas en Daguestán, en Chechenia – nadie renegaba de sus hijos. Es incluso imposible imaginarse algo así. ¿Qué ocurre hoy en los Estados Unidos?

– Sí, los estadounidenses están asustados. Pondré un ejemplo. Después de que comenzara la así llamada búsqueda de Dzhajar Tsarnáev, las cien millas cuadradas de Boston, junto con los suburbios fueron prácticamente sellados. Sellados por la operación policial. A la gente la sacaban de su propia casa, con las manos levantadas, a punta de metralleta, y registraban sus casas. Es decir que se pisoteaban directamente todos los derechos constitucionales de los ciudadanos estadounidenses. Y a escala de una ciudad entera. Algunos observadores, incluidos tan serios como Paul Craig Roberts, quien fuera el editor de Wall Street Journal, escribieron con respecto a lo que pasó en Boston, que ni siquiera el rey Jorge, quien combatió a la revolución estadounidense, se hubiera podido permitir dar una orden semejante a sus casacas rojas – llevar a cabo la operación con registros en el espacio de cien millas cuadradas como la que acababa de realizar la seguridad nacional de los EE.UU. Es decir que el país ha cambiado radicalmente en los últimos años.

 

Misión en Kabul

 

– Señor Dzhemal, recientemente Letonia ha enviado a Afganistán un grupo de soldados de turno. En su día nuestros chicos letones lucharon en Afganistán con las tropas soviéticas. Ahora están luchando en el mismo país pero encuadrados en la OTAN. Entonces la consigna era cumplir el deber internacionalista, ahora es defender los valores democráticos. Díganos ¿existe alguna diferencia fundamental en los objetivos para los cuales fueron destacados las tropas soviéticas y ahora los de la OTAN? ¿O se trata del mismo fenómeno?

– Sí, existe cierto paralelismo. Sin embargo en Afganistán las tropas soviéticas y las de la OTAN no hacían exactamente lo mismo. Las tropas soviéticas entraron en Afganistán para prevenir lo que luego había pasado. Es decir la invasión de Afganistán por pare de Occidente. Porque fueron provocadas. Porque los servicios secretos de los EE.UU. lograron convencer al Politburó que iban a entrar allí de un momento a otro. Y provocaron a la Unión Soviética para dar el paso correspondiente. Y como resultado lo de Afganistán enterró al poder soviético. Es decir que se había convertido en una de las causas principales de la crisis interna del imperio y de su hundimiento. Pero debo decir, que Afganistán en cierta medida también representa la tumba de los EE.UU. y de la OTAN. Si no es tan evidente es porque están utilizando los enormes recursos de los medios para ocultar este hecho. Pero sé una cosa: los talibanes se han negado a negociar con los Estados Unidos de Norteamérica y dijeron que mientras un solo soldado extranjero permanezca en el territorio de Afganistán, no hay nada de qué hablar.

 

– Díganos, en general ¿qué han ganado y qué han perdido los Estados Unidos con la invasión de Oriente? Con la ayuda de las tropas, como en Afganistán e Iraq, o de las revoluciones de color…

– Únicamente han perdido. Después de 12 años de terribles esfuerzos que han causado tres millones de víctimas, el Occidente hoy se encuentra en una situación mucho más crítica y mucho más débil que a comienzos del 3 milenio.

Y en segundo lugar, como resultado de estas guerras los Estados Unidos han quedado desacreditados como el país que desea el bien a la humanidad. O sea que cuando ahora dices que tu objetivo es luchar contra la dictadura de los Estados Unidos de Norteamérica, todos asienten, diciendo – sí, comprendemos que es el imperio del mal. Hace doce años hubiera sido imposible, aún no era tan evidente para todos. Es decir que los EE.UU. han perdido la reputación. Miren como China cuida hoy su reputación de un estado pacífico. Por ejemplo, Australia que había permanecido intacta hasta la llegada de los navegantes ingleses, en el siglo XVIII, para China, que representaba un tercio de la economía mundial, como hoy, no le hubiera costado nada descubrir y colonizar este país. Pero la reputación del estado que no lleva el mal al mundo es muy importante y tiene mucho valor.

 

Triángulo Rusia, China, Irán

 

– Hace diez años en la entrevista para nuestro periódico Ud. había pronosticado que si los Estados Unidos bombardeaba a Irán, la siguiente sería Rusia. Ud. creía que la guerra entre los EE.UU. y Rusia era inevitable. ¿Ha cambiado de opinión en cuanto a la sucesión de los hechos o la inevitabilidad de este proceso? En cualquier caso, sobre el gran tablero del ajedrez mundial ahora vemos otra partida – Obama cree necesario rodear con las bases militares a China. Y de una manera sorprendentemente rápida se reaniman los conflictos que antaño China mantuvo con los estados vecinos…

– Existe el triángulo – Rusia, China, Irán – que en actualidad está retando a los EE.UU. Pero no es porque esté retando a los Estados Unidos y a Occidente como al reino de la oscuridad y porque luche por todo lo bueno y luminoso. Sino simplemente porque la propia existencia de semejante estructura independiente ya es un reto inaceptable para Occidente. Es inaceptable la toma independiente de las decisiones políticas por parte de los países que se apoyan unos a otros en este triángulo. Por ejemplo, la aprobación de la resolución contra la invasión extranjera de Siria a través del Consejo de Seguridad. Por eso hoy el principal objetivo de los Estados Unidos es romper este triángulo y neutralizar a cada uno de sus vértices. Pero desde el punto de vista de los EE.UU. el principal peligro en la actualidad está representado por China.

 

– Es decir que la sucesión de los turnos sí ha cambiado a lo largo de estos diez años. Ud. creía que el primer candidato para el bombardeo sería Irán…

– La situación cambia de manera dinámica. Hace diez años Rusia, China e Irán no estaban tan coordenados como aliados. Por entonces, lógicamente se les podía golpear uno por uno. Hace diez años China estaba mucho más atada a los Estados Unidos, porque estaba atada a la exportación para el mercado interno de los EE.UU. Dependía completamente del producto consumido en los EE.UU. y producido en China. Mientras estos países no estaban reunidos en el triángulo, sino que actuaban cada uno por su lado, era más lógico golpearlos por separado. Ciertamente, comenzar por el eslabón más débil, es decir primero Irán, luego Rusia, porque entonces estaba débil, y luego ya ir a por China. Dado que China aún era necesaria para los Estados Unidos en calidad del taller mundial, productor de mercancías.

Hoy la situación ha cambiado. Rusia, China e Irán representan ya una figura geométrica perfilada, atada – por eso es imposible atacarlos. Resultó imposible incluso atacar a Siria, que tan solo es la aliada de Irán y de Rusia. Porque además del propio triángulo, cada uno de sus lados tiene sus aliados. Irán tiene a Siria, China a Paquistán, Rusia a Kazajstán. Como resultado ya tenemos un grupo de países. Y podemos observar una serie de acciones contra ellos. Por ejemplo, Paquistán sufre ataques de los “drones”. En Paquistán aumenta la situación crítica, mañana podrían asumir el poder los militares nacionalistas, lo cual favorecería a los EE.UU., porque obligaría a India a jugar contra China, del lado de los Estados Unidos. También en Asia Central ocurren determinados sucesos: allí los EE.UU. han optado por cambiar los regímenes existentes… Se trata de la lucha contra los aliados del triángulo Rusia – China – Irán.

 

– ¿Díganos qué opina del destino de Siria? ¿La situación de la guerra civil permanente no puede durar eternamente?

– No, no puede. En mi opinión, en actualidad a la oposición siria solo la apoyan Turquía, Qatar y Arabia Saudí. Occidente de hecho ya se ha salido del apoyo a la oposición. Creo que Asad está ganando. La guerra civil en Siria se va a acabar y, lo más probable es que estas fuerzas se vayan a otro sector.

Y les diré otra cosa – los actuales musulmanes de Europa son un destacamento muy importante, aquí se elaboran las opiniones que ejercen influencia sobre los países tradicionalmente musulmanes. Recordaré que gran parte de la oposición radical que, por ejemplo, había regresado a Túnez o Egipto, es la oposición radical que estuvo en la emigración precisamente en Europa.

 

Hacia la nueva orilla

 

– Señor Dzhemal, en esta gran partida de ajedrez, de la que estamos hablando ¿de qué lado le recomendaría situarse a Letonia?

– Eso lo tendrán que decidir ustedes. Debo decir que la confrontación continuará. Pero Occidente se encuentra en el umbral de una gran crisis. Se acaba el período histórico en el que los Estados Unidos fueron el eslabón central. Nos estamos aproximando al sistema para el que ya no hace falta el mercado, y para la élite mundial van a sobrar enormes masas de la población, gran cantidad de mano de obra sobrante. Esto ya pertenece al día de ayer. Para la élite mundial aproximadamente el 80 por ciento de la población actual representa simplemente un lastre, del que habrá que deshacerse. Porque no hay recursos para todos.

Y si no es por la futura Rusia, este 80% no tiene ninguna posibilidad. Rusia no puede existir más que como la abanderada de la libertad para el mundo entero. Si el enfrentamiento continúa, será el variante bueno. El malo será si el Occidente logra partir a Rusia en varios trozos y estos trozos se pondrán a vender sus recursos naturales directamente en el mercado mundial, y serán controlados por las compañías militares privadas, que con sus helicópteros sobrevolarán pongamos Kémerovo, Novosibirsk, Ekaterimburgo etc. Será una mala variante. En este caso habrá pocas esperanzas para la humanidad. O ninguna. Porque sin Rusia la resistencia será más bien efímera y podrá ser aplastada con los recursos de los que disponga el gobierno mundial. En cuanto

a las repúblicas del Báltico, creo que su población va a repensar muchas cosas y se dará cuenta de muchas cosas, creo que, al menos los letones, tienen recursos intelectuales suficientes. Este intelecto es suficiente para ver de manera crítica la situación a la que actuales repúblicas del Báltico están llegando.

 

Geidar Dzhemal (n.1947, Moscú) es teólogo del Islam revolucionario, filósofo, presidente del Comité Islámico de Rusia (Islamkom.org), activista político y social. Cofundador de Unión Internacional – Intersoyuz (interunion.org), miembro de la coordinadora del Frente de Izquierda – Levi Front (Leftfront.ru).

 

Fuente: http://www.ves.lv/vesti/

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THALASSOCRATIE ET SANCTIONS

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Mégare et l’Italie

En 1991, un colloque d’historiens et politologues européens et américains sur la “rivalité hégémonique entre Athènes et Sparte et entre Etats-Unis et Union Soviétique” fut publié sous le titre From Thucydides to the Nuclear Age. Thucydide, l’historien de cette “guerre mondiale de l’antiquité” qui a été la guerre du Péloponnèse, est un auteur particulièrement apprécié dans certains milieux politico-intellectuels atlantistes, qui ont essayé de faire de lui le témoin du bipolarisme et de la confrontation entre deux blocs militaires.

La philologie classique, à partir de Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1) a souvent reproché à Thucydide de laisser dans l’ombre le blocus commercial imposé à Mégare par la thalassocratie athénienne en voulant attribuer à Sparte les causes du conflit.

Et pourtant la guerre du Péloponnèse commença précisément par le décret contre les Mégariens du 432 av. J. – C. (le Mégaréon pséphisma), une série de sanctions économiques qui interdisaient aux Mégariens l’accès aux ports, aux mouillages et aux marchés de la Ligue de Délos, c’est à dire de l’alliance hégémonisée par les Athéniens.

