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SYRIA. QUELLO CHE I MEDIA NON DICONO

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INVITO ALLA CONFERENZA STAMPA

SYRIA. QUELLO CHE I MEDIA NON DICONO

Gli autori del libro inchiesta incontrano a Roma

i corrispondenti della stampa estera in Italia

 

Si comunica che martedì 18 giugno, alle ore 11,  presso l’Associazione della Stampa Estera in Italia, in via dell’Umiltà 83/C a Roma, gli autori del libro inchiesta “Syria. Quello che i media non dicono” illustreranno ai giornalisti stranieri e italiani i contenuti del reportage sulla Siria e sul ruolo dell’informazione nella crisi iniziata nel maggio del 2011.

Alla conferenza stampa parteciperanno i reporter Raimondo Schiavone, Talal Khrais e Alessandro Aramu.

Schiavone e Khrais sono tra i pochissimi giornalisti ad aver incontrato Bashar al Assad, SYRIA analizza in mxodo preciso gli antefatti e gli sviluppi di una vicenda che i mass media hanno raccontato spesso in modo parziale..

Nella prefazione, il giornalista libanese Talal Khrais spiega come la guerra in Siria rappresenti un espediente per demolire uno Stato dove cristiani musulmani convivono da centinaia di anni. Khrais, di ritorno dalla Siria, racconterà la sua straordinaria esperienza di corrispondente dalle zone più calde del conflitto, in particolare nella città Qusayr, ex roccaforte dei ribelli riconquistata dall’esercito di Assad nei giorni scorsi. Un racconto in presa diretta su ciò che è realmente accaduto in quella che è stata considerata dagli analisti politici la “Stalingrado siriana”.

Il volume è diviso in tre parti. Le prime due (scritte da Raimondo Schiavone e Antonio Picasso) sono dei veri e propri reportage che da Beirut portano a Damasco e ai villaggi cristiani poco distanti dalla Capitale. Schiavone è protagonista (insieme a Khrais) di un incontro eccezionale: una lunga chiacchierata con Assad, il presidente della Siria, che ai suoi occhi appare quasi timido. Un ritratto inedito di un uomo che molti considerano “il male assoluto”. Assad pronuncia parole importanti e spiega come la guerra in Siria abbia poco a che fare con la democrazia e sia un attacco orchestrato da Stati stranieri.

Straordinaria è anche l’intervista esclusiva ai detenuti stranieri (proveniente da Yemen, Afghanistan e Algeria) in un carcere siriano nel corso della quale viene spiegata la”strategia del terrore” organizzata per far cadere lo Stato Siriano. Per la prima volta i detenuti vengono

fotografati e ripresi con una telecamera. Il volume Syria propone un racconto eccezionale i cui contenuti, alla luce di quanto è emerso negli ultimi mesi, sono la prova della presenza predominante delle frange più radicali nelle file dei cosiddetti ribelli, a partire dalle cellule del terrore di al Qaeda.

I reportage di Schiavone e Picasso raccontano un paese dove la convivenza religiosa e la sopravvivenza degli stessi cristiani sono messe in pericolo dagli estremisti islamici. La deputata cristiana Maria Saadeh, il vescovo Siro –Ortodosso di Homs, il parroco di Jaramana e il tutore del santuario del Monastero di Santa Tecla testimoniano le paure di una comunità che il mondo per troppo tempo non ha voluto né vedere né ascoltare.

L’ultima parte, di Alessandro Aramu, è un’inchiesta sul ruolo dei media nel conflitto  siriano.  Le televisioni satellitari arabe, come era accaduto in Libia con la caduta di Gheddafi, non hanno garantito un’informazione imparziale. Il volume presenta le prove delle notizie manipolate e addirittura inventate.  Un lungo elenco di casi che hanno creato nell’opinione pubblica mondiale una rappresentazione errata di quanto stesse accadendo in Siria. Notizie costruite sul campo di battaglia senza alcuna verifica della fonte sono servite a orientare la politica degli Stati e le strategie militari. Il caso più eclatante è la strage di Hula: attribuita in un primo momento all’esercito di Assad, si scoprì, grazie a un reporter tedesco, che fu commessa dai ribelli. La verità fu pressoché taciuta, la falsa notizia ebbe risonanza mondiale. Dopo la strage , la Siria viene isolata nel campo delle telecomunicazioni e viene bloccata la trasmissione satellitare dei canali pubblici per ridurre al minimo la capacità del Governo di informare il suo popolo. Seguendo le orme del reportage in Siria, Aramu illustra come i media occidentali hanno raccontato la condizione dei cristiani nel paese, citando anche quei reportage che hanno offerto per la prima volta in Italia una “diversa prospettiva” sul conflitto.

I giornalisti Raimondo Schiavone, Talal Khrais, Alessandro Aramu e Antonio Picasso fanno parte di Assadakah, Centro Italo- Arabo e del Mediterraneo, un’organizzazione che in questi anni ha svolto numerose missioni estere, in particolare in Libano, Siria e Darfur. Sono autori del libro – reportage  “Lebanon”. Insieme ad altri reporter, italiani e stranieri, sono entrati nel cuore della Resistenza Libanese, raccontando “da dentro” il Partito di Dio, noto come Hezbollah, il partito sciita radicato nel tessuto sociale e nella realtà quotidiana del paese. Lebanon racconta il presente e il passato di uno Stato tornato pericolosamente sull’orlo del baratro di una guerra a causa della crisi siriana.

 

 

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LA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN: NOMOCRAZIA E FUNZIONE GEOPOLITICA

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Il 15 giugno 2013 la casa editrice Irfan ed “Eurasia. Rivista di studi e geopolitici”, in collaborazione con l’Associazione Imam Mahdi e con l’Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran, hanno organizzato a Roma la presentazione del libro di Ali Reza Jalali “La Repubblica Islamica dell’Iran tra ordinamento interno e politica internazionale” (Edizioni Irfan, 2013). Oltre all’autore del libro, sono intervenuti come relatori: Giuseppe Aiello (editore del libro), Ali Pourmarjan (direttore dell’Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran) e Claudio Mutti (direttore della rivista “Eurasia”), del quale riportiamo di seguito l’intervento. 

 

 

Ali Reza Jalali si propone di rendere comprensibile il concetto di “Repubblica Islamica”, cercando di spiegarlo sulla base delle categorie politologiche “occidentali”.

Bisogna vedere – egli scrive – se un termine come ‘Repubblica’ non sia in contraddizione con un sistema islamico che è legittimato da Dio, essendo il modello repubblicano legittimato normalmente dal popolo. La ‘Repubblica’ di cui si parla in Occidente è sicuramente in antitesi con uno Stato islamico, ma il punto fondamentale è che per i costituenti iraniani ‘Repubblica’ vuol dire semplicemente la possibilità che i cittadini possano scegliere i propri governanti, senza però che vi sia una ‘legittimazione democratica’ dell’ordine costituito” (p. 20).

L’Autore ha fatto benissimo a usare il tempo presente (“si parla”) e a delimitare l’area culturale (“in Occidente”).

L’antitesi infatti scompare, qualora si faccia riferimento alla concezione di “repubblica” quale si evince dalle dottrine politiche di una cultura che non è quella della modernità e dell’Occidente, ma è quella della tradizione europea: la cultura dell’antichità greco-romana.

Proviamo infatti a ricondurre il concetto di “repubblica” a quello espresso dal latino res publica, riprendendo la definizione che ne dà Cicerone nel I libro del trattato intitolato per l’appunto De re publica. Qui la res publica viene definita come l’organizzazione unitaria di un aggregato umano reso solidale non solo dal comune vantaggio, ma, prima ancora, da una comune coscienza giuridica: “coetus multitudinis juris consensu et utilitatis communione sociatus“.

La res publica è definita da Cicerone come res populi, “ente del popolo”. Ma, per quanto riguarda il fondamento ed il fine da cui essa deriva la sua legittimità, Cicerone li indica chiaramente allorché nel Somnium Scipionis, che suggella il trattato De re publica, afferma che l’azione dell’uomo politico si accosta alla suprema volontà di Dio, cosicché a coloro che hanno operato per il bene dello Stato sono riservate in cielo una vita immortale e una felicità eterna.

D’altronde l’ordinamento politico che Cicerone chiama res publica non è sostanzialmente diverso da quello che Platone e Aristotele chiamano politèia.

Nel III libro della Politica, esaminando i diversi regimi politici, Aristotele distingue tre forme corrette di Stato: la basilèia (cioè la monarchia che agisce per il bene comune), l’aristokratìa (il governo dei migliori ovvero il governo inteso a realizzare ciò che è meglio per i cittadini) e, appunto, la politèia (quello in cui il popolo governa la polis in vista del bene comune). A questi tre tipi “buoni” corrispondono altrettante deviazioni (parekbàseis): la tirannide, l’oligarchia e la democrazia (tyrannìs, oligarchìa, demokratìa).

E’ più o meno lo stesso schema politologico che troviamo in Platone, il quale chiama politeia (res publica) il suo Stato ideale, uno Stato, una “Repubblica”, che svolge una funzione eminentemente “religiosa”, in quanto collega la comunità umana con la realtà divina.

La legittimazione divina e lo scopo trascendente che caratterizzano la Repubblica Islamica consentono all’Autore può stabilire un’altra differenza fondamentale rispetto agli Stati dell’Occidente.

Lo Stato iraniano – egli dice – non è una Repubblica laica in senso occidentale, in quanto la legge di Dio è comunque sovraordinata alla legge dell’uomo, ma non è nemmeno una teocrazia classica nella quale i cittadini non hanno voce in capitolo, come ancora oggi avviene in alcuni paesi mediorientali” (pp. 20-21).

Per quanto riguarda la laicità, non sarà fuor di luogo ricordare che in origine il termine “laico” (dal greco laikós, “volgare”, “profano”) si contrappone propriamente a “chierico” (col significato di “dotto”) e designa perciò l’individuo ignorante, cosicché risulta più che fondata questa osservazione di René Guénon:

“Vale la pena di notare che certa gente, che nella nostra epoca si vanta di essere ‘laica’, insieme con quella che si compiace di dirsi ‘agnostica’ (e spesso si tratta delle stesse persone), non fa altro che gloriarsi della propria ignoranza; e questa ignoranza deve essere in effetti molto grande e veramente irrimediabile, se non si accorge che tale è il significato delle etichette di cui si fregia”.

Tuttavia, anche se intesa nel significato corrente di separazione della politica dalla religione e di estraneità dello Stato rispetto alle questioni religiose, la nozione di laicità risulta del tutto incompatibile con la cultura islamica, in quanto secondo quest’ultima la legge dello Stato deve fondarsi sulla giurisprudenza sciaraitica, la quale a sua volta procede dai principi insiti nel Corano e nella Sunna del Profeta.

(A questo proposito sarebbe il caso di osservare che Stati musulmani comunemente considerati “laici” smentiscono in maniera incontestabile tale qualifica. Cito come esempio la Siria, la quale nel suo stesso dettato costituzionale – art. 3, comma primo e comma secondo – dichiara che fonte principale della legislazione è il diritto islamico e che il presidente deve essere di religione musulmana).

Rifiutata la definizione di Stato teocratico – definizione che risulta imbarazzante, in quanto correntemente applicata a regimi politici corrotti in cui la religione è instrumentum regni – l’Autore propone un’altra definizione.

“Attraverso una forzatura – dice – si può affermare che ‘Repubblica Islamica’ vuol dire ‘uno Stato teocentrico nel quale vigono le elezioni’ ” (p. 20).

A mio parere la definizione di “Stato teocentrico” non è affatto una forzatura, anzi: “Stato teocentrico” mi sembra una formula eccellente per definire la Repubblica Islamica.

Volendo, però, si potrebbe trovare una soluzione corrispondente a quel concetto che la lingua persiana esprime mediante il costrutto velayat-e faqih, “governo del giurisperito”. Si potrebbe cioè coniare un neologismo come nomocrazia, che significherebbe il “potere della legge”; o come teonomia, che indicherebbe il “governo della legge divina” (dove l’elemento di composizione nomo, dal greco nómos, significa “legge”, “principio normativo”).

Ancora una volta, il termine di paragone più adeguato è quello che ci proviene dalla politologia della tradizione europea, in particolare da Platone: quel Platone che Al-Farabi onorò dell’epiteto di Aflatun al-Ilahi (“divo Platone”) e riconobbe come maestro, al punto che l’Imam della sua “repubblica islamica” (al-madinah al-fadilah) è stato definito come un “Platone rivestito del mantello di profeta di Muhammad” (H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Milano 1973, p. 169).

Infatti Platone, raccontando il mito dell’età di Crono (Leggi 713b sgg.), ci esorta a proclamare come norma fondamentale e sovrana dello Stato quella Legge dettata dallo spirito, quel nómos, che si manifesta in noi come dianomè tou nou (714a) ossia come regola e guida dell’intelligenza.

Contraddicendo quel sostenitore assoluto dei diritti umani che fu il sofista Protagora, Platone afferma che non l’uomo, ma Dio è misura di tutte le cose: (ho dè theòs hemin pànton chremàton métron àn eìe) (716c). Perciò, dato il limite oggettivo della natura umana (anthropeìa physis), è necessario che l’uomo sia sottomesso a Dio e che il governo della Repubblica abbia radici nella saggezza divina. L’uomo che deve reggere lo Stato, conclude Platone, dev’essere il miglior conoscitore delle leggi e deve essere superiore ai suoi concittadini per altezza di costume, di pensiero e di azione.