Pour les historiens il est évident que les sanctions contre Mégare n’étaient pas seulement un moyen pour affaiblir les rivaux et étendre son influence. Helmut Berve, par exemple, a dit qu’avec l’embargo, qui a également affecté les alliés de Mégare, Athènes “mettait le couteau sur la gorge des Péloponnésiens” (2). En effet, le décret d’embargo était un défi, une provocation qui devait procurer à Athènes le casus belli nécessaire pour justifier le déclenchement d’une guerre contre Sparte et les Péloponnésiens. Toutefois, comme on sait, la guerre termina, trente ans après, par la défaite d’Athènes et le renversement de sa démocratie.

Un autre épisode exemplaire dans l’histoire des sanctions: le 18 novembre 1935, pour la première fois, la Société des Nations décréta les sanctions économiques contre un pays membre, c’est à dire contre l’Italie, comme réponse à la campagne d’Ethiopie. Le pays anticolonialiste par excellence, l’Angleterre, envoya la Home Fleet à patrouiller la Méditerranée pour faire respecter l’embargo.

Quelques ans après, Carl Schmitt commentait: “Les puissances sociétaires ne faisaient pas la guerre, mais elles imposaient des sanctions. Le fameux art anglais des ‘méthodes indirectes’ célébra un nouveau triomphe. La typique distinction entre opérations militaires et opérations non militaires, actions belliques et actions pacifiques, perdit toute sa signification, parce que les actions non militaires pouvaient être hostiles dans une façon plus efficace, immédiate et intense” (3).

D’ailleurs le fondateur même de la Société des Nations, le président nordaméricain Thomas Woodrow Wilson, avait théorisé: “Une nation boycottée finit par céder. Appliquant ce remède économique-pacifique, silentieux mais mortel, on évite d’avoir recours à la force” (4).

Evidemment l’Angleterre avait bien appri la leçon synthétisée dans le célèbre axiome de Sir Walter Raleigh: “Qui maîtrise la mer maîtrise le commerce du monde et à celui qui maîtrise le commerce du monde appartiennent tous les trésors du monde et le monde même”.  

Il semble que les puissances thalassocratiques privilègent les sanctions comme formes spéciales de guerre et les utilisent dans le cadre d’une conception générale de la guerre et de l’ennemi; mais une conception très différente de celle qu’on trouve à la base du jus publicum Europaeum, parce qu’elle ignore la distinction entre combattants et non-combattants.

“La guerre maritime – écrit Carl Schmitt – n’est pas une guerre de combattants; elle se base sur une conception totale de l’ennemi, laquelle considère ennemis non seulement tous les citoyens de l’Etat ennemi mais aussi tous ceux qui commercent avec l’ennemi et supportent son économie. Dans cette guerre il est permis, sans contestation possible, que la propriété privée de l’ennemi soit soumise au droit de pillage; le blocus, moyen qui appartient spécifiquement au droit maritime reconnu par le droit international, frappera sans exception l’ensemble de la population des régions concernées. Grâce à un autre moyen également reconnu par le droit international et également appartenant au droit maritime, le droit de pillage, aussi la propriété privée des neutres pourra être saisie” (5).

En 1946, par exemple, les Etats Unis ont prétendu que la Confédération Helvétique consigne les avoirs des citoyens allemands déposés dans les banques suisses, prétention contraire à l’ordre juridique privé international (6), mais conforme au droit de butin spécifique du droit maritime.

 

 

Les sanctions selon la doctrine des relations internationales

Selon la doctrine des relations internationales, les sanctions économiques sont des dispositions adoptées par un Etat, ou par une coalition d’Etats, ou encore par une organisation internationale, dans le but de contraindre un Etat à respecter les règles de la coexistence internationale, sans faire recours aux armes.

Dans le texte de Martin I. Glassner sur les relations internationales on peut lire que “des sanctions spéciales, imposées dans des circonstances particulières et respectées efficacement, peuvent modifier le comportement de l’Etat sanctionné, tout en renforçant le prestige du sanctionneur. Toutefois, Il existe peu de preuves démontrant que les sanctions puissent à elles seules effrayer un Etat qui ne soit pas très petit et faible ” (7).

Les sanctions économiques les plus communes sont les suivantes:

1) l’embargo

2) le boycottage

3) la congélation des biens et des capitaux que l’Etat sanctionné ou ses citoyens possèdent à l’exterieur

4) la défense de donner des créances

5) la défense de transaction financière

6) l’interdiction de faire éscale pour les navires et les avions de l’Etat sanctionné

7) la révocation de l’assistance financière et technique

 

L’embargo, en particulier, est l’ordre donné à un navire marchand de ne pas lever l’ancre du port où il se trouve ou bien de ne pas accoster. Dans une acception plus large l’embargo est le blocus des échanges commerciaux décidé par un pays ou bien plusieurs pays à l’égard d’un autre pays.

Le boycottage – comme aussi le blocus – est un ensemble de mesures qui visent à bloquer le commerce extérieur et les communications d’un pays ennemi. En particulier, le boycottage consiste dans la défense d’acheter des biens provenant du pays qui fait l’objet de la sanction.

Embargo et boycottage sont considérés par l’O.N.U. comme des sanctions pacifiques à appliquer contre les Etats qui violent le droit international ou ne respectent les droits de l’homme.

En réalité, comme affirment les colonels chinois Qiao Liang et Wang Xiangsui dans leur fameux livre sur “la guerre sans limites”, “L’imposition d’embargos sur les exportations de technologies fondamentales (…) peut avoir un effet destructif égal à celui d’une opération militaire. A cet égard, – ils rappellent – l’embargo total contre l’Irak est un exemple classique de manuel” (8).

 

 

La “guerre économique” et ses buts

Un autre militaire chargé de cours de stratégie, le général italien Carlo Jean, déjà il y a dix-huit ans annonçait l’intensification de l’emploi des armes économiques, comme l’embargo et les autres sanctions, pour la réalisation des mêmes buts qui ont été poursuivis par la guerre traditionnelle.

En effet, la guerre “économique” est une vraie guerre, puisque son but stratégique est la victoire sur l’ennemi, c’est à dire l’assujettissement du vaincu à la volonté du vainqueur, exactement comme dans la guerre proprement dite.

D’ailleurs le général Jean expliquait comme dans ce contexte les moyens d’ordre économique ne sont pas employés pour la production ou pour le commerce, mais exactement comme des armes, pour obtenir des buts analogues aux buts poursuivis par la force militaire, c’est à dire, “pour détruire la volonté de résistance de l’adversaire (par exemple en le privant de ses capacités militaires, en provocant graves dommages à sa base productive, famines, épidémies, révoltes, changement de classe dirigéante ou de gouvernement, coups d’Etat, sécessions etc.)” (9).

Ainsi le même auteur définissait l'”arme économique” comme le moyen que les Etats ou les coalitions d’Etats “peuvent licitement employer pour le contrôle de l’économie nationale ou internationale, si cet emploi vise à obtenir des buts analogues à ceux qu’on pourrait poursuivre par la force militaire, en particulier la victoire sur un Etat ou bien sur une coalition adversaire” (10).

Il observait également que “dans l’ordre international ce principe protège les puissances économiquement prédominantes et favorise le maintien du statu quo” (11), ainsi qu’il pouvait conclure affirmant: “Il est donc normal que ce principe ait été soutenu et imposé par l’Occident, qui dans la phase historique actuelle jouit d’une écrasante suprématie économique sur le reste du monde” (12).

On a dit aussi que le concept de guerre économique est ambigu et multiforme, parce qu’il s’agit d’une guerre qui peut poursuivre des buts différents: économiques, stratégiques ou politiques (13).

La guerre économique poursuit des buts économiques quand l’Etat n’a pas comme but essentiel l’endommagement de l’adversaire, mais il vise à accroître le bien-être de ses citoyens ou bien sa richesse, par exemple recourant à pratiques commerciales illégitimes.

La guerre économique poursuit des buts stratégiques si, dans une conflit militaire, elle vise à priver l’ennemi des ravitaillements nécessaires aux Forces Armées et à la population par blocs navaux, aériens ou terrestres. Mais on poursuit un but stratégique aussi quand, en absence d’un conflit militaire direct, on vise à interdire à un Etat adversaire produits et technologies considérés comme “critiques”.

Enfin, la guerre économique poursuit des buts politiques, si l’arme économique est employée pour pousser un Etat à accepter la volonté de celui qui la employe, exactement comme dans les formules clausewitziennes: “continuation de la politique de l’Etat par d’autres moyens”, “act de violence ayant le but d’obliger l’adversaire à se soumettre à notre volonté”, “act inspiré par un dessein politique”.

Dans le cas de la République Islamique de l’Iran, le but de la guerre économique est sûrement stratégique, puisque l’objectif déclaré des sanctions est celui de bloquer l’acquisition d’uranium et des technologies utiles pour le programme nucléaire.

Mais, pour ce qui est des sanctions unilaterales imposées par les Etats Unis d’Amérique, le but est aussi et surtout politique, voire même géopolitique, étant donnée la nécessité de la thalassocratie nordaméricaine de contrôler le Rimland de la géopolitique spykmanienne, dont l’Iran constitue précisément un segment central.

En effet, si Sir Halford Mackinder avait formulé la doctrine selon laquelle qui contrôle le Heartland gouverne le monde, Nicholas J. Spykman a énoncé la thèse complementaire: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world“.

 

 

 

1. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Curae Thucydideae, 1885, p. 17.

2. Helmut Berve, Griechische Geschichte, II 1952, p. 11.

3. Carl Schmitt, Inter pacem et bellum nihil medium, “Zeitschrift der Akademie für Deutsches Recht”, VI, 1939, pp. 594-595.

4. Cité par P. M. Gallois, Le sang du pétrole – Irak, L’Age d’Homme, Lausanne 1966, p. 31.

5. Carl Schmitt, Souveraineté de l’Etat et liberté des mers, in Du Politique, Pardès, 1990, pp. 150-151; cfr. Idem, Terra e mare, Adelphi, Milano p. 90.

6. “Neue Zürcher Zeitung”, 14 Sept. 1996.

7. M. I. Glassner, Manuale di geografia politica II. Geografia delle relazioni tra gli Stati, Franco Angeli, Milano 1995, p. 36.

8. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, LEG, Pordenone 2001, p. 81.

9. Carlo Jean, Geopolitica, Laterza, Bari 1995, p. 140.

10. Carlo Jean, Geopolitica, cit., p. 141.

11. Ibidem.

12. Ibidem.

13. Claude Lachaux, La guerre économique: un concept ambigu, “Problèmes Economiques”, 14 oct. 1992, pp. 28-31.

 

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DA KEYNES A FRIEDMAN, E RITORNO. I LIMITI DELL’IDEOLOGIA

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L’entità della crisi economica indotta dall’onda d’urto propagatasi dallo shock del 2007-2008 ha sortito ripercussioni decisamente inaspettate sul piano delle teorie economiche dominanti e, conseguentemente, sulle operazione compiute dai vari Paesi in campo economico. Il successo che in questi anni hanno riscosso economisti “keynesiani” come Paul Krugman, Joseph Stiglitz, ecc. è effettivamente dovuto al fallimento del economia imperniata sul concetto di “laissez-faire”, di cui i padri della “scuola austriaca” (Ludwig Von Mises e Friedrich Von Hayek) e i loro allievi della “scuola di Chicago” (Milton Friedman in primis) sono stati i principali sostenitori. Il disastro economico odierno può essere infatti considerato come il risultato delle misure neoliberali applicate inizialmente in tutti i Paesi industrializzati, e successivamente in quasi tutto il mondo per effetto del processo di globalizzazione irradiato dal pulsar statunitense attraverso le sue potenti propaggini finanziarie (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale).

Ma l’affermazione delle teorie neoliberali è a sua volta dovuta all’inadeguatezza delle ricette keynesiane manifestatasi in seguito allo shock petrolifero del 1973.

La validità della teoria generale di John Maynard Keynes rimase praticamente indiscussa dagli anni ’40 fino a quel particolare episodio storico per alcuni motivi piuttosto peculiari.

In sostanza, la teoria economica sviluppata da Keynes è incardinata sul concetto di “domanda aggregata”, che risulta dalla somma della domanda di consumi da parte dei cittadini, della domanda di investimenti da parte delle imprese, la domanda del settore statale mediante la spesa pubblica e i tassi di interesse, e la domanda dei mercati internazionali, sostenibile incentivando le esportazioni e quindi correggendo verso il basso i tassi di cambio.

Focalizzando l’attenzione sulla variabile della domanda aggregata e sui suoi componenti, Keynes offrì una base teorica volta a combattere due dei principali problemi che le economie nazionali si sarebbero potute trovare ad affrontare, ovvero la disoccupazione e l’inflazione.

Dal momento che riteneva che la disoccupazione scaturisse da una depressione della domanda aggregata, Keynes suggeriva di intervenire per sostenere questa domanda. Per una nazione sarebbe quindi  stato possibile:

 

A – stimolare i consumi attraverso il taglio delle imposte dirette, in modo da consentire ai cittadini di conservare più soldi da spendere;

B – favorire gli investimenti delle imprese applicando bassi tassi di interessi  così da rendere più abbordabile il costo del denaro;

C – edificare nuove infrastrutture e potenziare quelle esistenti allargando i cordoni della spesa pubblica, coinvolgendo direttamente i cittadini nella costruzione di strade, ponti, ferrovie, ospedali, ecc.;

D – colmare la carenza della domanda interna orientando la produzione verso le esportazioni, da promuovere mediante la svalutazione della moneta locale.

 

D’altro canto, Keynes era convinto che l’inflazione fosse dovuta a un aumento eccessivo ed incontrollato della domanda aggregata cui non corrisponderebbe una offerta adeguata, e indicava pertanto di agire per comprimere la richiesta di beni e servizi. Lo Stato sarebbe quindi stato chiamato ad applicare misure diametralmente opposte a quelle necessarie per fronteggiare la disoccupazione. Avrebbe quindi potuto:

 

A – deprimere i consumi aumentando le imposte dirette;

B – scoraggiare gli investimenti delle imprese applicando alti tassi di interesse;

C – focalizzare l’attenzione sul bilancio adottando politiche di austerità volte a tagliare la spesa pubblica;

D – sostenere la moneta locale in modo da rendere più problematiche le esportazioni.

 

I presupposti che Keynes fissò per escogitare questa brillante teoria non contemplavano, naturalmente, che i fenomeni di disoccupazione e inflazione potessero manifestarsi contemporaneamente, dal momento che la disoccupazione, spingendo verso il basso i prezzi, si manifestava generalmente in periodi deflazionistici. Va sottolineato che nel momento in cui il grande economista britannico ideò le sue teorie gli Stati erano molto “chiusi” verso l’esterno, e riuscivano quasi sempre a rifornirsi dei beni di cui avevano bisogno attingendo alle risorse di cui disponevano all’interno dei confini nazionali o importandoli alle proprie insindacabili condizioni dalle colonie. Ma la decolonizzazione e le sue logiche di base, associata all’aumento costante della domanda di energia determinarono una progressiva apertura dei mercati nazionali, che cominciarono ad interconnettersi tra di loro in maniera sempre più salda.

Così, quando si verificò lo shock del 1973, il “paradosso” keynesiano finì per verificarsi, poiché l’aumento esorbitante del prezzo del petrolio (pari al 400%) circa innescò un brusco aumento dei costi di produzione da parte delle imprese che si videro costrette a scaricare il tutto sul prezzo finale. Le politiche keynesiane adottate per arginare il fenomeno si rivelarono completamente fallimentari, poiché in quel caso l’inflazione non era dovuta a un aumento incontrollato della domanda, ma a una decisione politica assunta dai Paesi membri dell’OPEC in combutta con lo Shah di Persia, nonché con Richard Nixon ed Henry Kissinger.

Il trionfo del neoliberismo nacque proprio sulle ceneri delle ricette keynesiane, il cui fallimento costituì un’occasione da non perdere per i principali esponenti della “scuola di Chicago”. Milton Friedman in persona ebbe a scrivere che: «Soltanto una crisi, reale o percepita che sia, produce vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano. Questa, io credo, è la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il politicamente impossibile diventa il politicamente inevitabile».

La celebre giornalista canadese Naomi Klein ha individuato in questa espressione la base su cui è stata costruita la cosiddetta “shock therapy”, ovvero la prassi operativa attraverso cui decine e decine di Paesi sono stati convertiti, sotto la sorveglianza di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, all’economia liberista dopo l’“esperimento” attuato dagli esponenti della scuola di Chicago nel Cile di Augusto Pinochet.

Secondo il nuovo paradigma di riferimento, l’attenzione generale non sarebbe più dovuta cadere sul lato della domanda, ma su quello dell’offerta, e l’approccio alla realtà sarebbe dovuto passare dal macroeconomico al microeconomico. Lo Stato si sarebbe pertanto dovuto limitare a mantenere i conti a posto, ad applicare tassi di interesse volti a garantire la stabilità e a ridurre le imposte allo scopo di stimolare le aziende ad investire migliorando la qualità dei loro prodotti. In tal modo si sarebbe favorita la concorrenza, e ciascuna impresa sarebbe stata costretta a comprimere i cosiddetti “costi fissi” per mantenersi competitiva sui mercati mondiali. L’aumento dei costi indotto dallo shock petrolifero fu quindi mitigato con  il taglio dei salari, la rimozione degli apparecchi volti a limitare l’impatto ambientale e tutte le altre misure rientranti nel programma di “razionalizzazione produttiva”.

Grazie a queste circostanze, le tesi di Milton Friedman sostituirono quelle di Keynes, giudicate ormai obsolete, e numerosissime nazioni di tutto il mondo vararono robusti programmi imbevuti di neoliberismo.

Con lo scoppio della crisi del 2007-2008, le teorie di Keynes sono state rapidamente riscoperte ed evocate specialmente in riferimento all’Europa, alla luce del fatto che nel Vecchio Continente ha cominciato a permanere nuovamente il fenomeno di deflazione combinato a disoccupazione di massa. Numerosi economisti come Paul Krugman hanno ripetutamente stigmatizzato l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea, perché impediscono per statuto ai singoli Paesi sia di stabilire i tassi di interesse da applicare sia (soprattutto) di svalutare la moneta per favorire le esportazioni. Ciascun Paese ha il potere di agire unicamente attraverso strumenti fiscali. Ma limitarsi ad aumentare la spesa pubblica ed abbassare le tasse senza poter intervenire sui tassi di interesse e sulla moneta finisce soltanto per alimentare il deficit e il debito pubblico. Con la sottoscrizione del cosiddetto “patto di stabilità”, gli Stati sono stati espropriati anche del potere di avvalersi di questi strumenti, poiché ogni Paese è tenuto a rientrare in determinati parametri di disciplina di bilancio (deficit al 3% e debito pubblico al 60% del Prodotto Interno Lordo).

Secondo la teoria keynesiana, i Paesi mediterranei, che hanno tassi di disoccupazione che in alcuni casi supera il 20%, necessiterebbero di politiche espansive, in cui la spesa in disavanzo dovrebbe essere associata a una riduzione delle tasse, a una diminuzione dei tassi di interesse  e a una svalutazione competitiva, ma l’Unione Europea proibisce l’applicazione di questo genere di misure. La BCE ha abbassato notevolmente i tassi di interesse e concesso denaro a basso costo alle banche che, lungi dall’utilizzare questa liquidità per sostenere imprese e famiglie, hanno fatto incetta di Buoni del Tesoro dei Paesi mediterranei e successivamente scommesso pesantemente sul loro declino attraverso i Credit Default Swap, in modo da lucrare sull’aumento degli spread. Le banche tedesche (Deutsche Bank e Commerzbank) si sono distinte per solerzia e disinvoltura con cui hanno applicato questa prassi allo stesso modo in cui Berlino si è opposta a qualsiasi genere di apertura finalizzata a dar respiro all’economia greca, spagnola, italiana e portoghese. La Germania intende mantenere le condizioni che le consentono di registrare i propri esorbitanti avanzi nella bilancia dei pagamenti, il 60-65% dei quali è assorbito dai Paesi membri dell’Eurozona. Angela Merkel e il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble si sono irriducibilmente opposti sia alla svalutazione dell’euro, sia alla federalizzazione del debito sia al lancio dei cosiddetti “Eurobond” –  che impedirebbero le periodiche fiammate degli spread –, sostenendo che la “fiducia” dei “mercati” si recupererà soltanto mostrando finanze pubbliche in salute, in conformità alle tesi sostenute da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff clamorosamente rivelatesi prive di alcun fondamento. In tal modo l’intera Europa mediterranea rischia concretamente di sprofondare nella depressione economica, con tutti i suoi corollari di disoccupazione galoppante e disintegrazione del tessuto sociale ad essa connessi.

L’opposizione a qualsiasi genere di politica espansiva è peraltro aggravata dal cambio di paradigma deciso dal nuovo governo giapponese, che intende, molto keynesianamente, raddoppiare la base monetaria nazionale nell’arco di pochi anni allo scopo di far lievitare sensibilmente l’inflazione e di deprimere la valutazione dello yen, in modo da favorire le esportazioni.

Negli Stati Uniti, le istituzioni hanno addirittura attinto a piene mani alle teorie di Keynes. Ma ciò non toglie che la politica espansiva condotta dal Dipartimento del Tesoro e dalla Federal Reserve appaia estremamente pericolosa, nonostante l’intero comparto informativo continui a parlare incessantemente di “ripresa degli USA” e di “calo della disoccupazione”. Con i suoi continui quantitative easing, la Federal Reserve sta infatti riacquistando titoli di debito emessi dal Tesoro al ritmo di circa un trilione di dollari all’anno, cosa che ha reso i bond estremamente costosi e portato la loro redditività a livelli negativi, in termini reali. Per la Fed si tratta di una mossa indispensabile ad assicurare la solvibilità delle banche, le quali, nonostante la loro spaventosa esposizione sul mercato dei derivati (la sola JP Morgan Chase ha un’esposizione sui derivati equivalente al Prodotto Interno Lordo mondiale), hanno utilizzato questa liquidità non per allargare il bacino del credito a famiglie e imprese, ma per operare pesantemente sui mercati azionari – non è un caso che gli indici Dow Jones e Standard & Poor’s abbiano registrato ben due record nell’arco di poche settimane. Ma l’evidente surriscaldamento degli stock market rappresenta un segnale molto pericoloso, perché indica la presenza di un’euforia capace di dissolversi in pochi attimi, provocando una caduta ben peggiore di quelle verificatesi nel 1987 e nel 1999.

L’evidente collusione tra la Fed e Wall Street (va ricordato che la Banca Centrale è controllata da banche private – gruppi Rothschild, Warburg, Lazard, Rockefeller, Kuhn Loeb e banche come Goldman Sachs, Citigroup, ecc. – azioniste dei 12 distretti che compongono la “riserva federale”) si è tuttavia spinta ben oltre il sostegno indiscriminato ed illimitato alle grandi banche. Un economista molto addentro a queste questioni come Paul Craig Roberts (ex alto funzionario al Tesoro nonché padre della cosiddetta “reaganomics”) sostiene infatti che la Federal Reserve abbia più o meno direttamente affidato ai giganti del credito il compito di inondare di short “nudi” il mercato dei future sull’oro. Merrill Lynch e Goldman Sachs in primis avrebbero teleguidato questa potente offensiva tesa a far crollare il valore del metallo, in modo da scoraggiare gli investitori a puntare sul bene-rifugio per eccellenza orientandoli verso la divisa statunitense.