Sono gli stessi concetti che risuonano nella dottrina politica islamica, così come è stata formulata dall’Imam Khomeyni in Hukumat Eslam:

“Il governo islamico è il governo della Legge e Dio solo è il sovrano ed il legislatore. (…) Nell’Islam governare significa obbedire alla Legge e renderla supremo giudice. I poteri conferiti al Profeta, che Dio lo benedica e lo salvi, ed ai governanti legittimi a lui succeduti sono poteri derivati da Dio. (…) Considerato che il governo islamico è un governo della Legge, è necessità assoluta che il governante dei Musulmani sia ben informato della Legge, come dice il hadith (…) E’ un fatto riconosciuto che ‘le persone esperte della Legge hanno la superiorità anche sui re’ ” (Imam Khomeini, Il governo islamico, pp. 70-71 e 77-78).

Il libro di Ali Reza Jalali si conclude proprio con la citazione di una frase dell’Imam Khomeini che dice: “Sostenete il governo del giurisperito islamico, affinché il Paese non subisca danni” (p. 96).

Siccome la maggior parte del libro è dedicata ad illustrare la collocazione della Repubblica Islamica nel contesto internazionale, cercherò di applicare all’Iran i criteri della geopolitica.

Secondo le elaborazioni della geopolitica di scuola britannica, l’Iran è un segmento centrale di quella lunga fascia che in un libro di Nicholas J. Spykman uscito del 1944, The geography of peace, viene chiamata Rimland. In inglese, rim significa “bordo, orlo, margine”, per cui il Rimland è il bordo esterno del continente eurasiatico: dalle coste atlantiche e mediterranee dell’Europa fino al Giappone e alla Corea, passando per il Vicino ed il Medio Oriente, il Sudest asiatico, le Filippine e Taiwan.

Mentre Mackinder aveva stabilito la dottrina secondo cui chi controlla il Heartland (cioè la Russia e l’Europa orientale) domina il mondo, Spykman formulò la tesi complementare, secondo cui la potenza che controlla il Rimland non solo impedisce che il Heartland diventi il centro del potere mondiale, ma conquista essa stessa il potere mondiale. Testualmente: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world“.

Durante la guerra fredda, questa teoria ha ispirato la strategia del “contenimento” (containment) dell’Unione Sovietica. Gli USA hanno fatto di tutto per impedire che il Rimland eurasiatico cadesse sotto il controllo dell’URSS e della Cina, controllando l’Europa costiera per mezzo della NATO e le coste asiatiche per mezzo di altre alleanze militari.

Col crollo dell’URSS, il controllo statunitense del Rimland eurasiatico si è rafforzato. Tuttavia la catena non è affatto completa, perché vi sono alcuni segmenti del Rimland più difficili da controllare che non altri: sono i paesi che, in quanto renitenti al controllo statunitense, vengono denominati “paesi canaglia”, “Asse del Male” e così via. E la Repubblica Islamica dell’Iran è uno di questi. La Siria è un altro.

Secondo la prospettiva geopolitica eurasiatica, l’Iran è un segmento centrale di quella fascia islamica che si estende, in senso latitudinale, dal Maghreb arabo fino all’Indonesia. Il suo ruolo geopolitico, dunque, coincide in parte col ruolo di quella fascia islamica che, assieme all’Europa, alla Russia, alla Cina e all’India, costituisce uno dei grandi spazi in cui si articola l’Eurasia. Qualora fosse politicamente organizzata attraverso rapporti organici di federazioni e di alleanze, questa fascia islamica potrebbe costituire una barriera insormontabile nei confronti della penetrazione statunitense e rappresenterebbe il presidio meridionale dell’Eurasia.

La realtà attuale, invece, ci presenta un mondo islamico che, a parte le fisiologiche divisioni etniche, linguistiche e culturali, si trova frammentato in numerose entità statali e diviso tra diversi orientamenti politici e religiosi. A ciò si aggiunge il fatto che la storica ripartizione tra sunniti e sciiti viene oggi artificiosamente enfatizzata dagli strateghi del divide et impera, al punto che sono state create le condizioni per quella che oserei chiamare una guerra civile islamica.

Tra i vari orientamenti e modelli che l’odierno mondo islamico ci presenta, il più incompatibile con gl’interessi eurasiatici è evidentemente quello rappresentato dai regimi arabi storicamente alleati dell’Occidente atlantico (l’Arabia Saudita e Qatar in primis), nonché da quei movimenti e gruppi settari che godono del sostegno politico ed economico di tali regimi.

C’è poi un’altra variante, che è quella rappresentata dalla Turchia. La variante turca, che si è proposta come un modello per i paesi musulmani del Mediterraneo, è caratterizzata dal tentativo di conciliare l’Islam e la democrazia, la sciarìa e il capitalismo, il richiamo alla grandezza imperiale ottomana e l’appartenenza all’area occidentale, la solidarietà col popolo palestinese e il mantenimento delle relazioni con lo Stato ebraico.

Il cosiddetto “neoottomanesimo” di Ankara, che presume di poter recuperare all’influenza politica turca i territori storicamente appartenuti all’Impero ottomano, dal punto di vista eurasiatico potrebbe anche essere positivo, in quanto si prefigge l’obiettivo dell’integrazione dell’area islamica mediterranea. Ma il contributo dato dalla Turchia alla distruzione della Libia e al terrorismo settario in Siria dimostrano che il “neoottomanesimo” svolge un un ruolo subimperialista funzionale alla strategia degli Stati Uniti d’America e della loro propaggine sionista.

Per quanto riguarda la variante del cosiddetto “socialismo islamico” (variante molto impropriamente definita “laica”), essa è praticamente scomparsa dalla scena con la distruzione dell’Iraq baathista e della Giamahiria libica.

Il modello rappresentato dalla Repubblica Islamica dell’Iran può esercitare una sua legittima influenza soprattutto nel Vicino Oriente, dove paesi come l’Iraq, il Libano, la Siria e alcune zone della penisola arabica sono abitati da forti comunità sciite. In tal modo l’Iran dispone delle possibilità che gli consentono di svolgere una funzione di guida in certe zone del mondo arabo e di esercitare la propria influenza dal Golfo Persico fino al Mediterraneo.

Al di fuori del mondo arabo, l’Iran può realisticamente ambire ad avere un certo peso nel settore centroasiatico, specialmente nel Tagikistan, che è abitato da una popolazione persanofona (quella tagika); o in Azerbaigian, abitato da una popolazione in gran parte sciita che ha in Iran eminenti rappresentanti, a partire dalla stessa Guida della Rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, che è di etnia azera; o in Afghanistan, dove il secondo gruppo etnico dopo la maggioranza pashtun è quello tagiko e dove un quinto della popolazione è sciita.

(Un fatto importante è che la lingua ufficiale dell’Afghanistan non è solo il pashtu; accanto al pashtu è lingua ufficiale anche il cosiddetto “persiano dell’Afghanistan”, il dari, abbreviazione di darbārī, che significa “corte reale”: un riferimento allo stile classico persiano e al linguaggio di corte dei Sasanidi. D’altronde, prima che verso la metà del XVIII secolo nascesse l’entità politica chiamata – con nome d’origine persiana – Afghanistan, questo paese ebbe per secoli una storia comune con l’Iran. Le formazioni imperiali dell’Iran, dall’impero di Dario fino a quello sasanide e a quello safavide nella sua massima espansione, comprendevano anche i territori dell’odierno Afghanistan).

Quanto al Pakistan e all’India, non bisogna dimenticare che per sette secoli il subcontinente indiano conobbe un dominio culturale persiano. A partire dal XIII secolo, quando venne fondato il sultanato di Delhi, prese l’avvio una cultura di lingua persiana che giunse al culmine durante l’epoca dei Moghul (saliti al potere nel 1526), dai quali i colonizzatori britannici ereditarono l’uso del persiano come lingua ufficiale dell’amministrazione, usata fino al 1835, quando venne sostituita con l’inglese. Forte di questa comune esperienza culturale, l’Iran ha mantenuto buoni rapporti con l’India; in particolare, esso ha ravvivato le relazioni con la comunità dei Parsi, gli zoroastriani dell’India, che sono consapevoli e fieri della propria origine persiana.

Infine, in virtù di questa posizione geografica l’Iran può aiutare la Russia, potenza centrale dell’Eurasia, a risolvere certe difficoltà. Se l’Iran svolge la funzione di polo meridionale dell’Eurasia, la Russia ottiene quell’obiettivo strategico che essa ha perseguito per secoli: l’accesso ai mari caldi. L’Iran, che ha millecinquecento chilometri di litorale sull’Oceano Indiano, può rappresentare una soluzione per questo problema geopolitico fondamentale. Consentendo alla Russia l’accesso alle rive dell’Oceano Indiano, l’Iran spezza l’”anello dell’anaconda”, il progetto atlantista che si propone di soffocare il Continente.

Ma ci sono altri motivi che rendono vantaggiosa per il continente eurasiatico un’azione egemone dell’Iran nell’Asia centrale ex sovietica. In Asia centrale rivaleggiano tre diverse tendenze geopolitiche: il panturchismo facente capo ad Ankara (con tutte le contraddizioni che sappiamo), l'”Islam americano” (come l’Imam Khomeini definiva il settarismo di matrice wahhabita) e infine l’Islam ortodosso, rappresentato, nella sua variante sciita, dalla Repubblica Islamica dell’Iran.

Il progetto eurasiatico può contare solo sull’orientamento filoiraniano, l’unico in grado di sottrarre questa regione al controllo diretto o indiretto dell’Occidente, che vi si esercita sia attraverso la penetrazione economica saudita e catariota sia attraverso il terrorismo sostenuto da diverse centrali. L’asse Mosca-Teheran può risolvere tutte le contraddizioni esistenti tra la Russia e i musulmani dell’Asia centrale e caucasica, contraddizioni alimentate ed utilizzate dall’Occidente per destabilizzare l’area e penetrarvi.

La funzione geopolitica dell’Iran consiste dunque nel costruire tra l’Asia centrale e l’Oriente mediterraneo un blocco geopolitico in grado di respingere l’aggressione atlantica, riattualizzando nei limiti del possibile quell’idea di impero che più volte e in diverse forme, in un passato glorioso, ha fatto sì che i diversi popoli di quest’area potessero convivere entro i medesimi confini politici e sotto un’unica legge.

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INTERVISTA A NIKOLAJ BORDHUZA, SEGRETARIO GENERALE CSTO

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Venerdì 14 giugno 2013 il Segretario Generale dell’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) Nikolaj Bordhuza, in visita a Milano, ha incontrato alcuni redattori della rivista “Eurasia”.
 
Di seguito il video dell’intervista concessa dall’Ambasciatore Bordhuza in esclusiva al nostro redattore Stefano Vernole.
 
La redazione ringrazia il Prof. Igor Panarin per la collaborazione.

 

 

 
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Vedi anche: Il Cesem incontra l’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO)

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IL VICOLO CIECO DI ERDOGAN

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Il pugno duro delle forze dell’ordine dietro direttiva del primo ministro Recep Tayyip Erdogan non si è rivelato sufficiente a sedare i disordini scoppiati inizialmente a Istanbul ed Ankara e poi diffusisi in diverse zone della Turchia. Nonostante l’intero comparto informativo di massa tenda insistentemente ad individuare la radice delle proteste nella sostituzione di un parco con un gigantesco centro commerciale, le ragioni che stanno alla base dei subbugli che hanno infiammato buona parte della Turchia sono molteplici e ben più profonde. Una volta divenuto ministro degli Esteri, il professor Ahmet Davutoglu ha avuto la possibilità di applicare la sua ambiziosissima dottrina della “profondità strategica” turca, orientata a consolidare l’influenza di Ankara in gran parte del pianeta, attraverso le leve etnica e confessionale. Tale progetto si sarebbe infatti dovuto dipanare attraverso le due direttrici “panturca” e “panislamica”, in modo da estendere l’area di influenza del Paese dal Marocco all’Indonesia. In un primo momento, la “profondità strategica” turca appariva fondata sulla necessità di avere “zero problemi coi vicini”, allo scopo di creare le condizione adatte ad assicurare l’intensificazione dei rapporti politici, economici e culturali della Turchia con tutte le nazioni limitrofe. La “profondità strategica” che Davutoglu conferisce al proprio Paese sarebbe tuttavia limitata di fatto dai vincoli di fedeltà all’Alleanza Atlantica che durante la Guerra Fredda hanno attribuito alla Turchia un ruolo determinate nel contenimento dell’espansione sovietica verso l’Europa e il Vicino Oriente. La caduta dell’Unione Sovietica ha disintegrato questa condizione fondamentale, permettendo alla Turchia di emergere come reale, autentico “attore geostrategico”. «La posizione geopolitica – afferma Davutoglu – non dovrebbe più servire solo a proteggere i confini nazionali ma a trasformare in globale l’influenza locale e ad accrescere gradualmente l’apertura internazionale. La condizione prioritaria per evolvere dalla mera protezione dei confini nazionali all’esercizio di un’influenza continentale e mondiale, consiste nell’investire la nostra collocazione geopolitica nella dinamica internazionale delle relazioni economiche, politiche e di sicurezza» (1).

I piani di Erdogan e Davutoglu sono però stati seriamente messi in discussione dall’esercito turco, storico garante dell’atlantismo fin dal 1952, anno dell’entrata del paese nella NATO. Nel 2003 il parlamento di Ankara, facendosi interprete della schiacciante volontà popolazione, negò l’usufrutto del territorio turco come base di dispiegamento per le sortite dell’aviazione statunitense verso l’Iraq, suscitando l’ira di Paul Wolfowitz che redarguì l’esercito turco per non aver effettuato un ennesimo colpo di Stato che rovesciasse tale decisione. L’episodio si inserisce in un elenco sterminato di golpe politici attuati dalle forze armate a danno delle istituzioni politiche di Ankara. Erdogan, conscio di tutto ciò, ha iniziato ad erodere lo strapotere dell’esercito indicendo, il 12 settembre 2010, un referendum che sancì una radicale modifica delle due più importanti istituzioni giudiziarie del Paese (anch’esse coinvolte in numerose operazioni eversive a danno delle istituzioni politiche) e il ridimensionamento drastico delle funzioni e dei poteri dell’esercito. Il 58% dei votanti concesse il proprio appoggio al governo di Ankara, che applicò immediatamente le riforme e dispose numerose epurazioni dei vertici dell’esercito (venne scoperto e vanificato anche un tentato colpo di Stato ai suoi danni).

L’Islam politico di cui personaggi istituzionali di grande rilievo come il Presidente della Repubblica Abdullah Gul sono esponenti si rifà alle teorie di Fethullah Gulen, che dall’enclave turca di Erzurum emigrò negli Stati Uniti in seguito al colpo di Stato dell’esercito del 1997. Dal suo autoesilio in Pennsylvania, Gulen si è comunque ritagliato un ruolo cruciale, che gli consente di esercitare una forte influenza sull’esecutivo di Ankara. Proprio negli Stati Uniti, Gulen ha fondato l’organizzazione Hizmet (“servizio”), che è riuscita ad inaugurare oltre 130 scuole private in 25 differenti Stati americani in seguito ad un accordo con le autorità locali, che si sono impegnate a contribuire al finanziamento degli istituti con denaro pubblico. Questa organizzazione, attiva anche in Germania e in un centinaio di altri Paesi, propugna una versione riveduta e corretta di Islam, volta a rendere tale religione compatibile con i principi liberali che dominano in Occidente. Fortemente sospettata di godere del supporto attivo di una parte consistente degli apparati di sicurezza e intelligence statunitensi, Hizmet è stata bandita da tutti i Paesi aderenti alla Comunità degli Stati Indipendenti nel 2006. Anche se Erdogan non può essere considerato un “seguace” di Gulen, l’influenza che Hizmet ha esercitato sul governo turco è palese, specialmente alla luce del processo di islamizzazione della società. La coloritura musulmana che il primo ministro ha impresso alle misure ordinarie (restrizioni sugli alcoolici, ad esempio) e alle decisioni internazionali è un dato di fatto che pochi oseranno mettere in discussione. Ankara mira in tutta evidenza a imporsi quale punto di riferimento della sterminata galassia sunnita, come dimostra la “appropriazione” della causa palestinese e il successivo strappo (apparente) con Israele, inaugurato in occasione del World Economic Forum di Davos del gennaio 2009 (quando Erdogan chiamò pubblicamente sul banco degli imputati niente meno che il Presidente israeliano Shimon Peres per rispondere pubblicamente dell’eccidio di Gaza avvenuto tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009), allargatosi con l’oscura vicenda della Mavi Marmara (presa da’assalto dalle forze israeliane in acque internazionali mentre si accingeva a raggiungere i territori palestinesi per portare cibo, medicinali, materiali prefabbricati ecc.) e divenuto definitivo con l’espulsione dell’ambasciatore israeliano.

Come ritorsione, Israele riattivò i propri collegamenti con i terroristi del PKK, i quali sferrarono uno dei più sanguinosi attacchi nel corso della notte a cavallo tra il 18 e il 19 ottobre 2011, quando i suoi miliziani presero di mira un contingente turco schierato lungo la frontiera irachena, presso la regione di Hakkari, provocando la morte di oltre 25 soldati. Per inseguire e stanare gli aggressori in ritirata, Ankara inviò immediatamente un nucleo di truppe speciali, che penetrarono in territorio iracheno grazie alla copertura degli elicotteri da guerra, mentre l’aviazione martellava incessantemente le roccaforti del PKK dislocate alle pendici del monte Kandil, nella regione settentrionale del Kurdistan iracheno dominata dalla città di Kirkuk

In compenso, la rottura con Israele suscitò il plauso di gran parte delle popolazioni arabe e, più in generale, della maggior parte del mondo musulmano. La deriva islamica che potrebbe scaturire dalla strategia del governo di Ankara è probabilmente il più grande timore delle forze armate e della magistratura, che da decenni si ergono a garanti della laicità dello Stato. È probabile che la contrarietà alla linea politica seguita da Erdogan sia alla base del fallito colpo di Stato del febbraio 2010, che portò all’incarcerazione del capo di stato maggiore dell’esercito Ergin Saygun, del Capo di Stato Maggiore dell’aeronautica Ibrahim Firtina e del Capo di Stato Maggiore della marina Ozden Ornek. Tutti gli alti ufficiali in questioni erano connessi ad una potente ed oscura setta kemalista ed atlantista Ergenekon, il pensatoio in cui venivano escogitati i piani “Martello” e “Gabbia”. Dalle indagini condotte su questa organizzazione emersero prove schiaccianti in relazione al coinvolgimento di giornalisti, Generali in pensione, Ammiragli in servizio e ufficiali di vario grado intenti a pianificare attentati (a moschee e monumenti in tutta la Turchia) e persino l’abbattimento di aerei civili. E probabile che Ergenekon costituisca il fondamento della lunga catena di colpi di Stato che per decenni hanno indirizzato la politica turca. Per sradicare questa minaccia, Erdogan ha adottato una prassi estremamente autoritaria, che ha comportato un’ondata di arresti indiscriminati, effettuati molto spesso in assenza di prove tangibili o sulla base di semplici “sospetti”.

Ciononostante, la Turchia aveva cominciato ad intensificare notevolmente i rapporti con il vicinato. Da quando il partito AKP era salito al potere, il primo ministro Recep Tayyip Erdogan aveva intrapreso un processo distensivo nei riguardi della Siria che è andato ben oltre la semplice riappacificazione, da cui sono scaturiti succulenti accordi economici, l’abolizione delle imposte doganali e l’applicazione di incentivi sugli investimenti bilaterali. Nel corso degli ultimi anni le relazioni commerciali tra Turchia e Siria erano cresciute esponenzialmente, raggiungendo la considerevole cifra di 4 miliardi di dollari nel 2009, anno in cui era stata stabilita la libera circolazione di cittadini tra i due paesi.

Con l’avvento delle cosiddette “primavere arabe”, Erdogan ha ritenuto che dinnanzi a lui si presentasse un’occasione irripetibile. Dopo un periodo di moderazione e indecisione (mostrata in particolar modo in riferimento alla Libia), il primo ministro turco scelse di cavalcare la “tigre islamica”, non indugiando a gettare all’aria i notevoli risultati capitalizzati nel corso degli anni precedenti per fornire il proprio aperto sostegno ai “ribelli” siriani, alleandosi di fatto con il Qatar, l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico.

Nell’estate del 2011 la Turchia ospitò la “Conferenza per la liberazione nazionale della Siria”, da cui nacque (sull’onda dell’esperienza libica) il Consiglio Nazionale di Transizione siriano. Da Istanbul (sede della Conferenza) il Presidente Abdullah Gul annunciò che «La Turchia non si fida più del regime del presidente siriano Bashar al-Assad, che prosegue nella sua sanguinosa repressione delle manifestazioni di protesta» (2), aggiungendo che la situazione in Siria «Ha ormai raggiunto un tale livello che tutto è infimo e troppo tardivo. Non abbiamo più fiducia» (3).

L’aggressività nei confronti del regime di Damasco è tuttavia dovuta anche al fatto che nel 2011 Siria, Iran e Iraq avevano sottoscritto un accordo finalizzato alla costruzione del cosiddetto “gasdotto islamico”, che entro il 2016, dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars al Mediterraneo, attraversando il territorio siriano. La Siria potrebbe quindi divenire un hub di corridoi energetici alternativo alla Turchia, le cui condutture sono controllate da compagnie statunitensi ed europee.

Contestualmente a tale inversione di rotta,  Erdogan cominciò ad inasprire il tono della retorica antisiriana e a trasformare il confine meridionale che separa la Turchia dalla Siria in un gigantesco campo di addestramento per una miriade di gruppi islamici provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri Paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen, gli ordini venivano impartiti in arabo, per poi essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e altre lingue. Dotati di passaporti falsi, i combattenti sono affluiti nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, ove la CIA ha aperto centri di formazione militare. Gli armamenti e i finanziamenti vengono forniti soprattutto da Arabia Saudita e Qatar che, come in Libia, inviano anche forze speciali. Il comando delle operazioni è situato a bordo di navi NATO nel porto di Alessandretta, mentre sul monte Cassius (posto a ridosso della Siria) la NATO ha costruito una nuova base di spionaggio elettronico, che si aggiunge a quella radar di Kisecik e a quella aerea di Incirlik. A Istanbul è stato aperto un centro di propaganda attraverso il quale i “dissidenti” siriani diffondono le notizie e i video sulle reti satellitari.

La tensione tra Turchia e Siria ha poi raggiunto picchi particolarmente alti, specialmente in seguito alla oscura vicenda del caccia turco abbattuto dalla contraerea dopo aver violato lo spazio aereo siriano, per il quale Ankara ha evocato l’articolo 5 dello statuto della NATO, che impegna ad assistere con la forza armata il Paese membro attaccato. A quel punto, ben 129 deputati (un quarto) hanno espresso la propria contrarietà alla guerra, mentre migliaia di dimostranti sono scesi in piazza inneggiando allo slogan “No all’intervento imperialista in Siria”. Da allora i nodi sono cominciati a venire progressivamente al pettine; all’infiammarsi dell’irrisolta “questione curda”, al rancore sotterraneo maturato tra le forze armate e parte consistente della magistratura e ai malumori delle componenti più “laiche” e conservatrici della società (come i “Lupi Grigi”), le quali rifiutano – così come le forze armate e parte della magistratura – di accettare ogni sia pur cauto e moderato provvedimento di apparente islamizzazione, è andato a sommarsi il forte rallentamento dell’economia (con una crescita che è passata dal 9 al 2,2%), causato in buona parte dalla rottura delle relazioni con la Siria e dall’isolamento regionale imputabile alla politica aggressiva condotta da Erdogan. Tale crescita, per di più, è caratterizzata da poderose campagne di privatizzazione e da una febbre edilizia che ha coperto di cemento anche le aree boschive del Bosforo e delle regioni più interne. Seguendo il mito della globalizzazione, Erdogan ha fatto approvare una legge che elimina la protezione giuridica ai parchi nazionali turchi, in seguito alla quale ha progressivamente trasformato interi quartieri delle principali città costiere in giganteschi villaggi turistici nuovi di zecca, obbligando i vecchi residenti a trasferirsi verso le periferie. Interi rioni risalenti agli inizi del ’900 sono stati “ristrutturati” o demoliti per far posto a nuove strutture atte a “favorire il turismo”. Ordinando l’abbattimento di 600 alberi nell’ambito di un progetto volto a sostituire un parco con un enorme centro commerciale (sul quale aleggia un forte sospetto di tangenti, alla luce del fatto che il sindaco di Istanbul, esponente dell’AKP, è proprietario di una catena di negozi ed ha già ottenuto i diritti per installare in tale centro i propri punti vendita, senza contare che il genero di Erdogan si è aggiudicato il contratto per lo sviluppo immobiliare dell’intera area), ha manifestato con estrema chiarezza l’intenzione di trasformare una città millenaria come Istanbul in una delle tante megalopoli ultra-pacchiane stile Doha. Istanbul (come diverse altre città turche) è costellata di rovine greche, romane, bizantine, ottomane, ortodosse e islamiche che rischiano di essere sostituite da giganteschi centri commerciali ed edifici moderni commissionati alle più celebri stelle occidentali dell’architettura. Il che non può che suscitare un forte malcontento in seno alla popolazione turca, così come la politica imperialista – e non imperiale – impropriamente definita “neo-ottomana”. La “Sublime Porta” era riuscita a inglobare e far convivere decine di etnie e popoli diversi, mentre l’attuale Turchia, con la sua alleanza di fatto con Qatar e Arabia Saudita e il suo appoggio ai guerriglieri islamisti più feroci, sta facendo l’esatto contrario: sta promuovendo il settarismo e allargando la “fitna”, la faglia che divide le molteplici “placche” religiose di cui è formato l’Islam. E a favorire questo processo è il primo ministro di un Paese costituito a sua volta da una notevole gamma di etnie e religioni diverse (50% circa sunniti, 20% alawiti, 20% curdi – principalmente sunniti –, il 10% appartiene ad altre minoranze). Non è quindi un caso che, secondo i sondaggi, ben 70 turchi su 100 disapprovino la politica aggressiva di Erdogan nei confronti della Siria. Thierry Meyssan ritiene a questo proposito che Erdogan abbia adottato il programma della Fratellanza Musulmana, il movimento finanziato e sostenuto dal Qatar che dall’Egitto alla Siria alla Giordania propugna una visione di Islam compatibile con gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. «Mostrando la sua vera natura – scrive Meyssan – (di Fratello Musulmano sotto vesti ottomane) il governo Erdogan s’è tagliato i ponti con la sua popolazione. Solo una parte minoritaria di sunniti può riconoscersi nel programma ipocrita e retrogrado dei Fratelli Musulmani» (4).