Con il valore del dollaro tenuto a galla attraverso questo genere di “prodigi”, la Fed è riuscita a tenere (molto) parzialmente a freno l’inflazione (già altissima, come sostiene l’economista John Williams, il quale, attraverso calcoli specifici, ha scoperto che i dati ufficiali sottostimano notevolmente il livello reale dell’aumento dei prezzi), che aumenterebbe inesorabilmente in misura esponenziale qualora l’allontanamento generalizzato dalla divisa statunitense attualmente in atto dovesse ulteriormente radicalizzarsi. L’effetto di aumentare considerevolmente l’offerta di valuta statunitense in presenza di una sensibile contrazione della domanda innescherebbe automaticamente una sonora caduta di valore del dollaro, e per un Paese come gli USA, la cui bilancia dei pagamenti è cronicamente in passivo per effetto della pesante deindustrializzazione subita in passato (anche a causa delle dinamiche legate alla globalizzazione), il deprezzamento della moneta provocherebbe forti fiammate inflazionistiche immobilizzando i redditi.

Per mitigare l’aumento dei prezzi, la Federal Reserve si vedrebbe costretta ad alzare il tassi di interesse, ma ciò provocherebbe la caduta del valore e la conseguente esplosione della redditività dei Treasury bond, il che appesantirebbe enormemente gli oneri a carico dello Stato e indurrebbe una drastica stretta creditizia (credit crunch) suscettibile di strangolare defintivamente l’arrancante economia reale. Verrebbe così innescata una tremenda spirale distruttiva che abbatterebbe i redditi e farebbe crollare le entrate fiscali, alimentando il già colossale deficit nazionale. Si manifesterebbe, in altre parole, di una forma estremamente radicale di stagflazione, in cui il fenomeno dell’inflazione galoppante si presenterebbe in presenza di una grave fase depressiva. La materializzazione del fenomeno che la dottrina economica ha sempre bollato come paradosso (inflazione mista a depressione) delineerebbe i contorni di una catastrofe inaudita di fronte alla quale non esistono rimedi.

Sull’economia statunitense gravano quindi tre gigantesche bolle (obbligazionaria, azionaria e del dollaro), che potrebbero scoppiare da un momento all’altro generando ripercussioni inimmaginabili che si propagherebbero ben oltre l’economia e il tessuto sociale nordamericano. Tutto dipende quindi da quale atteggiamento Cina e Giappone in primis decideranno di tenere nei confronti della valuta statunitense. Malgrado Pechino e Tokio siano ben consapevoli che un deprezzamento del dollaro ridurrebbe considerevolmente il volume del credito che possono vantare nei confronti di Washington, non sono mancati segnali di fastidio. Il 26 dicembre 2011, infatti, si è tenuto il vertice di Pechino, al termine del quale l’allora capo del governo cinese Wen Jibao e l’allora primo ministro giapponese Yoshihiko Noda hanno sottoscritto un accordo dall’enorme coefficiente strategico, che prevede l’abbandono del dollaro come valuta di riferimento nell’ambito degli interscambi tra le due potenze asiatiche. Yuan e yen saranno chiamate a sostituire la moneta statunitense, che fino a quella fatidica data costituiva l’indice di riferimento di oltre la metà delle transazioni commerciali tra Pechino e Tokio. Come se non bastasse, i governi di Corea del Sud, Malaysia, Australia, Indonesia, Bielorussia, Argentina e Brasile hanno stipulato accordi bilaterali con Pechino attraverso cui si è stabilita la possibilità di utilizzare lo yuan come moneta di riferimento alternativa al dollaro. La Cina ha fatto valere le proprie posizioni al riguardo anche nella riunione del BRICS tenutasi a Durban nel marzo 2013, al termine della quale i Paesi membri hanno deciso di escludere il dollaro dai loro scambi e di dar vita a un ente bancario destinato verosimilmente ad esercitare una forte concorrenza alle istituzioni di Bretton Woods, controllate dagli USA.

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UN GOLFO, UNO STRETTO, UN MARE (IRAN 1975-1995)

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Un Golfo, uno Stretto, un Mare (Iran 1975-1995)

immagini di Bandar-e ‘Abbâs, Qeshm, Hormoz e Châh-Bahâr

Fotografie di Riccardo Zipoli

con poesie di Hâfez e musiche dello Hormozgân

Mostra prodotta da:

Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea (Università Ca’ Foscari Venezia)

Scuola in Produzione e Conservazione dei Beni Culturali (Università Ca’ Foscari Venezia)

Con il contributo di:

Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran – Roma

Teatro Ca’ Foscari

con il patrocinio dell’Assessorato alle Attività Culturali del Comune di Venezia

Il Golfo Persico, lo Stretto di Hormoz e il Mare di Oman identificano gli spazi acquei che bagnano le coste meridionali dell’Iran e quelle di numerosi paesi arabi: l’Oman, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrain, il Kuwait e l’Iraq. Si tratta di una regione coinvolta in complesse vicende geografiche, storiche, politiche, economiche e linguistiche che la mettono al centro dell’attenzione mondiale e che però, in questa sede, restano in secondo piano. Il presente omaggio si concentra infatti sulla cultura di quei luoghi e trova le radici nella sfera degli affetti e dei ricordi relativi a tre viaggi compiuti da Riccardo Zipoli molti anni fa, nel 1975, nel 1980 e nel 1995, lungo i litorali nel sud dell’Iran. Dall’archivio fotografico di quei tre viaggi sono state scelte 36 fotografie con il fine di costruire un repertorio che, oltre a essere un diario personale di tre lontane vicende, possa anche dare un’idea di quei luoghi, in un misto di memoria e di documentazione.

La mostra presenta anche una raccolta di brani musicali, un video, un’antologia di poesie e una serie di schede scientifiche.

I brani musicali sono stati registrati dal grande iranista Ilya Gershevitch (1914-2001) nel Golfo Persico nel 1956, e sono inediti. Il prodotto è stato realizzato grazie alla generosità dell’Ancient India and Iran Trust di Cambridge (Regno Unito), in collaborazione con il Conservatorio Musicale veneziano Benedetto Marcello.

Il video, con la voce recitante di Ottavia Piccolo, raccoglie alcuni materiali della mostra ed è stato realizzato in collaborazione con ilDipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica dell’Università Ca’ Foscari Venezia.

Le poesie, tradotte in italiano da Riccardo Zipoli, sono di Shamsoddin Mohammad Hâfez (1320-1390), da tutti considerato il più importante poeta lirico di lingua persiana.

Le schede scientifiche, che descrivono da vari punti di vista le zone oggetto della mostra, sono a cura di Gerardo Barbera.

L’esposizione propone un percorso suggestivo in cui fotografie, musiche, poesie, mappe e descrizioni scientifiche si alternano in un itinerario che descrive aspetti del Golfo Persico lontani dallo stereotipo contemporaneo dominato da tematiche economiche e militari. Il quadro che ne esce è quello di una zona estranea alle contese di cui è stata ed è oggetto, una zona bella, affascinante, pacifica.

La mostra è è allestita a Ca’ Cappello, palazzo che ospita la sezione del Vicino e Medio Oriente, Caucaso e Subcontinente Indiano del Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università Ca’ Foscari Venezia. L’intento è stato quello di creare un allestimento che entrasse in sintonia con la vita universitaria di questa sede proponendosi come un’iniziativa artistica e come uno stimolo per la riflessione e per il dibattito. Si tratta anche di un omaggio a un palazzo storico dell’ateneo veneziano, un palazzo dove hanno studiato e si sono formati molti studiosi di discipline orientalistiche.

L’esposizione è stata curata da Riccardo Zipoli, fotografo e docente di Lingua e letteratura persiana e di Ideazione e produzione fotograficapresso l’Università Ca’ Foscari Venezia, con la collaborazione di Alberto Prandi, architetto di rinomata esperienza negli allestimenti, e si è avvalsa delle capacità di due stampatori d’eccellenza, la ditta Center Chrome (Firenze), che ha curato la stampa delle immagini fotografiche, e il Gruppofallani (Venezia), che si è occupato della stampa e della messa in posa di tutti gli elementi espositivi.

Della mostra è stato stampato un catalogo in inglese a cura della casa editrice Cafoscarina.

Ca’ Cappello, San Polo 2035, Venezia

14 giugno-15 ottobre 2013

lunedì – venerdi 9 – 19

sabato 9 – 12

chiuso 12 -17 agosto

ingresso libero

 
 
Capture venezia

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TALASSOCRAZIA E SANZIONI

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Megara e l’Italia

Nel 1991, gli Atti di un colloquio di storici e politologi europei ed americani avente per tema “la rivalità egemonica fra Atene e Sparta e fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica” furono pubblicati sotto il titolo From Thucydides to the Nuclear Age. Tucidide, lo storico di quella “guerra mondiale dell’antichità” che fu la guerra del Peloponneso, è un autore particolarmente apprezzato in certi ambienti politico-intellettuali atlantisti, che hanno cercato di farne il testimone del bipolarismo e del confronto fra due blocchi militari.

La filologia classica, a partire da Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff1, ha rimproverato a Tucidide il fatto che, volendo attribuire a Sparta le cause del conflitto, ha lasciato in ombra il blocco commerciale imposto a Megara dalla talassocrazia ateniese. Eppure la guerra del Peloponneso ebbe inizio col decreto contro i Megaresi del 432 a. C. (il Megaréon pséphisma), una serie di sanzioni economiche che interdicevano ai Megaresi, alleati di Sparta, l’accesso ai porti, agli scali ed ai mercati della Lega di Delo, l’alleanza egemonizzata da Atene.

Per gli storici è evidente che le sanzioni contro Megara non erano semplicemente un mezzo con cui Atene intendeva estendere la propria influenza indebolendo i rivali. Helmut Berve, per esempio, ha affermato che con l’embargo, che coinvolgeva anche gli alleati di Megara, Atene “puntava il coltello alla gola dei Peloponnesii”2. Infatti lo pséphisma era una una sfida, una provocazione che doveva procurare agli Ateniesi il casus belli necessario per giustificare la guerra contro Sparta e i suoi alleati. Tuttavia, come è noto, trent’anni più tardi il conflitto si risolse con la sconfitta di Atene e l’abbattimento del suo regime democratico.

Un altro episodio esemplare nella storia delle sanzioni: il 18 novembre 1935, per la prima volta, la Società delle Nazioni decretò le sanzioni economiche contro un paese membro, l’Italia, come risposta alla campagna d’Etiopia. La Gran Bretagna, capofila mondiale dell’anticolonialismo, inviò la Home Fleet a pattugliare il Mediterraneo per far rispettare l’embargo.

Qualche anno dopo, Carl Schmitt commentava: “Le potenze societarie non facevano la guerra, ma imponevano delle sanzioni. La famosa arte inglese dei ‘metodi indiretti’ celebrò un nuovo trionfo. La tipica distinzione fra operazioni militari e operazioni non militari, azioni belliche e azioni pacifiche, perse ogni significato, perché le operazioni non militari potevano essere ostili in un modo più efficace, immediato ed intenso”3.

D’altronde era stato lo stesso fondatore della Società delle Nazioni, il presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson, a teorizzare: “Una nazione boicottata finisce per cedere. Applicando questo rimedio economico-pacifico, silenzioso ma mortale, si evita di fare ricorso alla forza”4.

Quanto all’Inghilterra, evidentemente essa aveva ben imparato la lezione sintetizzata nel celebre assioma di Sir Walter Raleigh: “Chi domina il mare domina il commercio mondiale; e a chi domina il commercio mondiale appartengono tutti i tesori del mondo e il mondo stesso”.