Per integrare completamente la Turchia nella strategia statunitense, vanno inoltre ricordati i memo, pubblicati nei primi mesi del 2012, attraverso cui i colossi di Wall Street JP Morgan Chase e Goldman Sachs consigliavano agli investitori di vendere azioni turche, a causa della perdita di valore della lira turca, del deficit commerciale e, più in generale, della imminente frenata dell’economia dovuta alle ripercussioni generate dalla recessione dell’Eurozona sulla bilancia dei pagamenti turca. Come osserva Aldo Braccio: «La Turchia è un obiettivo importante della speculazione finanziaria: una nazione in crescita, dotata di grande liquidità, che in passato (in particolare negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso) ha dimostrato una spiccata propensione all’indebitamento nei confronti del Fondo Monetario Internazionale ma che ora sembra aver cambiato strada. Una nazione che – per la sua importante e delicata posizione geopolitica – va controllata e messa sotto tutela, “globalizzandola” e sradicandone le pretese di sovranità; la tutela di tipo politico – ben visibile nei casi delle emergenze libica e siriana, in cui la Turchia si è conformata ai dettami occidentali, a dispetto di un’opinione pubblica alquanto perplessa – va completata con la tutela di tipo economico/finanziario, e in questo senso gli appelli provenienti dal mondo della speculazione internazionale si moltiplicano» (5).

Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan si trova quindi ad affrontare un’ondata di insoddisfazione e malcontento destinata molto probabilmente a travolgerlo, specialmente dopo l’ulteriore crescendo di violenza da parte delle forze dell’ordine, le quali, oltre a provocare la morte di diversi cittadini turchi, pare siano giunte a spruzzare sui manifestanti sostanze chimiche particolarmente pericolose. La deriva autoritaria, sommata ai fattori già indicati, ha accentuato lo scollamento tra la popolazione turca e il partito AKP – come sottolineato da Meyssan – e alimentato i malumori che serpeggiano in seno alle forze armate. Nonostante i toni pacati impiegati dalle diplomazie occidentali per commentare l’accaduto, è possibile che il primo ministro turco abbia perso buona parte degli appoggi internazionali che fino ad ora avevano mantenuto saldo il sui posto. La stessa Europa guarda con sempre maggior sospetto la Turchia, il cui ingresso nell’Unione Europea appare sempre più un miraggio (nonostante la stessa Turchia sia molto più “fredda” di qualche anno fa a questo riguardo) Erdogan si trova pertanto sull’orlo del baratro.

 

 

 

NOTE

1. Cit. in Aldo Braccio, Turchia, ponte d’Eurasia, Fuoco Edizioni, Roma 2010.

2. “ANSA”, 29 agosto 2011.

3. Ibidem.

4.  Thierry Meyssan, Soulèvement contre le Frère Erdogan, http://www.voltairenet.org/article178820.html.

5. Aldo Braccio, Anche la Turchia nel mirino delle banche d’affari, http://www.eurasia-rivista.org/anche-la-turchia-nel-mirino-delle-banche-daffari/14548/.

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ASIA CENTRALE: I NUOVI ATTORI

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Una delle principali critiche che possono essere mosse alla tentazione, peraltro diffusa, di comparare acriticamente la situazione geopolitica odierna dell’Asia Centrale con il Grande Gioco combattuto principalmente durante il XIX secolo, può essere rinvenuta negli attori che vi prendono parte. Sebbene infatti far riferimento allo scontro diplomatico e di intelligence che contrapponeva l’Impero Russo e l’Impero Britannico possa costituire un efficace espediente per evidenziare l’esistenza di alcune continuità – la rilevanza dei fattori geopolitici, delle risorse naturali, il diffuso utilizzo del soft power, nonché l’esistenza di società multietniche ancora soggette al rischio di destabilizzazione – sono molte le differenze che rendono il Nuovo Grande Gioco più complesso.

Se si esclude lo spostamento del Grande Gioco verso est, avvenuto nei primi anni del XX secolo, che ha visto la partecipazione diretta dell’Impero Cinese nel tentativo di assicurarsi il controllo delle regioni confinanti allo Xinjiang, i principali attori del Grande Gioco ottocentesco furono l’Impero Russo e l’Impero Britannico. A partire dagli anni Novanta del XX secolo, invece, gli interessi coinvolti si sono moltiplicati e nuovi attori interni ed esterni all’area intervengono oggi a determinare gli equilibri della regione.

La scomparsa dell’Unione Sovietica ha reso indipendenti le cinque Repubbliche centroasiatiche le quali hanno sin da subito adottato politiche finalizzate a garantirsi maggiore stabilità, prosperità e prestigio in ambito internazionale. Accanto a Kazakhistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan, ancora interessata alla regione, era ed è la Federazione Russa, la quale, sorella maggiore delle nuove Repubbliche, aveva perso il controllo diretto dell’area, mantenendo però ancora una forte influenza su di esse per merito dell’eredità istituzionale, economica e militare sovietica. In quegli anni il Regno Unito aveva ormai limitato il proprio coinvolgimento a livello globale, lasciando agli Stati Uniti, già da dopo la Prima Guerra Mondiale e l’indipendenza indiana, il compito di competere con Mosca per il controllo della regione.

Accanto quindi ai principali attori, Fed. Russa e Stati Uniti, furono altri Paesi a voler sfruttare le opportunità derivanti dal nuovo assetto politico dell’Asia Centrale e dal conseguente “vuoto” lasciato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica. Turchia, Iran, Unione Europea e Cina hanno adottato nel corso dell’ultimo ventennio diverse strategie per influenzare l’area, allo scopo di assicurarsi nuovi fornitori di materie prime, di diffondere valori democratici o di favorire la stabilità delle nuove repubbliche confinanti. Nel corso di più di un ventennio la competizione in Asia Centrale ha visto questi attori assumere ruoli diversi, più o meno significativi, ma comunque rilevanti per comprendere quale sia il contesto attuale, nonché per poter formulare delle ipotesi sulla sua prossima evoluzione.

Negli anni ’90, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la nascita di nuovi Stati turcofoni, si assistette ad una diffusione del Panturchismo, movimento tendente a promuovere l’unione culturale e politica fra tutti i popoli di lingua turca e fortemente legato all’ideologia turanica. Il Panturchismo trovava le sue radici alla fine del XIX secolo, quando era fortemente radicato tra le élite ottomane, soprattutto in chiave antizarista. Sopravvissuto alla dissoluzione dell’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale, durante tutta la Guerra Fredda il Panturchismo ricevette scarsa attenzione anche in quello che fu un tempo il centro ispiratore del movimento: la Turchia; ma quando nel 1991 venne eletto Primo Ministro Süleyman Gündoğdu Demirel, il movimento tornò ad avere importanza. Si diffuse, infatti, all’interno dei quadri dirigenti la percezione che la promozione del processo di avvicinamento del mondo turco costituisse un interesse vitale per Ankara.

Contemporaneamente in Asia Centrale furono numerose le iniziative panturche. Nell’aprile del 1991 si era tenuto a Kazan un congresso di popoli turcofoni con l’obiettivo di rinnovare l’ideologia turanica; venne inoltre creato un fondo turco con lo scopo di aiutare lo sviluppo dei Paesi sorti dal disgregamento dell’URSS. Nel 1992 il Partito democratico kazako organizzò ad Almaty un conferenza che si tradusse in un appello affinché si lavorasse alla costituzione di uno Stato turco che comprendesse i territori tra Kazan e Almaty e venne costituito un Consiglio di Coordinamento a tal fine.

Le cinque repubbliche centroasiatiche avevano ereditato dall’URSS vecchie élite comuniste, le quali erano alla ricerca di una nuova ideologia che potesse sostituire quella comunista ormai screditata. Sebbene ancora fortemente legati per necessità o convinzione a Mosca, i dirigenti centroasiatici avevano iniziato sin da subito a muovere i primi passi per ridurne l’influenza e la dipendenza. In questo senso la Turchia poteva costituire un modello per questi Paesi ed un ponte verso l’occidente. Ankara poteva farsi promotrice di una forma di governo democratica e dell’ideologia kemalista che, oltre al profilo laico, nazionalista e paternalista, era ormai orientata ad un percorso di maggiore liberalizzazione anche in ambito economico, tutti aspetti che le élite centroasiatiche consideravano fondamentali per il rilancio dei propri Paesi. Un intervento sempre maggiore della Turchia era inoltre supportato dagli Stati Uniti che temevano che il vuoto di potere derivato dalla caduta dell’Unione Sovietica venisse colmato in Asia Centrale e nel Caucaso dal fondamentalismo islamista.

Tra il 1992 e il 2000 furono cinque i vertici della turcofonia nei quali Ankara ebbe un ruolo importante. Il primo vertice si tenne ad Ankara nell’ottobre del 1992, a parteciparvi furono i capi di stato di Turchia, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Azerbaigian; invitato inoltre al vertice era, data la presenza di una numerosa minoranza Uzbeka, il presidente del Tagikistan, il quale tuttavia non poté partecipare a causa del conflitto civile in atto quegli stessi anni. Nonostante il vertice si fosse aperto con i migliori auspici di tutti i sostenitori della causa panturca, la Dichiarazione di Ankara che ne seguì fu vaga. Essa si limitava a sottolineare la necessità di rafforzare i legami politici, economici e culturali tra i vari Paesi, ma non prevedeva un tracciato concreto per ottenere questo obiettivo, non vi furono riferimenti né alla costituzione di un mercato unico, né ad una banca turca, né all’istituzionalizzazione di una struttura sovranazionale che potesse coordinare i Paesi del mondo turco. Tuttavia venne stabilito che si sarebbero tenuti altri vertici e venne programmato che il prossimo si sarebbe tenuto a Baku nel gennaio 1994.

Asia-Centrale

Il vertice di Baku non si tenne mai, ulteriore prova di come gli interessi e gli obiettivi di ciascuna delle repubbliche centroasiatiche e caucasiche non seguissero la stessa direzione. Tanto più che la questione del Nagorno-Karabakh rischiava di generare imbarazzi tra i vari capi di stato, tant’é che si optò per uno slittamento del vertice a ottobre dello stesso anno e ad un cambiamento di sede: Istanbul[1]. Nonostante i capi delle repubbliche ex-sovietiche fossero consapevoli di non dover esasperare i malcontento di Mosca, sospettosa nei confronti dei vertici, il secondo incontro della turcofonia ottenne migliori risultati, stabilendo incontri regolari. Inoltre, in quello stesso mese si riunì un nuovo Congresso dei popoli turcofoni il quale, al termine dei lavori, produsse diverse relazioni in cui venivano presentate delle proposte concrete in ambito sociale, economico, culturale, scientifico e di rapporti internazionali.

I successivi vertici si tennero nell’agosto del 1995 a Bishkek, nell’ottobre 1996 a Tashkent e ad Astana nel giugno del 1998. Questi tre incontri dimostrarono quanto fosse fragile il progresso di integrazione e numerose furono le criticità. Nonostante vi fossero vaghi riferimenti alla lotta al terrorismo e al traffico di droga, due questioni sulle quali tutte le repubbliche erano sensibili, non venne mai trovato un accordo sulla gestione e coordinazione della rete di gasdotti che costituivano un fondamentale tassello della strategia politica ed economica di questi Paesi. E nonostante a Tashkent fosse stata istituita una Segreteria permanente con il compito di applicare le decisioni prese durante i vertici, essa non si presentò mai nemmeno come l’embrione di una futura comunità politica. A decretare il fallimento dei vertici della turcofonia furono le defezioni durante il vertice di Baku dell’aprile del 2000 del Presidente turkmeno e del collega uzbeko.

Se i vertici della turcofonia avevano palesato l’impossibilità di Ankara di imporsi subito come un nuovo centro di aggregazione che potesse sostituire Mosca come baricentro politico, economico e militare per i Paesi dell’Asia Centrale, d’altro canto ne aveva confermato il ruolo di attore attivo nella regione; sebbene infatti le iniziative politiche nell’area fossero state di scarso successo, lo stesso non si può dire di quelle culturali.

Gli strumenti con i quali la Turchia ha potuto penetrare nell’area sono stati molteplici. In primo luogo l’organizzazione Turksoi, istituita nel 1992 e composta dai Ministri della Cultura di Turchia, Azerbaigian, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Kirghizistan. Essa ha il compito di rafforzare la cooperazione culturale e artistica tra i popoli turcofoni senza che vi siano ingerenze in ambito di politica interna ed estera.

In ambito linguistico uno dei principali obiettivi della politica turca in Asia Centrale è stato ottenere una maggiore omogeneizzazione delle diverse lingue turche e a tal fine furono mobilitati storici, letterati e linguisti. Di certo il maggior successo di queste politiche è stata la creazione di un alfabeto comune turco, la Turchia si è impegnata direttamente affinché l’uso di questo sistema, basato su 31 lettere latine, si diffondesse in tutta l’Asia Centrale, tanto da finanziare Paesi come il Turkmenistan e il Kirghizistan al fine di dotarli degli strumenti necessari alla transizione (manuali, macchine da scrivere, stampanti). Nonostante gli sforzi di Ankara tuttavia l’omogeneizzazione delle lingue turche, così come prevista dai linguisti turchi ideatori del nuovo alfabeto, è ancora lontana: molte sono ancora le discrepanze e Paesi come il Turkmenistan hanno sì adottato l’alfabeto latino, ma ignorato di fatto il modello suggerito dai linguisti turchi.

Un terzo ambito di azione della politica turca in Asia Centrale è stato il programma di formazione delle élite. Ankara ha aperto le proprie università agli studenti dell’Asia Centrale e promosso l’istituzione di centri di specializzazione che potessero colmare le lacune accademiche derivate dal periodo sovietico (materie economiche, inglese e turco). L’iniziativa ottenne da subito un largo successo e tra il 1996 e il 1997 ad iscriversi presso università turche furono circa 9500 studenti provenienti da tutta l’Asia Centrale[2].

Un quarto abito di azione è quello religioso. I dirigenti centroasiatici erano risoluti nel mantenere il principio di secolarizzazione dello stato, ereditato dall’epoca sovietica, e temendo il diffondersi del radicalismo, il modello di laicità proposto dalla repubblica turca costituiva chiaramente un valido punto di riferimento. Il principale strumento di espressione della politica estera turca in Asia Centrale in ambito religioso è la Direzione per gli Affari Religiosi, con i suoi auspici venne istituito il Consiglio Islamico d’Eurasia sotto suo diretto controllo amministrativo e finanziario. Un secondo strumento sono le grandi confraternite religiose di origine centroasiatica, le quali hanno sempre contato relazioni strette con le guide religiose turche. Nonostante questo tuttavia Ankara ha visto ultimamente frustrate le proprie ambizioni da iniziative di egemonia religiosa portate avanti dall’Azerbaigian in Caucaso e dall’Uzbekistan in Asia Centrale.

Un ultimo piano di azione della politica turca in Asia Centrale sono le telecomunicazione ed in particolare i media televisivi, si tratta di un ambito di azione che costituisce un supporto trasversale ad ogni altro fin qui esaminato. La Turchia, ancor prima della caduta dell’URSS, si era dimostrata interessata ad aumentare la propria presenza sui canali radiotelevisivi, tanto che negli anni novanta i canali satellitari turchi ottennero un audience di circa 57 milioni di spettatori[3] in Asia Centrale.

In definitiva, l’ambizioso tentativo turco di affermarsi e influenzare lo spazio turcofono ex-sovietico è fallito per una combinazione di fattori: la mancanza di mezzi economici e la concorrenza di stati finanziariamente più forti, la diffidenza delle repubbliche centroasiatiche, la debolezza delle infrastrutture di trasporto e la necessità di tener conto degli interessi di Mosca e Teheran.

Se per la Repubblica turca l’interesse verso l’Asia Centrale è soprattutto dovuto alla vicinanza linguistica e culturale con i popoli che la abitano, per l’Iran si tratta di motivi invece prettamente geografici, strategici, di sicurezza ed economico-commerciali. La principale preoccupazione di Teheran è il rischio di instabilità del vicino Afghanistan e di una possibile diffusione in tutta l’area. Negli anni Novanta al pari della Turchia, l’Iran si era proposto come modello politico di stato confessionale, tuttavia a Teheran fu chiara da subito la diffidenza nutrita dalle élite delle repubbliche ex-sovietiche ad un eventualità del genere, nonostante l’Iran avesse un certo appeal su talune realtà radicali.

Le iniziative iraniane si rivolsero quindi subito ad incrementare la cooperazione in ambito commerciale e di trasporto delle risorse energetiche. Considerando il fatto che nessuna delle repubbliche centroasiatiche possiede uno sbocco sul mare, l’Iran ha potuto giovarsi del vantaggio geopolitico di permettere ai Paesi produttori di gas e petrolio di raggiungere vie di esportazione marittime per le loro risorse. Degli importanti risultati sul piano politico ed economico vennero raggiunti prima con il Tagikistan e poi con Turkmenistan. Il primo, data la vicinanza culturale e linguistica, poteva essere maggiormente interessato all’ideologia rivoluzionaria; con il secondo la collaborazione fu più proficua basandosi principalmente su questioni energetiche, che portarono alla realizzazione del primo gasdotto che trasportava idrocarburi centroasiatici senza attraversare il territorio russo.

Il vero successo ottenuto da Teheran fu l’adesione di tutte e cinque le repubbliche centrasiatiche all’Organizzazione della Cooperazione Economica (OCE). L’OCE fu fondata nel 1985 da Iran, Pakistan e Turchia allo scopo di promuovere la cooperazione economica, tecnica e culturale tra i Paesi membri. Nel 1992 l’Organizzazione si allargò agli Stati dell’Asia Centrale e subì un importante processo di ristrutturazione affinché ne fossero rafforzati gli strumenti ed i poteri dato l’aumento dei partecipanti. Nel corso degli anni l’OCE si è fatta promotrice di numerose iniziative in ambito di sviluppo del commercio regionale, della cooperazione nel settore dell’energia, dei trasporti, dell’agricoltura e dell’industria. A determinare il peso specifico così rilevante di questa organizzazione è il fatto che essa sia la sola a riunire Stati tutti di confessione musulmana, ma non araba.

Di recente si sono registrate nuove mosse diplomatiche messi in atto da Teheran: in primo luogo l’Iran ha rilanciato la collaborazione ed il dialogo con il Turkmenistan, con il quale sono stati sottoscritti accordi per l’aumento delle esportazioni energetiche verso l’Iran e la costruzione di due linee ferroviarie che attraversino da Nord a Sud Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Iran, e una da Ovest a Est fino alla Cina lungo i territori di Afghanistan, Tagikistan e Kirghizistan. Altre consultazioni si sono soffermate sulla costruzione di nuovi gasdotti e oleodotti in Tagikistan.

Nonostante questi indubbi successi, l’Iran non è ancora uno degli attori determinanti della scacchiera centroasiatica, in parte perché non in grado di competere con le ingenti risorse finanziare e militari dei competitor “maggiori”: Russia, Stati Uniti e Cina; in parte perché Teheran stessa cova alcuni dubbi sull’opportunità di presentarsi forte del suo status di potenza regionale, dato che rischierebbe di precludersi il sostegno di Mosca e Pechino nel contesto del confronto diplomatico con Washington.

Nel 1991 l’Unione Europea si presentava come un attore marginale nella partita centroasiatica. L’Unione infatti non poteva vantare né legami culturali, né linguistici con le repubbliche ex-sovietiche, né vantaggi geopolitici. Questo, unito alla debolezza politica in confronto a Stati Uniti, Russia e Cina, nonché l’assenza di una strategia politica e dell’interesse degli stati membri di delineare una politica comune nei confronti dei Paesi dell’area, hanno limitato l’azione europea alle sole relazioni economico-commerciali. Le iniziative europee erano sostanzialmente incentrate a sfruttare la complementarietà dell’economie europee e delle repubbliche centroasiatiche; in particolare ad ottenere l’approvvigionamento di risorse energetiche di cui gli Stati della regione sono ricchi, promuovendo una collaborazione che permettesse un miglioramento delle condizioni di efficienza economica, tecnologia e infrastrutturale. Questo obiettivo di lungo periodo si combinava con la politica di promozione della democratizzazione e della tutela dei diritti umani nei Paesi della regione.

Negli anni ’90 i principali programmi di azione dell’Unione Europea erano il progetto TRACECA (Transport Corridor Europe Caucasus Asia) e il progetto INOGATE (Intestate Oil and Gas Transport to Europe). Inaugurato nel 1993 il TRACECA mira ad incrementare gli scambi tra Ovest ed Est (dal Mar Nero alla Cina) contribuendo ad un ammodernamento dei trasporti marittimi e terresti. Il progetto condizionava l’erogazione dei finanziamenti europei all’adeguamento dell’economie locali a quella di mercato. Il programma ottenne, nel 2001 una significativa accelerazione grazie alla sua istituzionalizzazione: venne creata la Commissione Intergovernativa con sede a Baku con il compito di ampliare e implementare il programma. INOGATE prese il via nel 1997, complementare al precedente, mirava a modernizzare il sistema di trasporto e commercializzazione di idrocarburi. Entrambi i progetti continuano ad occupare un ruolo di primo piano in Asia Centrale, così come dimostrato dalla conferenza regionale ministeriale per l’energia e il trasporto che si è tenuta a Baku nel 2004.

In Asia Centrale vi furono poi gli importanti interventi derivanti dall’istituzionalizzazione degli Accordi di Partenariato e Cooperazione con cui la Commissione Europea si proponeva di disciplinare i rapporti con i Paesi sorti dalla dissoluzione dell’URSS. Le materie interessate da questi accordi sono le più disparate e salvo quella militare e di sicurezza affrontano tutte le necessità delle repubbliche centroasiatiche. Nonostante questo per qualità e quantità gli Accordi di Partenariato e Cooperazione tradiscono ancora una volta l’incapacità europea di instaurare un solido dialogo politico, preferendone uno economico e commerciale. Kazakhstan e Kirghizistan furono le prime repubbliche a siglare un Accordo con Bruxelles: firmati nel 1995, furono ratificati dal Parlamento europeo nel 1996, per poi entrare in vigore nel 1999 con durata decennale. Nel 2003 si aprirono i negoziati con il Tagikistan, impediti prima dal conflitto civile, l’accordo che ne derivò è stato ratificato nel novembre 2008. Nel 1998 iniziarono le consultazioni per un accordo con il Turkmenistan, tuttavia i lavori vennero presto congelati a causa della politica autoritaria e repressiva del presidente Nyazov. Lo stesso trattamento si sarebbe potuto ipotizzare anche per l’Uzbekistan di Karimov, tuttavia interessi geostrategici spinsero le autorità europee a proseguire con la collaborazione: nel 1999 l’Uzbekistan decise di non rinnovare la propria adesione al Trattato di Tashkent (organizzazione nell’ambito della CSI) e di aderire alla GUAM organizzazione filoccidentale che riunisce Georgia, Ucraina, Armenia e Moldavia.

Un vero impulso non solo all’intensificazione dei legami con i Paesi dell’area, ma anche alla chiara intenzione di voler elaborare una strategia comune nei confronti dell’Asia Centrale, venne dalla nomina nel 2005 del Rappresentante Speciale per l’Unione Europea per l’Asia Centrale e all’elaborazione della Strategia Europea per la nuova partnership con l’Asia Centrale, che ha preso il via nel 2007.

Sul piano della sicurezza l’unica influenza proveniente dall’UE sulla regione deriva dall’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. L’ingresso delle ex-repubbliche sovietiche nell’OSCE seguì di poco l’indipendenza nazionale nel 1992, salvo il Turkestan le altre repubbliche accettarono di collaborare con l’organizzazione che intervenne direttamente a sostegno della delicata situazione tagica già nel 1994. Nel corso degli anni l’efficacia dell’OSCE in Asia Centrale ha presentato alcune criticità dovute principalmente alla cautela dei capi politici delle repubbliche ad abbandonare schemi di governo tendenzialmente autoritari, data la preoccupazione di una eventuale destabilizzazione; nonché alle difficoltà dei Paesi centroasiatici ad instaurare concreti processi di integrazione fra loro.

Se dal punto di vista politico e della sicurezza l’azione dell’Unione Europea è stata per certi versi poco efficace o incisiva, in ambito energetico essa si è fatta più assertiva e risoluta nel difendere i propri interessi in merito alla sicurezza energetica. La determinazione della strategia europea trova origine dalla crisi energetica del 2006 seguita allo scontro diplomatico tra Mosca e Kiev riguardo al prezzo del gas. Per garantire la sicurezza energetica ad un’Europa ormai allargata anche ai paesi dell’Est (2004), si progettò la realizzazione del’oleodotto Baku-Tiblisi-Ceyhan (BTC) e del gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum (BTE) che avrebbero fornito l’Europa del gas e del petrolio estratti nel Caucaso e in Asia Centrale; a questi dovrebbe aggiungersi il Gasdotto Nabucco, che dalla Turchia attraverserebbe i Balcani.

Nonostante questo la strategia europea risulta indebolita dallo scarso peso politico di cui gode Bruxelles e vessata dallo scontrarsi dei propri interessi con quelli di taluni degli stessi stati membri. Numerosi sono stati le partnership e i progetti sottoscritti e realizzati in parallelo a quelli previsti dalla strategia di sicurezza energetica europea. Nel 2003 infatti entrò in funzione il gasdotto Blue Stream, frutto del partenariato tra Eni e Gazprom, più di recente il progetto South Stream si è posto in aperta competizione con il gasdotto Nabucco, così come il progetto NordStream nel Baltico.

L’Impero Celeste, come abbiamo visto, partecipò attivamente all’ultima fase del Grande Gioco, tanto da giungere ad organizzare un intervento militare nella primavera del 1880 con l’obiettivo di riprendere Kuldja ai russi[4]. Tuttavia dal cristallizzarsi della situazione in Asia Centrale dopo la Guerra Civile russa, la Cina non intervenne mai direttamente nell’area fino alla dissoluzione del blocco sovietico. A partire dal 1991 i principali interessi di Pechino in Asia Centrale sono l’approvvigionamento energetico e la questione della sicurezza[5].

La politica estera cinese in Asia Centrate ha seguito due vettori paralleli, uno concentrato sul rafforzamento dell’integrazione a livello dell’intera regione, il secondo di ordine bilaterale. Sul piano bipolare l’attenzione si è concentrata sul garantirsi l’accesso alle vaste risorse di petrolio e gas presenti in Asia Centrale. Ad oggi la Cina viene rifornita del gas turkmeno e del petrolio kazako dal Central Asia Gas Pipeline e dal Atyrau-Alashankou oil pipeline. Sul piano bipolare la Repubblica Popolare Cinese può vantare la sua vasta disponibilità di liquidità che spesso costituisce un forte appeal sulle repubbliche centroasiatiche, costantemente alla ricerca di capitali stranieri che ne facilitino lo sviluppo.