A quanto pare, le potenze talassocratiche privilegiano le sanzioni come forma speciale di guerra e le utilizzano nel quadro di una concezione della guerra e del nemico che è molto diversa da quella che sta alla base dello jus publicum Europaeum, poiché ignora la distinzione tra combattenti e non combattenti.

“La guerra marittima – ha scritto altrove Carl Schmitt – non è una guerra di combattenti; essa si basa su una concezione totale del nemico, la quale considera nemici non solo tutti i cittadini dello Stato nemico, ma anche tutti coloro che commerciano col nemico e ne sostengono l’economia. In questo genere di guerra è permesso, senza contestazione possibile, che la proprietà privata nel nemico sia sottoposta al diritto di preda; il blocco, mezzo che appartiene specificamente al diritto marittimo riconosciuto dal diritto internazionale, colpirà senza eccezione l’insieme della popolazione delle regioni coinvolte. Grazie ad un altro mezzo parimenti riconosciuto dal diritto internazionale e parimenti appartenente al diritto marittimo, il diritto di saccheggio, anche la proprietà privata dei neutrali potrà essere presa”5.

Nel 1946, per esempio, gli Stati Uniti pretesero che la Confederazione Elvetica consegnasse i beni dei cittadini tedeschi depositati nelle banche svizzere, pretesa contraria all’ordine giuridico privato internazionale6, ma conforme al diritto di preda specifico del diritto marittimo.

 

 

Le sanzioni secondo la dottrina delle relazioni internazionali 

Secondo la dottrina delle relazioni internazionali, le sanzioni economiche sono disposizioni adottate da uno Stato, o da una coalizione di Stati, o da un’organizzazione internazionale, allo scopo di costringere un altro Stato a rispettare le regole della coesistenza internazionale, senza fare ricorso alle armi.

Nel testo di Martin I. Glassner sulle relazioni internazionali si può leggere che “sanzioni specifiche, imposte in circostanze particolari e fatte rispettare efficacemente, possono modificare il comportamento dello Stato a cui sono rivolte, rafforzando nel contempo il prestigio della parte che le impone. Esistono comunque poche prove che le sanzioni da sole possano spaventare Stati che non siano molto piccoli e deboli”7.

Le sanzioni economiche più comuni sono le seguenti:

1) l’embargo

2) il boicottaggio

3) il congelamento dei beni e dei capitali che lo Stato sottoposto a sanzioni o i suoi cittadini possiedono all’estero

4) il divieto di concedere crediti

5) il divieto di transazione finanziaria

6) il divieto di fare scalo per le imbarcazioni e gli aerei dello Stato sottoposto a sanzioni.

7) la revoca dell’assistenza finanziaria e tecnica.

L’embargo, in particolare, è il divieto, rivolto ad un’imbarcazione mercantile, di levare l’ancora dal porto in cui si trova o di accostarsi ad un porto. In un’accezione più ampia, l’embargo è il blocco degli scambi commerciali decretato da un paese o da più paesi contro un paese terzo.

Il boicottaggio, come pure il blocco, è un insieme di misure che mirano a bloccare il commercio estero e le comunicazioni di un paese nemico. In particolare, il boicottaggio consiste nel divieto di acquistare i beni provenienti dal paese che è sottoposto a sanzioni.

Embargo e boicottaggio sono considerati dall’ONU sanzioni pacifiche applicabili nei confronti degli Stati che violano il diritto internazionale o non rispettano i diritti umani.

In realtà, come affermano i colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro libro sulla “guerra senza limiti”, “l’imposizione di embarghi sulle esportazioni di tecnologie fondamentali (…) può avere un effetto distruttivo pari a quello di un’operazione militare. Al riguardo, l’embargo totale (…) contro l’Iraq, iniziato dagli Stati Uniti, è l’esempio classico da libro di testo”8.

 

 

La “guerra economica” e i suoi obiettivi

Un altro militare, il generale Carlo Jean, già diciott’anni fa preannunciava l’intensificarsi di un uso delle armi economiche – quali l’embargo e le altre sanzioni – finalizzato a conseguire gli stessi obiettivi perseguiti dalla guerra tradizionale. Infatti la “guerra economica” è pur sempre una guerra, poiché il suo obiettivo strategico consiste nello sconfiggere il nemico per assoggettarlo alla volontà del vincitore, così come nella guerra propriamente detta. D’altronde il generale Jean osserva che in questo contesto i mezzi d’ordine economico non vengono impiegati per la produzione o per il commercio, bensì, come se fossero vere e proprie armi, per ottenere risultati analoghi a quelli perseguiti tramite la forza militare, vale a dire “per distruggere la volontà di resistenza dell’avversario (ad esempio, privandolo delle proprie capacità militari, provocando gravi danni alla sua base produttiva, carestie, epidemie, rivolte, cambio di classe dirigente o di governo, colpi di Stato, secessioni, e così via)”9.

Il medesimo autore definisce l'”arma economica” come il mezzo che gli Stati o le coalizioni di Stati “possono lecitamente impiegare per il controllo dell’economia nazionale o internazionale, qualora tale impiego sia teso a conseguire obiettivi analoghi a quelli conseguibili con l’impiego della forza militare e, in particolare, la vittoria su uno Stato o una coalizione nemica”10. Parimenti egli osserva che “questo principio tutela nell’ordinamento internazionale le potenze economicamente dominanti, favorendo il mantenimento dello statu quo”11, sicché gli è possibile concludere affermando: “Ovvio dunque che esso sia stato sostenuto e imposto dall’Occidente, che nell’attuale fase storica gode di una schiacciante supremazia economica sul resto del mondo”12.

È stato anche detto che il concetto di “guerra economica” è ambiguo e multiforme, in quanto si tratta di una guerra che può perseguire obiettivi differenti: economici, strategici o politici13.

La guerra economica ha obiettivi economici, quando lo scopo principale dello Stato che la intraprende non consiste nel danneggiamento dell’avversario, ma nell’aumento del benessere dei propri cittadini o nella crescita della propria ricchezza.

La guerra economica si propone invece degli scopi strategici allorché, in un conflitto militare, essa mira a privare il nemico dei rifornimenti necessari alle Forze Armate ed alla popolazione mediante blocchi navali, aerei o terrestri. Ma si persegue uno scopo strategico anche quando, in assenza di un conflitto militare diretto, vogliono interdire a uno Stato avversario tecnologie e prodotti considerati “critici”.

Infine, la guerra economica si pone degli obiettivi politici quando l’arma economica viene usata per indurre uno Stato ad accettare la volontà di chi la usa, sicché essa si manifesta esattamente come è definita dalle  note formule clausewitziane: “continuazione della politica dello Stato con altri mezzi”, “atto di violenza finalizzato a costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà”, “atto ispirato da un disegno politico”.

Nel caso della Repubblica Islamica dell’Iran, lo scopo della guerra economica è sicuramente strategico, poiché l’obiettivo dichiarato delle sanzioni è quello di bloccare l’acquisizione di uranio e di tecnologie utili al programma nucleare.

Ma, per quanto concerne le sanzioni unilaterali imposte dagli Stati Uniti d’America, lo scopo è anche e soprattutto politico, anzi, geopolitico, considerata la necessità della talassocrazia statunitense di controllare lo spykmaniano Rimland, del quale l’Iran costituisce un segmento centrale.

Infatti, se Sir Halford Mackinder aveva formulato la dottrina secondo cui chi controlla lo Heartland governa il mondo, Nicholas J. Spykman ha enunciato la tesi complementare, con una formula che non sarà mai ripetuta abbastanza: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world“.

 

 

 

 

1. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Curae Thucydideae, 1885, p. 17.

2. Helmut Berve, Griechische Geschichte, II 1952, p. 11.

3. Carl Schmitt, Inter pacem et bellum nihil medium, “Zeitschrift der Akademie für Deutsches Recht”, VI, 1939, pp. 594-595.

4. Citato da Gallois, Le sang du pétrole – Irak, L’Age d’Homme, Lausanne 1966, p. 31.

5. Carl Schmitt, Souveraineté de l’Etat et liberté des mers, in Du Politique, Pardès, 1990, pp. 150-151; cfr. Idem, Terra e mare, Adelphi, Milano p. 90.

6. “Neue Zürcher Zeitung”, 14 Sept. 1996.

7. M. I. Glassner, Manuale di geografia politica II. Geografia delle relazioni tra gli Stati, Franco Angeli, Milano 1995, p. 36.

8. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, LEG, Pordenone 2001, p. 81.

9. Carlo Jean, Geopolitica, Laterza, Bari 1995, p. 140.

10. Carlo Jean, Geopolitica, cit., p. 141.

11. Ibidem.

12. Ibidem.

13. Claude Lachaux, La guerre économique: un concept ambigu, “Problèmes Economiques”, 14 oct. 1992, pp. 28-31.

 

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ELEZIONI PRESIDENZIALI IN MONGOLIA

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Il 26 giugno i cittadini della Repubblica di Mongolia saranno chiamati a decidere il nuovo Presidente, massima carica dell’immenso paese mongolo. La figura del Presidente della Repubblica in Mongolia è una figura ibrida: da un lato è fortemente rappresentativo del paese, visto che è eletto direttamente dalla cittadinanza, e ha il diritto di veto rispetto alle leggi votate dal Parlamento (il Grande Hural di Stato), dall’altra è legato a doppio filo alle decisioni del suo partito visto che può essere costretto a dimettersi in qualsiasi momento. Tra le prerogative più importanti del Presidente c’è un’ampia autonomia nella gestione della politica estera (nomina Ambasciatori e riceve gli Ambasciatori degli altri stati, rappresenta il paese negli incontri bilaterali e nelle Organizzazioni internazionali).

L’elezione cade in un momento storico estremamente positivo con l’enorme paese asiatico (grande 5 volte l’Italia, ma con una popolazione di appena 3 milioni e 180 mila abitanti, poco meno della somma delle sole città di Roma e Milano) protagonista di una crescita economica senza precedenti, grazie alla presenza sul suo territorio di ricchezze naturali (petrolio, oro, pietre rare, rame, carbone) senza pari che hanno attirato l’attenzione dei maggiori investitori mondiali, con Russia, Cina, Stati Uniti, Giappone e Sud Corea a scontrarsi per le licenze di sfruttamento del sottosuolo. Questa costante crescita del PIL con percentuali a due cifre ha però una duplice faccia: se il paese sta oggettivamente crescendo dal punto di vista economico e si può proporre su numerosi tavoli negoziali e diplomatici come paese sovrano, si registrano anche preoccupanti squilibri socio-economici con una soglia di povertà sempre più estesa e problemi socio-culturali come la diffusione dell’alcoolismo.

È quindi evidente che questa scadenza elettorale rappresenti uno snodo di primaria importanza per il futuro della massa continentale eurasiatica, visti gli enormi interessi in gioco.

Di seguito presenteremo brevemente il profilo dei tre candidati, che come vedremo sono tre rappresentanti di partiti che potremmo collocare nell’emisfero di sinistra secondo un paradigma politico eurocentrico.

Cahiagijn Ėlbėgdorž: presidente in carica, eletto nel 2009, con il Partito Democratico, formazione di centrosinistra, che si richiama alla tradizione europea liberal-socialista. È sostenuto anche dal Partito Civile-Partito Verde e dal Partito Nazional-democratico. Secondo gli analisti la sua rielezione è altamente probabile. Ex giornalista formatosi in Ucraina e Stati Uniti è stato tra i promotori della democratizzazione del Paese, fin dai primi anni ’90 (la cosiddetta Perestrojka mongola), è stato primo ministro in due periodi (aprile-dicembre 1998 e agosto 2004 – gennaio 2006). Di tendenza liberale, è considerato il candidato più filo-occidentale. In realtà nel suo primo mandato ha messo sul tavolo una politica estera pragmatica: ha saputo allacciare ottimi rapporti con l’Occidente e con i paesi dell’Unione Europea in particolare, ma non ha rinunciato a rapporti bilaterali con Iran, Corea del Nord e Cina, oltre a rafforzare la presenza nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai. Nella politica energetica ha sollevato più di qualche malumore nei dintorni di Washington, per quanto riguarda la concessione delle licenze di estrazione. È il candidato pragmatico che piace ai “nuovi ricchi” di Ulaanbaatar e alla borghesia.

Badmaanyambuugiin Bat-Erdene: candidato del Partito del Popolo Mongolo, partito erede del partito unico al potere durante il periodo socialista. Bat-Erdene è una leggenda sportiva del paese, essendo il più grande lottatore della storia contemporanea di Bökh (vincitore per 11 volte, primato assoluto, del titolo nazionale del Naadam), la lotta libera mongola, la cui popolarità è pari solo a quella dal lottatore di sumo Asashōryū (vero nome Dolgorsürengiin Dagvadorj), schierato nelle file del Partito Democratico. Deputato dal 2004 è una figura fortemente carismatica, proposta dal Partito come candidato di “unità nazionale”. Tradizionalmente il Partito è vicino a Russia e Cina e segue con interesse il modello centralista del socialismo di mercato cinese. Negli ultimi anni il partito è stato penalizzato dalla Rivoluzione Colorata del 2007 che lo ha estromesso dal potere e dalle politiche poco trasparenti dell’ex Presidente Ėnhbajar (vedi sotto), accusato di corruzione. La scelta di Bat-Erdene, quindi di uno sportivo pulito, invincibile, amatissimo dal popolo, rientra in un’ottica di maggior trasparenza e di  penetrazione delle masse popolari più colpite dall’ingiusta redistribuzione della ricchezza nazionale. Il cavallo di battaglia di Bat-Erdene è la lotta alla corruzione e alle attività illegali delle compagnie estrattive, che punta a riportare sotto il controllo dello Stato centrale, concedendo licenze solo in cambio di garanzie di serietà, legalità e convenienza per il popolo. A sostenere Bat-Erdene sono anche tre partiti minori: il Partito Verde Mongolo (da non confondere con quello che sostiene Ėlbėgdorž), dal Partito per la realizzazione della libertà e dal Partito Unito dei Patrioti.

Natsag Udval: esponente del Partito Rivoluzionario del Popolo Mongolo, nato da una scissione del Partito del Popolo, fondato dall’ex Presidente Nambaryn Ėnhbajar. È la prima donna candidata alla presidenza della Repubblica, attualmente occupa il dicastero della salute. Il partito che si richiama alla tradizione della sinistra comunista mongola, è caratterizzato da dure posizioni nazionaliste anti-cinesi (Ėnhbajar è inoltre seguace del Dalai Lama) e raccoglie molti consensi nelle masse popolari che vedono la Cina e la sua potenza come invasiva e imperialista. Il candidato del PRPM potrebbe erodere voti a Bat-Erdene.

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I MISSILI ANTIAEREI RUSSI S-300 GIÀ SCHIERATI E OPERATIVI IN SIRIA?

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Prof. Michel Chossudovsky, Global Research, 30 maggio 2013

Secondo fonti, il sistema missilistico superficie-aria russo S-300 deve essere consegnato e distribuito in Siria. Israele ha risposto con velate minacce. Secondo il ministro israeliano per gli Affari Militari Moshe Ya’alon: “È evidente che questa mossa è una minaccia per noi… In questa fase non posso dire che ci sia una escalation. Le spedizioni non sono state inviate ancora. E spero che non lo saranno… Dio non voglia che raggiungano la Siria, sapremo cosa fare”. Il presidente Assad ha confermato che gli S-300 sono stati consegnati.
 
 

E’ importante inserire queste notizie nel contesto storico. L’annuncio di Mosca è stato casualmente descritto come un’improvvisata “rappresaglia” per la revoca dell’embargo sulle armi dell’Unione europea. Questa interpretazione eruttata dai media mainstream ignora la natura della pianificazione militare. Il dispiegamento dei missili antiaerei russi S-300 già schierati e operativi in Siria era previsto dal Ministero della Difesa russo dal 2006. Mosca ha annunciato nel giugno 2006 che avrebbe schierato i sistemi di difesa aerea S-300PMU per proteggere la sua base navale di Tartus nella Siria meridionale. Si era capito che questo dispiegamento potrebbe anche proteggere lo spazio aereo siriano. La notizia evidenzia lo schieramento degli S-300PMU, pur confermando che “i sistemi [s-300] non saranno consegnati ai siriani. Saranno equipaggiati e gestiti da personale russo. (Kommerzant (http://www.globalresearch.ca/russia-to-defend-its-principal-middle-east-ally-moscow-takes-syria-under-its-protection/2847))”.

L’intento dichiarato di Mosca, tuttavia, è “implementare un sistema di difesa aerea attorno alla base. Fornire una copertura aerea alla base stessa e a una parte consistente del territorio siriano”. Secondo le nostre fonti, la Russia e Damasco hanno raggiunto un accordo sulla modernizzazione delle difese aeree siriane. I suoi sistemi di difesa aerea a medio raggio S-125 saranno aggiornati allo fase Pechora-2A. L’aggiornamento certamente migliorerà la difesa aerea siriana, che utilizza l’hardware in dotazione alla Siria dagli anni ’80. Mosca è pronta ad offrire alla Siria anche i più sofisticati sistemi a medio raggio Buk-M1. I sistemi Strelets a distanza ravvicinata, venduti a Damasco lo scorso anno, sono tutti dei sistemi di difesa aerea siriani che si dimostrano essere degli equipaggiamenti sofisticati, a questo punto (questi sistemi utilizzano il SAM Igla). (Kommerzant (http://www.globalresearch.ca/russia-to-defend-its-principal-middle-east-ally-moscow-takes-syria-under-its-protection/2847) 28 luglio 2006)

 

 

Sviluppi recenti

Vi è ragione di credere che i principali componenti del sistema di difesa aerea S-300 siano stati consegnati e schierati in Siria nel corso degli ultimi 18 mesi. Vi sono indicazioni che i componenti del sistema S-300 siano già operativi. Secondo Arun Shavetz (http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/150059) (24 novembre 2011), consiglieri tecnici russi sono arrivati in Siria nel novembre 2011, per “aiutare i siriani a gestire una batteria di missili S-300”. La relazione indica inoltre che un sistema radar avanzato è stato installato in tutte le installazioni chiave siriane, militari e industriali. “Il sistema radar copre anche le aree a nord e a sud della Siria, dove sarà in grado di rilevare il movimento di truppe o di aeromobili in direzione del confine siriano. I radar coprono gran parte d’Israele, così come la base militare di Incirlik in Turchia, utilizzata dalla NATO.” (Ibid)

Quasi un anno fa, nel giugno 2012, il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak fece pressione su Mosca per annullare la vendita degli S-300 alla Siria. Il presidente russo Vladimir Putin, durante la sua visita in Israele, ha confermato la sospensione della vendita di S-300 (vedasi Israele convince la Russia ad annullare l’accordo siriano sui missili S-300: ufficiale, Xinhua (http://news.xinhuanet.com/english/world/2012-06/28/c_131682101.htm) 28 giugno 2012). Mentre non vi è alcuna conferma ufficiale che gli S-300 siano già operativi, la Siria possiede il sistema di difesa aerea Pechora-2M, che fonti militari statunitensi ammettono costituire “una minaccia”, vale a dire un ostacolo nel caso “che una no fly zone” sia attuata sulla Siria. Il Pechora-2M è un sofisticato sistema di puntamento multiplo che può essere utilizzato anche contro missili da crociera. Se questo sistema di difesa aerea non fosse attivo, l’attuazione di una “no fly zone” di USA-NATO, senza dubbio sarebbe stata già prevista in precedenza.

Il sistema missilistico di difesa aerea SA-3 Pechora-2M è un sistema missilistico antiaereo superficie-aria a corto raggio progettato per la distruzione di aerei, missili da crociera, elicotteri d'assalto e altri bersagli a terra e aerei, a basse e medie altitudini.
Il sistema missilistico di difesa aerea SA-3 Pechora-2M è un sistema missilistico antiaereo superficie-aria a corto raggio progettato per la distruzione di aerei, missili da crociera, elicotteri d’assalto e altri bersagli a terra e aerei, a basse e medie altitudini.


Inoltre, in risposta all’installazione dei missili Patriot di USA-alleati in Turchia, la Russia ha consegnato alla Siria gli avanzati missili Iskander, ora pienamente operativi. L’Iskander è descritto come un sistema missilistico superficie-superficie “che nessun sistema di difesa missilistica può tracciare o distruggere”. L’Iskander può volare alla velocità ipersonica di oltre 1,3 chilometri al secondo (Mach 6-7) e ha una gittata di oltre 280 miglia con una precisione millimetrica nel distruggere bersagli con la sua testata da 1.500 chili, un incubo per qualsiasi sistema di difesa missilistica.

 

Michel Chossudovsky, Global Research, 30 maggio 2013

 

 

 

Allegato

Portiamo all’attenzione dei lettori di Global Research una relazione che descrive la natura del sistema missilistico superficie-aria russo S-300V. Nota: questo sistema è diverso da quello installato in Siria.

MissileThreat – http://missilethreat.com/defense-systems/s-300v-sa-12a-gladiator-sa-12b-giant/

L’S-300V, noto anche con la designazione NATO SA-12, è un avanzato sistema missilistico superficie-aria russo. Due sono le versioni attualmente esistenti: il Gladiator (NATO: SA-12A), in grado di distruggere i missili balistici, e il Gigant (NATO: SA-12B), per l’uso contro aerei e missili da crociera. Dall’inizio degli anni ’90, i russi hanno venduto migliaia di S-300V in Asia, Europa e Medio Oriente.

S-300V (SA-12A Gladiator, SA-12B Gigant)

Utente: Russia

Testata: HE (Alto Esplosivo)

Gittata: A: 6 – 75 km; B: 13 – 100 km

Basato: mobile terrestre

Stato: operativo

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L’S-300V è stato sviluppato dalla Antej Corporation, una delle maggiori società della difesa dell’ex Unione Sovietica. E’ stato progettato principalmente come sistema antimissile balistico, anche se ha anche la possibilità di individuare e distruggere aerei e missili da crociera, come il Patriot degli Stati Uniti. L’S-300V è stato schierato nel 1986 ed ebbe un tale successo che, alla fine degli anni ’80, l’esercito sovietico ordinava una media di tre-quattro battaglioni ogni anno. (1) Negli anni ’90, l’Antej migliorò la capacità dell’S-300V, dando al sistema la possibilità di ingaggiare bersagli che volano fino a 100 chilometri di distanza. (2) Fin dall’inizio, l’S-300V è stato progettato come un sistema missilistico duplice, incorporando due missili che differiscono per dimensione, portata e finalità. Il più piccolo dei due, il Gladiator, è soprattutto un missile antiaereo. Con una lunghezza di 7 metri, 0,72 metri di larghezza e un peso di 2.500 chilogrammi, vola a 1,7 chilometri al secondo e può distruggere aerei a 6-75 chilometri di distanza che si trovano a quote tra i 25 e i 25000 metri. Ogni Gladiator ha una testata da 150 chilogrammi di alto esplosivo. (3)

Al contrario, il Gigant è progettato per distruggere missili balistici tattici e missili da crociera, anche se può anche abbattere aerei. Con una lunghezza di 8,5 metri, 0,9 metri di larghezza e un peso di 4.600 chilogrammi, si avvicina al bersaglio a 2,4 chilometri al secondo. Può ingaggiare missili da crociera e velivoli a distanze tra i 13 e i 100 chilometri a quote tra 1 e 30 chilometri (20-40 km contro i missili balistici). Come il Gladiator, ogni Gigant è dotato di una testata da 150 chilogrammi di alto esplosivo. (4)

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Entrambi i missili S-300V sono guidati dal radar a scansione phased-array russo 9S19M2, in grado di eseguire la scansione per una superficie di 90 gradi ogni secondo. Secondo i funzionari dell’Antej, il radar rileva obiettivi tra i 20 e i 175 km di distanza con una precisione di 200-300 metri. Il 9S19M2 è in grado di inseguire fino a 16 missili balistici, aerei o missili da crociera e contemporaneamente gestire fino a sei dispositivi di jamming. Entrambe le varianti dei missili S-300V più il sistema radar, vengono trasportati su lanciatori mobili.