Dal punto di vista multilaterale la Cina sta puntando molto su una cooperazione regionale che, libera della presenza Statunitense, possa costituire un utile foro di dialogo con i principali attori della regione ed in particolare con le repubbliche ex-sovietiche e la Federazione Russa. Già dal 1996 la Cina, il Kazakistan, il Kirghizistan, il Tagikistan e la Russia entrarono a far parte del Shanghai Five Forum, organismo che si prefiggeva il compito di definire e smilitarizzare i confini degli Stati membri. Lo Shanghai Five Forum ha costituito il primo nucleo del processo di cooperazione che ha portato, il 14 giugno del 2001, alla costituzione dell’Organizzazione di Shangai per la Cooperazione (SCO), la quale si era fissata obiettivi di più ampio respiro: la lotta al terrorismo, al fondamentalismo e al separatismo, nonché l’incentivazione alla cooperazione politica ed economica.

Nel corso degli ultimi anni l’Organizzazione di Shanghai si è rivelata un importante attore dell’area, di recente tuttavia Mosca e Pechino hanno dimostrato di possedere due visioni differenti riguardo all’evoluzione del processo di integrazione di Shanghai: da un lato la Russia privilegia la cooperazione in ambito militare e di difesa, dall’altro la Cina vorrebbe invece promuovere la collaborazione economica e commerciale. Altro punto focale della strategia cinese in Asia Centrale è appunto quello di assicurare alle proprie merci uno sbocco sul vasto mercato asiatico e numerose sono state le iniziative a tale scopo. Dal 2000 l’interscambio commerciale tra Cina e le repubbliche ex-sovietiche è aumentato significativamente, grazie anche all’adozione da parte di Pechino della Go Global Strategy, che ha fortemente incentivato gli investimenti all’estero e le opportunità di business per le aziende cinesi.

Con il progressivo abbandono della presenza statunitense in Asia Centrale la Repubblica Popolare Cinese, forte della disponibilità di capitali e del peso geopolitico, si sta delineando come il secondo attore dell’area dopo la Federazione Russa, ciò non toglie che accanto a questi attori di primo piano ve ne siano altri, Turchia, Iran, ed Unione Europea, che tutt’ora attuano più o meno efficacemente le proprie strategie per assicurare che i propri interessi in quest’area, così geopoliticamente importante, siano garantiti.

La partita del Nuovo Grande Gioco si combatte quindi su più scacchiere: risorse energetiche, scambi commerciali, terrorismo, sicurezza, stabilità sociale e politica, religione e cultura. Gli attori che vi prendono parte sono numerosi e diversificati, alcuni hanno le risorse per agire su tutte le scacchiere, la Federazione Russa, gli Stati Uniti e forse nel prossimo futuro la Cina; altri solo per intervenire solo in alcune di esse, Iran, Turchia e Unione Europea. L’Asia Centrale si rivela quindi essere un sistema complesso nel quale molte sono le forze in gioco e le loro interrelazioni, ma a determinare quale sarà l’evoluzione di questa competizione sarà in ultimo l’agire degli attori interni dell’area, le strategie messe in campo dalle cinque repubbliche centrasiatiche e la loro abilità a saper sfruttare, con politiche multivettoriali, le opportunità e le sfide offerte dagli attori esterni.



[1] Venne inoltre stabilito che finché non si fosse riusciti ad organizzare incontri regolari, i vertici della turcofonia si sarebbero tenuti in Turchia, confermando ancora l’interesse di Ankara nel tentare di rafforzare il proprio peso nel processo di integrazione.

[2] Bayram Balci et Bertrand Buchwalter, La Turquie en Asie centrale: la conversion au réalisme (1991-2000), Dossiers de l’Institut Français d’Études Anatoliennes, n°5, janvier 2001, p. 33.

[3] Haluk Sahin, e Asu Aksoy, Global media and cultural identity in Turkey, Journal of Communication, primavera 1993 N. 43, 2, ABI/INFORM Global, p. 38.

[4] In realtà non vi fu uno scontro armato, quando i russi seppero che Pechino stava radunando un esercito optarono per restituire la città ai cinesi. Hopkirk P., The Great Game. On Secret Service in High Asia, Kodansha International, 1992. p. 455.

[5] Pechino è fortemente preoccupata dalla decisione statunitense di ritirare le truppe in Afghanistan nel 2014, dato il rischio che il radicalismo possa infettare anche la provincia cinese dello Xinjang, abitata da popolazioni di origine uigura di fede musulmana ed etnicamente vicini alle popolazioni dell’Asia Centrale, e mai del tutto esente da moti separatisti.

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OCCUPY TAKSIM E SVOLTA OCCIDENTALE PER LA TURCHIA ?

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Ai confini della Siria, nell’Hatay, la situazione è tragica e incandescente, ma le cronache dei grandi mezzi d’informazione non hanno occhi che per i “ribelli”di piazza Taksim.

Una voce attenta (http://cameroonvoice.com/news/news.rcv?id=11311) testimonia di come – grazie alla sciagurata politica dell’esecutivo di Ankara – in territorio turco oggi siano concentrati “criminali venuti dal mondo intero, stupratori, tagliagole, piccoli malfattori, qualche rivoluzionario romantico, avventurieri richiamati dall’odore del sangue, talibani afghani, daghestani, yemeniti e bosniaci, giornalisti francesi, britannici e israeliani, fondazioni caritatevoli salafite, il senatore statunitense Mac Cain, agenti arabi della CIA e del Mossad, i deputati kuwaitiani Abdel halim Mourad e Adel al Mawada, il predicatore genocidario Adnan Arour in compagnia di altri predicatori, insomma tutti i componenti della crociata antisiriana”. 

Questa congerie riunitasi all’ombra dei missili Patriot è in primo luogo fonte di terrore e di prepotenze nei confronti dei residenti autoctoni – che coraggiosamente manifestano in difesa della propria terra – ma anche di preoccupazione e disagio per la generalità dell’opinione pubblica turca. Anche per la maggior parte dei dimostranti di piazza Taksim, presumibilmente, ma qui gli eventi stanno prendendo una piega ben diversa.

Le dimostrazioni, come è noto, hanno avuto origine nella contestazione degli ambientalisti rivolta contro il  progetto di riqualificazione del Gezi Park, l’area verde contigua a piazza Taksim. Contestazione fondata, a giudizio della magistratura (più esattamente il sesto Tribunale Amministrativo di Istanbul) che ha accolto il ricorso presentato e annullato il permesso di abbattimento degli alberi, con ciò determinando indirettamente anche il ritiro dal progetto di diverse imprese in esso coinvolte. Il governo ha subito dichiarato di adeguarsi alla pronuncia del tribunale, salva la possibilità di ricorrere in appello contro la sentenza.

L’istanza ambientalista si è allora rapidamente trasformata nel movimento “Occupy Taksim”, che ha  conquistato nel mondo le prime pagine di tutti i giornali e le notizie di apertura dei notiziari, presentandolo come simbolo di lotta all’autoritarismo e di difesa della “laicità” della Turchia.

Chi è sceso in piazza a Taksim (e in altre città in segno di solidarietà – segnatamente ad Ankara e a Izmir) ? Per quanto ci riguarda indubbiamente anche ambienti contrari alla svolta antisiriana e filoatlantica del governo Erdoğan, ma la maggioranza dei manifestanti non sembra caratterizzata dalla prevalenza di tale orientamento.

È significativo che la rivolta (i disordini) abbia preso piede soltanto in piazza Taksim, l’area cioè su cui gravitano i quartieri medioalti di Istanbul (Beyoğlu, Beşiktaş, Nişantaşı, Teşvikiye); vi partecipano certamente studenti universitari kemalisti, ambienti intellettuali legati alla borghesia radicale, di orientamento “laico” – nel concreto senso di relativista e islamofobo – e di formazione “occidentale” – contraddistinta da sudditanza psicologica verso il mondo nuovo della Globalizzazione. All’inizio, nelle cronache internazionali, venivano citati fra i protagonisti anche gli ultras calcistici e i sostenitori delle bevande alcoliche, poi messi da parte forse per non cadere nel ridicolo.

A ogni modo, “Occupy Taksim” svolge un compito ben preciso nella gestione dell’informazione: spostare l’attenzione dalla persistente strategia di aggressione contro un Paese sovrano – la Siria – in cui la Turchia è pesantemente coinvolta, per dirottarla sulla questione dei diritti civili e della consueta diatriba della difficile convivenza fra Islam e Democrazia – il primo vissuto come fastidioso retaggio di un passato in cui la religione pretendeva di avere un peso sulle questioni pubbliche e non solo private.

 

 

Un cambio di governo sponsorizzato dall’Occidente ?

Fin dall’inizio il governo Erdoğan/AKP è stato bersaglio di critiche esplicite di matrice occidentale e in particolare neocon, in linea con quello che nel 1990 Bernard Lewis presentava come il conflitto tra “la nostra eredità giudeo-cristiana e un vecchio nemico”, ossia l’Islam.

Ecco un breve repertorio:

  • Daniel Pipes nel 2004 sull’AKP: “Sono totalitari; il loro scopo è di allontanare i militari dal potere politico e di islamizzare la società”;
  • Richard Perle – principale fautore dell’alleanza storica fra Israele e la Turchia – nel 2007 invita i militari turchi a porre fine al pericoloso governo in carica;
  • Nello stesso anno il “Programma di ricerca sulla Turchia” del Washington Institute lancia l’allarme sul rafforzamento dell’AKP e sul riavvicinamento della Turchia “ai Paesi islamici”;
  • Sempre nel 2007 ancora Daniel Pipes: “La minaccia maggiore è l’islamismo legittimo”, ossia quello – come in Turchia – al potere con il suffragio elettorale;
  • Nel 2008 Michael Rubin (American Enterprise Institute): “Erdoğan è un protetto del Primo Ministro Putin, che ha allargato la frattura tra Islam e Occidente, incoraggiando le più virulente, antiamericane e antisemite teorie del complotto”;
  • Nel 2009 Daniel Pipes sancisce che (titolo su Liberal) “la Turchia non è più un alleato”, in forza del “profondo cambiamento di rotta del governo turco da quando l’AKP è al potere”;
  • Nel 2010 i dispacci Wikileaks pubblicano i rapporti riservati dell’ambasciata statunitense ad Ankara, secondo i quali Erdoğan “odia Israele”, “è nemico della modernità e dell’Occidente”, mentre il governo turco è “inaffidabile e pieno di islamismi”;
  • Nello stesso anno l’ARI  (organizzazione legata alle influenti organizzazioni sioniste statunitensi AIPAC e JINSA) inizia una forte campagna propagandistica per minimizzare la realtà e i danni derivati alla Turchia dall’operazione Ergenekon, mentre il Rapporto Stratfor – una delle principali società di analisi geopolitica, vicina ai servizi di intelligence statunitense – concernente “Islam, laicità e lo scontro per la Turchia dell’avvenire” avverte della grande preoccupazione in corso per l’egemonia dell’AKP sulla scena politica turca;
  • Dopo la tragedia della Mavi Marmara diversi interventi di questo tenore: “Se la Turchia resta così vicina all’Iran e così ostile a Israele, ne subirà le conseguenze” (Mike Pence, parlamentare repubblicano); “La Turchia non merita di essere membro della Comunità Europea finché si comporta in modo simile all’Iran” (Shelley Berkley, parlamentare democratica);
  • Sempre nel 2010 Fiamma Nirenstein su Il Giornale: “Israele è stata la vittima sacrificale (sic) della svolta turca”; ancora qualche mese fa la stessa precisava che – “nonostante la posizione assunta sulla Siria” – di Erdoğan non ci si può fidare.

 

Queste prese di posizioni rispecchiano certamente anche il disagio occidentale per talune prese di posizione in campo finanziario:

  • la forte riduzione dell’indebitamento pubblico della Turchia (dal 74 % del 2002 al 37 % del 2012);
  • il fallimento dei negoziati del 2009 fra governo turco e Fondo Monetario Internazionale, con il rifiuto da parte del primo di nuovi prestiti internazionali;
  • la volontà – espressa dal governo di Ankara – di potenziare il sistema bancario di impronta islamica, concedendo nuove licenze in questo senso e aprendo alla finanza islamica anche le banche a partecipazione statale; si tenga presente che a tutto il 2011 questi istituti conformi alla Shari’a davano lavoro a 13.857 persone;
  • l’entrata in vigore (a fine 2012) della legge contro la speculazione finanziaria, con pene fino a cinque anni di carcere (e pene pecuniarie) per che altera artificialmente l’andamento dei titoli di Borsa: i maggiori istituti finanziari internazionali presenti in Turchia hanno dopo di ciò sospeso o ridotto la loro produzione di note finanziarie.

 

L’opzione della ricerca di un cambio di governo – favorito dalla gestione di una potente campagna mediatica, utile a rafforzare nell’opinione pubblica europea il tradizionale senso di diffidenza nei confronti degli “islamici” – non sembra dunque peregrina. Certamente si può obiettare che, dopo le ultime gravi giravolte compiute dal governo Erdoğan (Siria in primo luogo, ma anche la sistemazione dei missili NATO a Malata) questo governo offre sufficienti credenziali per svolgere il suo ruolo di sentinella dell’Occidente. La situazione però è complessa, e la decisa candidatura dell’opposizione kemalista del CHP a ricoprire quel ruolo è presa in seria considerazione dagli ambienti atlantisti, che storicamente privilegiano in Turchia quell’alleato. Si veda al proposito la notizia della missione statunitense degli esponenti del CHP http://www.hurriyetdailynews.com/turkish-main-opposition-party-to-hold-talks-in-washington-in-july.aspx?pageID=238&nID=48933&NewsCatID=338.