Nel corso degli anni, i russi hanno testato l’S-300V contro una vasta gamma di obiettivi. I funzionari dell’Antej sostengono che, in una serie di test nel 1997, gli intercettori Gladiator e Gigant distrussero più di 60 missili balistici e da crociera. Tra i missili bersaglio vi erano Scud-B modificati per simulare il missile balistico a corto raggio al-Hussein usato dall’Iraq nella Guerra del Golfo. In una serie di test, l’S-300V con un colpo singolo ha 0,4-0,7 probabilità di distruggere missili balistici tattici. Una media di 1,5-1,75 intercettori è sufficiente per abbattere un singolo bersaglio. (6) Nel 1998, l’Antej presentò una versione dell’S-300V, soprannominato “Antej-2500”. Conosciuto come S-300VM, mentre era in fase di sviluppo, il modello aggiornato adotta due tipi di missili con velocità massime di 1,7 e 2,6 chilometri al secondo. Il sistema modificato è in grado di ingaggiare contemporaneamente 24 bersagli a una distanza di 40-200 km e a quote dai 25 metri ai 30 chilometri. E’ in grado di rilevare, inseguire e distruggere missili balistici tattici fino a 2.500 km di distanza, da qui il suo nome, Antej-2500. (7)

Negli ultimi dieci anni, la Russia ha dispiegato migliaia di S-300V e Antej-2500 presso i suoi complessi militari e industriali chiave. Inoltre, ha esportato questi sistemi in Asia, Europa e Medio Oriente per finanziare la propria economia in difficoltà, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Secondo Aviation Week & Space Technology, “nella competizione mondiale per la vendita dei sistemi di difesa missilistica, l’S-300V della russa Antej Corp. è il principale  concorrente”. (8) Il vantaggio per gli acquirenti dei missili terra-aria russi è che, a differenza degli Stati Uniti, non vi sono allegati obblighi politici e, molto spesso, le armi sono molto più economiche rispetto a quelle statunitensi. (9) Nel 1996, per esempio, la Russia commercializzò il sistema S-300V negli Emirati Arabi Uniti, in diretta concorrenza con gli Stati Uniti, che vendevano missili Patriot agli Emirati Arabi Uniti da diversi anni. La Russia offrì i missili S-300V agli Emirati Arabi Uniti a prezzi pesantemente scontati, in sostanza li vendettero a metà del prezzo normale, in cambio della risoluzione del debito a lungo termine con l’UAE. L’accordo Russia-Emirati Arabi Uniti, tuttavia, fece arrabbiare gli Stati Uniti che inasprirono le loro relazioni con la Russia. (10)

L’S-300V ha anche svolto un ruolo nei più grandi e più redditizi accordi sugli armamenti tra la Russia e altre potenze nucleari. Nel febbraio 2002, il viceprimo ministro russo Ilja Klebanov guidò una delegazione a New Delhi, in India, per negoziare un accordo sulle armi pesanti, il cui punto focale fu la vendita di missili S-300V. (11) Nel corso degli anni, essendo uno dei più importanti e  maggiori acquirenti di armamenti della Russia, l’India ha dotato quasi i due terzi delle sue forze armate di equipaggiamenti russi. (12) Nel febbraio 2004, la Russia ha formalmente offerto di vendere il sistema di difesa all’India. (13) Le recenti tensioni tra India e Pakistan, entrambi in possesso di armi nucleari, garantisce che i sistemi missilistici antibalistici S-300V, ed altri, saranno predominanti nei futuri accordi sugli armamenti. (14) Allo stesso modo, è stato indicato nel dicembre 2003 che Mosca intendeva fornire all’Iran, una potenziale potenza nucleare, 1,6 miliardi dollari di dollari in armamenti, per la maggior parte missili terra-aria S-300V o Antej-2500. L’Iran ha fatto pressioni sulla Russia per vendergli lo scudo difensivo dalla fine degli anni ’90. Si prevede che utilizzerà i missili per proteggere la sua importante regione industriale di Esfahan, la sua base navale di Bandar Abbas (sul Golfo Persico), i terminali petroliferi di Abadan e Khorramshahr e la centrale nucleare di Bushehr. (15) Gli Stati Uniti, manco a dirlo, espressero forti obiezioni all’accordo Russia-Iran e, ad un certo punto, minacciarono persino sanzioni. Nonostante queste obiezioni, sembra che la Russia non abbia intenzione di fermare la commercializzazione dei propri missili S-300V, così come di altre armi, in Asia, Europa e Medio Oriente nei prossimi anni.

 

 

 

 

 

Note

1. Nikolay Novichkov e Michael A. Dornheim, “Russian SA-12, SA-10 On World ATBM Market,” Aviation Week & Space Technology, 3 marzo 1997.

2. Robert Wall, “Russia’s Premier SAMs Seen Proliferating Soon”, Aviation Week & Space Technology, 27 settembre 1999.

3. Novichkov, et al.; Missile.index.

4. Ibid.

5. Novichkov, et al.

6. Lbid.

7. “Russia’s Antey Offers Upgraded SA-12 For Export,” Aerospace Daily, 28 maggio 1998.

8. Novichkov, et al.

9. Carlo Kopp, “Next-Generation SAMs For Asia A Wake-Up Call For Australia”, Australian Aviation, 1 ottobre 2003.

10. “Russian/U.S. Tussle Over UAE Air Defence System Intensifies”, Flight International, 24 marzo 1999; GlobalSecurity.org.

11. “Russia: Moscow Begins Arms Trade Negotiations With New Delhi,” Periscope Daily Defense News Capsules, 6 febbraio 2002.

12. Sergei Blagov, “Trade: Russia Leads World In Arms Exports,” Inter Press Service, 1 liglio 2002.

13. “Russia Offers S-300V SAM Anti-Missile System To India,” The Press Trust of India Limited, 5 febbraio 2004.

14. Sergei Blagov, “Trade: Russia Leads World In Arms Exports”, Inter Press Service, 1 luglio  2002; Rajat Pandit, “India Wants Info On Patriot Missile System”, The Times of India, 14 agosto 2003.

15. Aleksandr Reutov, “Iran Yields To IAEA To Gain Time”, Kommersant, 19 dicembre 2003.

 

 

Copyright © 2013 Global Research

http://www.globalresearch.ca/russias-s-300-surface-to-air-missile-already-deployed-and-functional-in-syria-the-ordnance-bothering-the-allies/5336882?print=1

 

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://sitoaurora.altervista.org/home.htm

http://aurorasito.wordpress.com

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ISRAELE COMBATTE UNA GUERRA REGIONALE IN SIRIA

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Mahdi Darius Nazemroaya, Global Research, 30 maggio 2013

L’evoluzione della situazione interna in Siria mette in movimento una nuova serie di piani che coinvolgono l’aggressione israeliana contro la Siria. Non solo gli Stati Uniti e i loro alleati cercano di rinforzare militarmente le milizie anti-governative in ritirata, ma ora il loro obiettivo è creare una nuova fase del conflitto in cui gli Stati inizino ad agire contro la Siria al posto delle indebolite forze anti-governative. In altre parole, la pressione esterna viene applicata per sostituire la declinante pressione interna. L’ingresso delle truppe israeliane e del servizio di sicurezza Mossad in Siria con ripetuti attacchi aerei, in violazione dello spazio aereo libanese, all’impianto siriano di ricerca militare nella città di Jamraya chiarisce il ruolo d’Israele nel destabilizzare la Siria. Israele ha anche ammesso che “un’intensa attività d’intelligence” è stata attuata in Siria dalle forze israeliane e che pensa anche di occupare altro territorio siriano come nuova “zona cuscinetto”. Fox News, apertamente sbilanciata in favore di Israele, ha trasmesso un video di soldati israeliani che attraversano illegalmente la frontiera siriana. Notizie dalla Siria indicano che un veicolo militare israeliano è stato sequestrato durante i combattimenti contro le forze anti-governative nella città di Quseir, nel territorio siriano.

 

 
Epicentro di una guerra regionale? 

Gli eventi che coinvolgono Israele sono parte della tendenza ad ampliare e internazionalizzare il conflitto siriano, creando ricadute violente. Secondo un quotidiano britannico: “Se qualcuno aveva dubbi che il raccapricciante [conflitto] in Siria stia già divenendo un più ampio conflitto in Medio Oriente, gli [attacchi israeliani] negli ultimi giorni dovrebbero dirgli di abbandonarli”. Turchia e Israele, come il Regno hashemita di Giordania, sono innegabilmente coinvolti nei combattimenti quali aggressori della Siria. La Turchia ha condotto le operazioni di ricognizione della NATO in Siria, ospita missili Patriot della NATO puntati contro la Siria (con la possibilità di schierarli contro l’Iran e la Russia) e favorisce apertamente le forze anti-governative. Israele è stato il più discreto dei due, ma ha inviato il Mossad in Siria e costruito strutture nelle alture del Golan per aiutare l’insurrezione. Entrambi i Paesi hanno continuamente minacciato la Siria e spinto per l’intervento della NATO e la no-fly zone. Per tutto il tempo, gli Stati Uniti hanno stimolato Ankara e Tel Aviv a proseguire le tensioni di guerra e hanno anche proposto la vendita alla Turchia di gas degli Stati Uniti per allontanare economicamente i turchi dagli alleati siriani Russia e l’Iran e dall’influenza che hanno sulla essa.
 
In realtà, la Siria è solo un fronte di una grande lotta egemonica che si estende dall’Afghanistan presidiato dalla NATO all’Iraq passando per il Libano e la Striscia di Gaza. La Repubblica libanese si presenta quale prossimo obiettivo della destabilizzazione nella grande lotta di cui la Siria è un fronte. Vi sono timori che ci possa essere un vuoto tra i parlamentari e il governo a Beirut, a causa della ricaduta della crisi in Siria che potrebbe essere capitalizzata per accendere un altro conflitto interno libanese. Le tensioni tra il filo-siriani guidati da Hezbollah dell’Alleanza 8 marzo e gli anti-siriani guidati da Hariri dell’Alleanza del 14 Marzo, si sono accumulate in seguito al conflitto in Siria. Entrambe le parti in Libano sono coinvolte nel conflitto siriano. Il Libano viene trascinato nel conflitto perché la Siria è utilizzata come arena per colpire e paralizzare Hezbollah e l’Alleanza 8 marzo, con l’obiettivo di trasformare il Libano in una colonia controllata da Washington e dai suoi alleati, che sarà governata dal corrotto Hariri alla guida dell’Alleanza del 14 Marzo. Hezbollah ha iniziato a combattere sul lato siriano del confine siro-libanese, mentre l’Alleanza del 14 Marzo ha iniziato l’invio di armi e finanziamenti agli insorti fin dall’inizio della sollevazione, nel 2011. Dopo mesi di menzogne, il ruolo di Hariri in Libano è stato scoperto nel novembre del 2012, quando furono fornite le prove che dimostrano che il membro del partito futuro di Hariri, Okab Sakr, era dietro l’invio di armi ai ribelli siriani in coordinamento con ufficiali dei servizi segreti turchi e qatarioti. Per quanto riguarda Hezbollah, i suoi membri cominciarono a lottare sul lato siriano del confine di propria iniziativa. Poi i ribelli in Siria hanno iniziato ad attaccare i villaggi sciiti su entrambi i lati del confine siro-libanese. Le forze anti-governative in Siria hanno iniziato a fare tutto il possibile per provocare Hezbollah ad azioni di rappresaglia, compreso il rapimento di pellegrini libanesi e, nel 2012, il deliberato attacco ai santuari sciiti in Siria. Dopo che la moschea in cui Hujr Adi ibn al-Kindi e suo figlio furono sepolti, in Siria, è stata profanata dagli insorti, Hezbollah e sciiti iracheni sono entrati ulteriormente nel conflitto siriano per proteggere la moschea di Sayyidah Zaynab. In Siria non solo sono stati attaccati i sacri edifici venerati dagli sciiti, ma leader sunniti sono stati uccisi e chiese cristiane sono state profanate. Leader spirituali cristiani sono stati aggrediti. I funzionari iraniani hanno accusato gli Stati Uniti, Israele e i sauditi per la profanazione di questi luoghi santi siriani e gli attacchi delle minoranze.
 
Mentre la maggior parte della popolazione araba sunnita di Siria sostiene il governo siriano contro i ribelli e i loro sostenitori stranieri, vi è una spinta reale per tracciare il conflitto in Siria lungo linee settarie tra arabi contro non-arabi, e sunniti contro alawiti e sciiti. Varie minoranze vengono sistematicamente aggredite. Drusi, cristiani maroniti cattolici, melchiti cristiani greco-cattolici, cristiani greco-ortodossi, armeni cristiani ortodossi, siriaci cristiani ortodossi, alawiti e duodecimani (jaffari) e sciiti vengono tutti aggrediti in quanto minoranze religiose. Armeni, assiri, curdi, e turcomanni vengono aggrediti in quanto minoranze etniche. L’Iraq conosce fin troppo bene l’incubo che la Siria sta affrontando. Molti ribelli in Siria provengono dall’Iraq e sono legati al movimento del Risveglio al-Anbar (o Figli del Movimento Iraq), collegato ad al-Qaida ed hanno cominciato a collaborare e ricevere finanziamenti dagli Stati Uniti durante la guerra contro l’occupazione anglo- statunitense. Se questi vincono in Siria, alla fine ritorneranno in Iraq per accendere la rivolta contro il governo federale di Baghdad. D’altra parte, il conflitto in Siria è il catalizzatore del rafforzamento russo in Medio Oriente e della costruzione di nuovi legami tra Hezbollah e Mosca. Nell’ottobre del 2011, Hezbollah ha inviato una delegazione in Russia per discutere dei combattimenti in Siria. E’ chiaro ormai che Mosca si coordina con l'”Asse della Resistenza” o Blocco della Resistenza guidata dagli iraniani che comprende Siria, Hezbollah, Michel Aoun e i palestinesi. Dopo colloqui sulla Siria a Teheran, durante la visita del viceministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov a Beirut il 26 aprile, in piena vacanza del governo formale libanese, è stata adottata questa cooperazione strategica. Il viaggio di Bogdanov in Libano è importante, perché è stato un chiaro indicatore del fatto che la Russia ha stretto legami strategici diretti con Hezbollah e che riconosce il Blocco della Resistenza come prolungamento della propria sicurezza.
 
Come Hezbollah, l’Iran è anche un obiettivo del conflitto in Siria. Questo è uno dei motivi per cui  Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, ha compiuto una visita a Teheran il 29 aprile (dopo l’incontro con Mikhail Bogdanov) per discutere di un fronte comune con gli iraniani. Lo stesso gruppo di Paesi che attaccano Siria e Hezbollah, hanno di mira l’Iran. E’ stato riportato che “Israele si prepara ad accettare un accordo di cooperazione di difesa con la Turchia e tre Stati arabi, volta ad istituire un sistema di allarme rapido per rilevare i missili balistici iraniani”. Uzi Mahnaimi ha spiegato che questa “proposta, a cui i diplomatici coinvolti si riferiscono come ‘4 +1’, potrebbe alla fine portare i tecnici di Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giordania a cooperare con gli israeliani nei centri di comando-e-controllo congiunti”. Proprio come Hezbollah ha confermato, è coinvolto nei combattimenti in Siria e ha promesso che i “veri amici” della Siria, cioè  Iran, Russia, Cina e l’Alleanza 8 marzo libanese, non lasceranno che la Siria cada nelle mani degli Stati Uniti e dei loro alleati, Teheran ha detto più volte a Washington e ai suoi alleati che la Siria è la ‘Linea Rossa’ degli iraniani. I comandanti iraniani hanno detto che la Siria è un’estensione dei perimetri di sicurezza dell’Iran. Inoltre, gli iraniani hanno ammesso apertamente che aiutano i loro alleati siriani e sono disposti a fornire addestramento ed assistenza a Damasco, come pure ad intervenire militarmente per aiutare la Siria se gli Stati Uniti e i loro alleati l’attaccano.
 
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La Siria e il progetto per il “Nuovo Medio Oriente” 
 
Ciò che accade in Siria avrà importanti ripercussioni regionali e globali. I tentativi di creare una guerra settaria fanno parte della logica del divide et impera. Ciò rientra nella strategia del “caos costruttivo” di Stati Uniti e Israele, per frammentare e ridisegnare l’intero Medio Oriente secondo il Piano Yinon e le sue versioni rimaneggiate. Il ministro degli Esteri iraniano Salehi ha avvertito che se il conflitto in Siria non finirà il risultato sarà la partizione della Siria e l’ampliamento del conflitto in tutto il Medio Oriente. Gli stessi avvertimenti riecheggiano da Russia, Siria e altri luoghi. Mentre i cinesi mantengono il silenzio, si rendono conto che l’assedio della Siria è parte del piano del Pentagono contro la Cina. Il giorno prima che Benjamin Netanyahu arrivasse a Pechino, la CNN aveva riferito che “il portavoce del ministero degli esteri cinese aveva suggerito che la linea dura di Netanyahu fosse un messaggio sgradito ai suoi ospiti cinesi”, per via degli attacchi israeliani a Jamraya.
 
La situazione in Siria è simile alla situazione che si è creata in Iraq durante l’occupazione anglo-statunitense. Si tratta della continuazione del medesimo processo di destabilizzazione che vuole distruggere il tessuto pluralistico delle antiche società del Medio Oriente. E’ il piano che ha scacciato i cristiani dall’Iraq e distrutto i quartieri misti sciiti e sunniti, arabi e curdi. Contemporaneamente l’Iraq soffre per la realizzazione virtuale sia del Piano Yinon che del Piano Biden, che vogliono che l’Iraq debba essere diviso in tre settori. Il governo regionale del Kurdistan, che opera apertamente contro la sovranità dell’Iraq ed è allineato a Turchia e Israele, è ai ferri corti con il governo federale di Baghdad e possiede de facto l’indipendenza. I corrotti leader del governo regionale del Kurdistan hanno impedito all’esercito iracheno di controllare alcuni valichi del  confine iracheno-siriano nel nord, usati dai ribelli in Siria, ed hanno permesso agli israeliani di usare il Kurdistan iracheno come base delle operazioni contro la Siria e l’Iran. Come hanno fatto in Iraq durante il caos, gli Stati Uniti e i loro alleati usano soldi e settarismo. L’insurrezione in Siria è finanziata dagli Stati Uniti e dai membri della loro coalizione anti-siriana, come i sauditi e il Qatar.  Inoltre, i gruppi di opposizione al governo siriano sono stati finanziariamente cooptati dal ramo siriano della Fratellanza musulmana, grazie al finanziamento estero ricevuto per rovesciare il governo siriano. Un esponente dell’opposizione ha ammesso che i Fratelli musulmani “ci hanno chiesto di quanto avevamo bisogno, glielo abbiamo detto e loro ci hanno mandato immediatamente tale importo”. Inoltre, i fondi esteri non sono stati utilizzati solo per pagare ciò di cui avevano bisogno, ma i Fratelli musulmani dicevano ad attivisti e oppositori del governo che “dovrebbero prendere l’uno per cento dei finanziamenti per i loro stipendi personali”. Non ci dovrebbe essere alcun dubbio che i ribelli in Siria ed Israele siano dalla stessa parte. Le forze anti-governative in Siria hanno persino ringraziato Israele in diverse occasioni ed erano giubilanti per gli attacchi israeliani contro Jamraya. In conseguenza dell’imbarazzante attenzione che hanno ricevuto per essersi allineati con Israele, i ribelli in Siria hanno cambiato marcia e cercato di salvare la faccia  sostenendo ridicolmente che Israele è segretamente alleato con Bashar al-Assad, l’Iran e Hezbollah.
 
Ha qualcosa di significativo quando i funzionari israeliani dicono che non vedono il cambio di gestione di al-Qaida in Siria come una minaccia per Tel Aviv. Amos Gilad, ufficiale dell’esercito israeliano, ha dichiarato apertamente che al-Qaida non rappresenta alcuna preoccupazione per Israele e “anche se [i suoi] elementi ottengono un punto d’appoggio in Siria nel caos della guerra civile del paese, l’asse Siria-Iran-Hezbollah che affrontano [è] di gran lunga più pericoloso” per Israele. In realtà, i governi di Israele, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Regno Unito, Francia e Stati Uniti sono in combutta con i presunti terroristi che alcuni di loro dicono di contrastare o di combattere. Hanno utilizzato dei gruppi definiti dei rami di al-Qaida come truppe terrestri in Siria e in Libia. In caso di successo, alla fine si cercherà di utilizzare gli stessi militanti per accendere insurrezioni in luoghi come il Caucaso del Nord, Distretto Federale della Russia. Mentre Libano, Iran, Iraq e palestinesi vengono attaccati attraverso la destabilizzazione della Siria, i Paesi che aggrediscono la Siria preparano anche le fiamme che li bruceranno se il “Nuovo Medio Oriente” degli USA venisse inaugurato con un battesimo di fuoco e sangue. L’instabilità siriana e la possibile spartizione della Siria potrebbero innescare una guerra civile in Turchia e addirittura portare alla spartizione della Turchia stessa. Anche la Giordania sarà consumata dalle fiamme che bruciano la Siria. Se la Siria crolla, gli iraniani hanno espresso un avvertimento inequivocabile a re Abdullah II di Giordania sul suo futuro. Il messaggio di Teheran ad Abdullah II, un despota che arresta coloro che solo parlano negativamente di lui, ma che viene invitato alla Casa Bianca per parlare di democrazia in Siria, è semplice: “È necessario essere consapevoli del fatto che se gli Stati Uniti decidono di entrare in guerra con la Siria, il vostro regno vi sarà trascinato.” Né l’Arabia Saudita o il Qatar saranno risparmiati dalle fiamme che la Casa dei Saud e dei loro rivali al-Thani alimentano per conto dell’amministrazione Obama e d’Israele nei loro tentativi in Siria che potrebbero, infine, innescare una guerra totale in Medio Oriente e oltre.
 
 
 
 

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su RT Op-Edge.
Copyright © 2013 Global Research

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IL LUPO GRIGIO AL BIVIO

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Di seguito la copertina del nuovo numero 2/2013 di “Eurasia – Rivista di studi geopolitici” dedicato alla Turchia; la distribuzione è prevista per metà giugno.

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