Non è un caso che il capo del CHP, Kemal Kılıçdaroğlu, riferendosi ai disordini di piazza Taksim abbia paragonato nello stesso giudizio negativo Erdoğan e Bashar al-Assad …

Un articolo (http://aurorasito.wordpress.com/2013/06/13/eager-lion-operazione-di-esfiltrazione-dei-mercenari-islamici-in-siria/) di Valentin Vasilescu introduce elementi interessanti nel quadro che abbiamo cercato di delineare. Vasilescu in particolare sottolinea che “ Il 27 maggio 2013, il senatore repubblicano John McCain, accompagnato dal comandante dell’esercito ribelle, il generale Idris Salim, ha attraversato il confine tra Turchia e Siria per incontrare la brigata dei combattenti guidata da Mohammed Nur. Quel giorno McCain e Idris hanno incontrato, nella città turca di Gaziantep, i comandanti dei gruppi islamisti di al-Qusayr, Homs, Hama, Idlib, Aleppo, Daraa e provincia di Damasco. McCain ha avuto colloqui con funzionari di Ankara, ha visitato il contingente statunitense ufficialmente preposto ai sistemi missilistici Patriot nella base militare di Incirlik. Il viaggio del senatore statunitense è stato organizzato dalla SETF (Task force di emergenza siriana), una ONG statunitense che sostiene l’opposizione siriana. Uno dei più importanti risultati tratti da McCain, era che il primo ministro turco Erdogan ha iniziato lo smantellamento dei centri di raccolta dei mercenari e degli islamisti in Turchia, rifiutandosi di consentire il transito di armi e munizioni verso la Siria. Coincidenza o no, il 30 maggio 2013 nel centro di Istanbul è esplosa la protesta “spontanea” contro il primo ministro Erdogan, che si è amplificata secondo gli schemi dei movimenti della “primavera araba”.

La Siria, ancora. Chi semina vento raccoglie tempesta…

 

 

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همایش معرفی اندیشه های امام خمینی(ره) و رونمایی از کتاب «قوانین داخلی و سیاست های بین المللی ج.ا.ایران» در رم برگزار شد

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روز شنبه 25 خرداد همایش معرفی اندیشه های امام خمینی(ره) همراه با رونمایی از کتاب «قوانین داخلی و سیاست های بین المللی ج.ا.ایران» نوشته آقای «علی رضا جلالی» یکی از نویسندگان بومی مقیم ایتالیا در سالن کنفرانس «لَب کوم» در رم برگزار شد.
قربانعلی پورمرجان رایزن فرهنگی جمهوري اسلامي ايران در ایتالیا در این مراسم که با حضور کارشناس مطبوعاتی سفارت ج.ا.ایران، شخصیت های فرهنگی و دانشگاهی و برخی از ایرانیان مقیم و شیعیان بومی برگزار شد، با اشاره به ویژگی های امام خمینی(ره) به نقش ایشان در پیروزی انقلاب اسلامی اشاره کرد و گفت: انقلاب اسلامی ایران از آنجا که بر اساس افکار بلند و اندیشه متعالی حضرت امام(ره) تکوین یافته است همواره در عوامل پیدایش و طرح شعارهای محوری و تعیین اهداف و آرمان های بلند و راهکارهای وصول به آن با باورها و اعتقادات این شخصیت ملکوتی پیوندی ناگسستنی داشته است. با پیروزی انقلاب اسلامی و جایگزین ساختن جمهوری اسلامی به جای رژیم سلطنتی و استقرار نهادهای مردمی و مدنی در این نظام، مقوله مردمسالاری بار دیگر مورد توجه شدید قرار گرفت. امام خمینی(ره) از یک سو با تکیه بر فقه سنتی که میراث گرانبهای شیعه است و از سوی دیگر با الگوگیری از حاکمیت نبوی و علوی، تجربهای جدید فراروی جهانیان قرار دادند.
پورمرجان در بخشی دیگر از سخنان خود با اشاره به مطالعات ژئوپلیتیکی ایران اظهار داشت: «مطالعات ژئوپلیتیکی در ایران در سه موج و برهه شکل گرفت. موج نخست از پیروزی انقلاب اسلامی ایران تا فروپاشی شوروی، موج دوم از زمان فروپاشی شوروی و رونق مباحث ژئوپلیتیکی در ایران که مباحث ژئوپلیتیک شیعه، اقوام و مباحث هسته ای ایران شکل گرفت و در موج سوم، بیداری اسلامی و رشد مباحث ژئوپلیتیک در ایران و رونق مسائل مرتبط با بنیادگرایی سلفی، ژئوپلیتیک شیعه، اخوان المسلمین، ژئوپلیتیک حقوق بشر، ژئوپلیتیک رسانه، قدرت نرم به جای قدرت سخت و بالاخره آینه ژئوپلیتیک فرهنگی به عنوان گرایش هایجدید ژئوپلیتیک مطرح شد.

همه این مباحث نشانگر الزام تبدیل اهمیت ژئوپلیتیک به قدرت ژئوپلیتیک است و جمهوری اسلامی ایران به عنوان همسایه شوروی که متلاشی شد اگر چه به لحاظ فیزیکی تغییر نیافته ولی بیشترین تحولات محتوایی را داشته است که تأثیرگذاری خود را در منطقه و در سطح بین المللی کاملاً نشان داد و اینها در راستای تحول ماهیت قدرت از سخت به نرم و از نظامی به اقتصادی و بالاخره، فرهنگی بود و درکنار آن، ایدئولوژی اسلامی حاکم بر انقلاب اسلامی و تأثیرگذاری عقیدتی آن بر کشورهای مسلمان به عنوان عامل حرکت جنبش های اسلامی جایگاه ژئوپلیتیکی ایران را متحول ساخت.» 
رایزن فرهنگی ج.ا.ایران در ایتالیا در بخشی دیگر از سخنان خود به مردمسالاری دینی که مایه قوت و موجب عزت نظام ج.ا.ایران است اشاره کرد و گفت: «مردمسالاری دینی از قانون اساسی مترقی ج.ا.ایران برخاسته است و براساس آن دموکراسی رایج در دنیا با تعریف خاص دینی و الهام گرفته از موازین الهی در کشور حاکم می شود و نه تنها تفکیک قوا در کشور پیاده می شود که روابط حاکم بر قوای سه گانه و در جهت صیانت از حقوق و آزادی های مردمی که موافق با اصول و موازین شرعی هم باشد از طریق ولی فقیه کنترل می شود و این نوع از سیستم حکومتی که هم بتواند معیارهای دموکراسی رایج را حفظ نماید و هم شؤونات دینی را حاکم سازد جز در ج.ا.ایران نیست و همه این موارد در عنوان جمهوری اسلامی ایران نهفته است.» 
وی با اشاره به انتخابات 24 خرداد ریاست جمهوری گفت: «از مصادیق دموکراسی می توان به انتخابات متعدد نظیر انتخابات ریاست جمهوری، نمایندگان مجلس شورای اسلامی، اعضای شورای شهر و روستا و حتی انتخابات رهبری نظام ج.ا.ایران بر اساس اصل 107 قانون اساسی توسط مجتهدین منتخب مردم از استان های کشور اشاره کرد. تلفیق آیین های دموکراسی و روش های آن با موازین دینی و شرعی می تواند ضمن تکمیل نقایص احتمالی مانع سوء استفاده های متعدد در کشور شود و انگیزه های دینی را در کنار انگیزه های دنیوی در کشور و در سرنوشت سیاسی کشور حاکم سازد.» 
پورمرجان در پایان با اشاره به قانون اساسی مترقی ج.ا.ایران و ضمن قدردانی از سید علی جلالی به خاطر نگارش کتاب«قوانین داخلی و سیاست های بین المللی ج.ا.ایران» گفت: «مردمسالاری دینی، دستاوردهای زیادی را در عرصه سیاسی، اقتصادی و فرهنگی و حتی علمی موجب شده است و ایران را از یک کشور منفعل به یک کشور فعال در منطقه تبدیل کرده است و این موضوع در کتاب آقای جلالی نیز بیان شده است.»

«مهدی (جوزپه ) آیلّو» مسلمان شیعه ایتالیایی، فارغ التحصیل رشته فلسفه از دانشگاه شرق شناسی ناپل و مدیر مؤسسه انتشاراتی عرفان که به مدت 7 سال است کتاب هایی در خصوص معرفی اسلام شیعه در ایتالیا منتشر می کند و تاکنون چندین عنوان کتاب از زبان های فارسی، انگلیسی و عربی به زبان ایتالیایی در خصوص عرفان، فلسفه، جهان بینی شیعه و زندگینامه معصومین (ع) به چاپ رسانده است به اختصار به بیان تاریخ و موقعیت جغرافیایی ایران پرداخت و گفت: «انقلاب اسلامی ایران یکی از مهم ترین وقایع تاریخی ایران بشمار می رود و پیروزی انقلاب اسلامی، نقطه عطفی در تحولات تاریخی مهمی است که در دنیای معاصر رخ داده است.»
آیلّو همچنین افزود: «ایران به لحاظ جایگاه و موقعیت ژئوپلیتیکی و با داشتن فرهنگ غنی و مختص به خود با تکیه بر تاریخ و تمدن چندین هزار ساله، توانسته است جایگاه خاصی به اسلام در زمان معاصر بدهد. او با مقایسه فرهنگ ایران با تمدن و فرهنگ یونان و روم باستان، تأثیر گذاری این فرهنگ بر فرهنگ دیگر ملل دنیا را انکارناپذیر دانست.»
مدیر مؤسسه انتشاراتی عرفان، وقوع جنگ تحمیلی از سوی عراق به ایران را مسئله ای از پیش طراحی شده برای به چالش کشیدن انقلاب نوپای ایران دانست و گفت: «کشورهای غربی بر این باور بودند که با این جنگ تحمیل شده بتوانند سیر تکامل انقلاب را در ایران به تأخیر بیندازند و ایران را مجدداً تحت سیطره خود درآورند ولی باور نمی کردند که وجود جوانانی غیور و دلاور در این جنگ هرگز این فرصت را به آنان نمی دهد. 
او مصاحبه ای را که صدا و سیمای جمهوری اسلامی ایران در زمان جنگ تحمیلی با نوجوانی 14 ساله انجام داده بود را با زیر نویس ایتالیایی برای حضار پخش نمود که نه تنها حضار را تحت تأثیر قرار داد که تحسین آنان را هم در خصوص پاکی قلب و رشادت این جوان برانگیخت.» 
آیلّو در پایان اظهار داشت: انتخابات اخیر و حضور ایرانیان در پای صندوق های رأی که دیروز همگی ما شاهد آن بودیم، این را گواهی می دهد که ملت ایران کماکان علی رغم تمامی مشکلات، پشت رهبر خویش ایستاده است و تا آخرین قطره خون از منافع کشور خود دفاع می کند. 
آقای پروفسور «کلادیو موتی» مدیر مجله مطالعات ژئوپلیتیک ائورآسیا و استاد دانشگاه پادوا سخنان خود را با قرائت اصل اول قانون اساسی جمهوری اسلامی ایران و مقایسه جمهوری اسلامی با جمهوری های غربی آغاز نمود و این سئوال را مطرح کرد که آیا کلمه جمهوری برای کشوری که مشروعیت و مقبولیت خویش را از خداوند می گیرد می تواند مناسب باشد؟ چرا که معمولاً در سیستم جمهوری مشروعیت از مردم گرفته می شود. آن چه مشخص است مفهوم جمهوری در غرب با حکومت اسلامی نمی تواند تطبیق داشته باشد و آن چیزی است که نویسنده کتاب سعی داشته به آن بپردازد و بیان کند که حکومت اسلامی نه تنها تناقضی با جمهوری و دموکراسی ندارد که می تواند به عنوان الگویی برای دیگر کشورها نیز باشد. 
پروفسور موتی سپس افزود: «در خصوص جمهوری اسلامی با در نظر گرفتن این که قوانین جاری مشروعیت و مقبولیت خود را از قوانین الهی و شرعی اتخاذ می کنند حکومت ایران یک حکومت لائیک نیست به منزله آنچه که در غرب می باشد و قوانین الهی بر قوانین وضع شده از سوی بشریت اولویت دارند ولی یک حکومت صرفاً دینی هم نیست که در آن شهروندان هیچ گونه حقی در خصوص وضع قوانین خود ندارند همان گونه که در بعضی از کشورهای خاورمیانه شاهد هستیم. 
جا دارد اشاره شود که در زمان ما هستند کسانی که به لائیک بودن خود افتخار می کنند در حالی که لائیک بودن یعنی در جهالت به سر بردن و ندانستن مفاهیم عرفانی و الهی و افتخارکردن به لائیک بودن در بسیاری از موارد یعنی افتخار داشتن به جهالت خود.»
وی در ادامه به بحث جدایی دین از سیاست اشاره کرد و گفت: «جدایی دین از سیاست به هیچ وجه با فرهنگ اسلامی سنخیت ندارد چرا که قوانین جاری در کشور بایستی بر اساس قوانین اسلامی وضع شوند حتی در کشورهای اسلامی که حکومت های آنها خود را لائیک معرفی می کنند مشاهده می کنیم که بسیاری از قوانین جاری ریشه در اسلام دارند.»
مدیر مجله مطالعات ژئوپلیتیک ائورآسیا در پایان ضمن بررسی نقش جمهوری اسلامی ایران در ژئوپولیتیک بین المللی و تحلیل مفهوم ولایت فقیه اظهار داشت:«هنگامی که در کشورهای اسلامی وضع قوانین، مشروط به عدم تناقض با شریعت و اسلام است پس کسی بر وضع قوانین نظارت دارد که به قوانین اسلامی آگاهی کامل دارد و به همین دلیل است که کارشناسان و آگاهان قوانین اسلامی در کشورهایی با حکومت اسلامی، موضعی بالاتر از دولتمردان آن کشور دارند.
علیرضا جلالی نویسنده کتاب «قوانین داخلی و سیاست های بین المللی جمهوری اسلامی ایران» 
با اشاره به انتخابات ریاست جمهوری در ایران، حضور حماسی ایرانیان را در این دوره از انتخابات ستود و گفت: «ایرانیان همیشه در تمامی عرصه های سیاسی و اجتماعی کشورشان حضور داشتند از انقلاب اسلامی به رهبری امام خمینی (ره) گرفته تا جنگ تحمیلی و تا به امروز. باید دلیل شکست غرب در تمامی پروژه های ددمنشانه خود علیه ایران را حضور مردم در عرصه های مختلف دانست.» 
جلالی با اشاره به جنگ تحمیلی افزود: « وقتی جنگ تحمیلی آغاز شد ایرانیان اختلافات درونی خویش را کنار گذاشتند و بسیج شدند و حتی کسانی که در خارج از ایران زندگی می کردند هم به ایران برگشتند و به جبهه های جنگ رفتند و برای آزاد کردن کشورشان از چنگ دشمن جنگیدند و از جان خود مایه گذاشتند.»
وی با اشاره به حضور مردم در شرایط دشوار گفت: «انتخابات اخیر نمونه ای دیگر از حضور مردمی ایرانیان در صحنه است. علی رغم مشکلات حاصله از تحریم های وضع شده علیه ایران، تمامی مردم برای تعیین سرنوشت خود پای صندوق های رأی رفتند. نکته مهمی که غربی ها باید بدانند، این که ایران کشوری مستقل و متفاوت با دیگر کشورهای اسلامی در منطقه است. این کشور با سابقه تاریخی خود همیشه در سیاست های منطقه ای و بین المللی تأثیر گذار بوده و هست و این حقیقتی است انکار ناپذیر و تمامی تلاش های غرب برای نفی این حقیقت کاری بیهوده می باشد.
جلالی در پایان با اشاره به مشکلات سوریه گفت: «هدف غرب از ایجاد بحران در سوریه چیزی جز منزوی کردن و در نهایت شکست دادن ایران نیست. ایران هدف بعدی غربی ها پس از شکست است. آنها با قرار دادن روسیه در موقعیت انغعالی تلاش می کنند تا به هدف خود دست یابند غافل از این که ایرانیان هرگز اجازه نمی دهند وچنین چیزی را برنمی تابند.»

‪١٣:٥٠‬ – 1392/03/28 / شماره : ٥٩٩٦٠٢ / تعداد نمایش : ٢٠

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BAN KI-MOON IN VISITA A PECHINO

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Il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon si trova a Pechino per una visita di tre giorni.

Il 19 giugno ha incontrato il Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping, con il quale ha discusso in particolare del conflitto siriano e del programma nucleare nord-coreano; il Segretario Onu ha adottato una linea più dura rispetto alla questione siriana, mentre Cina e Russia hanno bloccato tre volte le risoluzioni contro il regime di Bashar al Assad. Parlando del ruolo cinese sulla tutela della pace regionale, Ban Ki-moon ha apprezzato altamente il ruolo costruttivo del governo e dei leader cinesi sull’attenuazione delle tensioni nella penisola coreana.

I due rappresentanti hanno sottolineato l’importanza di una maggiore cooperazione reciprocamente vantaggiosa e dell’abbandono, dunque, del gioco a somma zero come strategia di politica estera.

Xi Jinping ha asserito che il ruolo della Cina come membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu si traduce non solo in un maggior peso politico, ma soprattutto in una gravosa responsabilità.

Pechino garantisce il supporto alle Nazioni Unite nella promozione del Millennium Development Goals, gli otto obiettivi che tutti i Paesi membri Onu si sono impegnati a raggiungere entro l’anno 2015; la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite, firmata nel settembre del 2000, impegna gli stati a:

 

1. Sradicare la povertà estrema e la fame;

2. Rendere universale l’istruzione primaria;

3. Promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne;

4. Ridurre la mortalità infantile;

5. Migliorare la salute materna

6. Combattere l’HIV/AIDS, la malaria ed altre malattie;

7. Garantire la sostenibilità ambientale;

8. Sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo.

 

Ban Ki-moon e Xi Jinping si sono focalizzati in particolar modo sulla promozione dello sviluppo sostenibile e sul mantenimento della pace e della sicurezza del sistema internazionale.

Il Segretario Onu auspica la realizzazione del “sogno cinese”, che potrebbe avere un impatto positivo sulle Nazioni Unite; apprezza il supporto e la partecipazione della Cina alle operazione di mantenimento della pace.

Il 19 giugno il Segretario Ban Ki-moon ha incontrato anche il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi, il quale ha affermato che la Cina è da sempre un sostenitore fedele all’Onu, ed ha espresso la volontà di Pechino di partecipare in maniera più attiva di modo da salvaguardare la pace, la stabilità e lo sviluppo globali.

Oggi l’incontro con il primo ministro Li Keqiang, il quale ha aggiunto che lo sviluppo e lo sviluppo sostenibile sono strettamente collegati. In qualità di maggiore paese in via di sviluppo, la Cina mette sempre lo sviluppo in posizione prioritaria, e presta sempre più attenzione allo sviluppo sostenibile.

È previsto il colloquio con altri importanti responsabili di politica estera secondo quanto annunciato dal portavoce Martin Nesirky.

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ДУГИН В КИШИНЁВЕ, ИЛИ РЕАБИЛИТАЦИЯ ТРАДИЦИОНАЛИСТСКОГО ДИСКУРСА

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17 июня 2013 г. в Кишинёве произошло событие исключительного масштаба для академической и общественной жизни нашей страны. Известный русский мыслитель, философ, социолог и геополитик Александр Дугин был специальным гостем Народного Университета. Те, кто прочёл хоть некоторые работы этого учёного международного уровня, легко поймут, что пребывание Дугина в Кишинёве обладает особой значимостью. А тот, кто имеет хотя бы общее представление о культурной географии, к которой принадлежит Александр Дугин, об объёме его трудов, переведённых на десятки языков, о множестве его публичных лекций по всему миру, проводимых на разных языках, об интеллектуальном престиже этой гигантской личности, наверняка поймёт особый смысл данного события.

Прибытие Дугина в Кишинёв с частным визитом по приглашению скромной академической инициативы, коей стал Народный Университет, который мне удалось поставить на ноги совсем недавно, является и свидетельством международного признания наших усилий, направленных на возвращение в публичную сферу христианских, традиционных и консервативных ценностей. В настоящее время, когда в Молдове доминируют две устаревшие парадигмы, коммунистическая и либеральная, а публичные дебаты сводятся к восхвалению достоинств Евросоюза, находящегося в процессе ускоренного духовоного, институционного и экономического разложения, и, с другой стороны, к культивированию ностальгии по усопшему СССР, те, кто понимает, что оба проекта мертвы в одинаковой мере, могут быть сочтены по пальцам. Правда, свидетельство о смерти СССР было оформлено еще два десятилетия назад, а ЕС пока находится в его ожидании. Но, рассматривая их в более широкой исторической перспективе, обе версии прометеевского человека, экономического детерминизма, возвышенных в ранг религии идеологий, в одинаковой мере приговорены к исчезновению. Между советским прошлым и европейским будущим, те, кто обладают глубоко духовным мировоззрением и призванием вникать в смысл истории, выбирают другой путь. Это – путь возврата к Традиции, к нашим христианским корням, к духовному объяснению этих отклонений, толкающих нас в плоскости, разрушительные для наших обществ. Коммунистический эксперимент потерпел крах раньше, чем либеральный. Среди основных причин этого провала – использование террора, идеологического прессинга и материальных ограничений. Симметричный и комплементарный по отношению к коммунизму проект, либерализм, действует более тонко, устраняя всякие ограничения, соблазняя сладкой отравой потребительства и сакрализацей денег.

Во времена, когда в нашем обществе почти все ещё оставались заложниками коммунистической иллюзии, я был среди тех, кто энергично оспаривал её. И тогда, и сегодня на меня смотрели как на эксцентрика, как на человека, потерявшего чувство реальности и даже инстинкт самосохранения, коль скоро я решился идти против общего течения и даже против режима. Что же побудило меня стать на этот путь, открыто воспротивиться режиму и доминирующей идеологии? Это было шокирующее открытие, что живу в несправедливом мире, который я отверг напрочь, без оговорок, и не имея гарантий, что в конечном итоге удастся одолеть казавшуюся всесильной власть. Однажды открывши правду, я почувствовал острую необходимость стать отрицателем. Слово «НЕТ» стало ключевым термином, которым мы руководствовались. Мы решили, что так более продолжаться не может, что натерпелись сполна. В те времена для нас единственной альтернативой была западная модель. Безусловно, в той мере, в которой мы понимали, что такое либеральная демократия, правовое государство, рыночная экономика, частная собственность и права человека. Наши публичные собрания проходили под знаком западной модели, принятый путь был безальтернативным, примерами для подражания были США и ЕС. Процесс национального возрождения основывался естественным образом на достижении права разговаривать на нашем языке и на возврате латинского алфавита. Но, в силу наших предубеждений, унаследованных от коммунистического атеизма, культура заняло место культа. И, хотя параллельно происходило наше духовное возрождение, мы учились произносить молитвы, носить иконы на наших митингах и поднимать храмы, должно было пройти еще двадцать лет для того, чтобы понять, что мы, устремившись из одной антихристианской реальности, попали в другую, ещё более враждебную Богу.

Итак, от советской версии, выдавшей нам “one way ticket” (билет в одно направление) в коммунизм на пути последовательного исторического становления, мы оказались в западной версии дороги с односторонним движением, – в либеральном глобализме. Красная химера рассеялась, но была незамедлительно заменена многоцветным миражом «общества спектакля». Мы бежали как от чумы от системы, которая угнетала нас путем насилия, а оказались в приёмной другой системы, порабощающей нас посредством соблазнов и очаровывания материальным изобилием. Сегодня наше общество еще остаётся под властью либерального мышления, пользующегося массивной поддержкой Запада. Псевдоэлиты, которые тесно заполнили государственные, политические, экономические и медийные верхи, пребывают в счастливой ипостаси бессознательных имитаторов нового течения мысли, ставшего догмой в публичном дискурсе. Старая советская номенклатура была заменена другой, ещё более деградированной. Той самой, которая сегодня вещает нам о Евросоюзе как о новом «земном Рае», который якобы ожидает нас с распростёртыми объятиями. Нам твердят о глобальном мире, в котором, якобы, осуществиться наша историческая судьба. Глубинные аспекты духовного, философского, геополитического и этносоциологического характера ускользают от довольно поверхностных интеллектуальных упражнений дежурных выступающих, застрявших в зоне психологического комфорта, столь приятного для когорты попугаев без малейшей проницательности из ряда местных VIP. В атмосфере всеобщей экзальтации в верхах общества по поводу нашей скорой и неминуемой европейской интеграции, и тотальной безнадёжности абсолютного большинства простых людей из-за лишений, несправедливости и коррупции, академический и публицистический консервативный дискурс может показаться сущим сумасшествием.

Но именно это я с настойчивостью продвигаю на курсах Народного Университета. Я пытаюсь помочь моим молодым слушателям понять, что именно с нами происходит и почему, открыть им новый горизонт мышления, основанный на трудах самых значимых румынских, русских и западных мыслителей. Преодоление интеллектуальной инерции, штампов, поверхностных интерпретаций действительности, выход из паутины массовой культуры и обыденного мышления, умственный и интеллектуальный рост являются целью моего курса «ВИДЕНИЕ». А когда мне удаётся достичь эффекта «а-ха», как говорится в искусстве общения, когда я вижу, что молодёжь улавливает с удивительной скоростью и глубиной довольно сложные темы, моей радости нет предела. Среди множества авторов, на которых я ссылаюсь на моих занятиях, есть и русский мыслитель Александр Дугин. Я не думал, что мне представится возможность познакомится с ним лично, подружиться и встретить его в качестве дорогого гостя именно в Народном Университете. Для пробуждения его интереса и интеллектуального любопытства оказалось достаточным того, что в его руки попала моя книга «Молдова – часть, которая стала целым», включающая подборку статей. Открыв для себя человека со схожими интересами, он без промедления принял моё приглашение. Удовлетворение, охватившее меня при открытии трудов Дугина, а затем и установление личного контакта с ним, могу сравнить лишь с радостью от прикосновения с работами другого крупнейшего социолога и геополитика, румынского профессора Илие Бэдеску, с которым я также имел честь познакомится. Я напомню, что именно Бэдеску написал предисловие к знаменитой работе Дугина, опубликованной несколько лет назад в Бухаресте, «Основы геополитики», единственной книги данного автора, вышедшей в свет на румынском языке.

Роман Рэиляну, координатор по развитию евразийских гуманитарных технологий, который сопровождал Александра Дугина в Кишинёве, считает, что социо-гуманитарные исследования профессора Дугина представляют собой мировоззренческое переосмысление действительности, которое преодолевает навязанные привычные клише и общепринятые штампы. Это философия, исходящая из приоритета ценности традиционного общества, предполагающая социальное строительство в каждом конкретном культурном и языковом контексте без отрыва от духовных корней. Жизнь и судьба народов – это органический процесс, не терпящий искусственного вмешательства. Молдавский традиционализм может отличаться от консерватизма русских или румын. Вместе с тем, для каждого из этих обществ духовное развитие всегда будет являться главным жизненным приоритетом, отсутствие которого не смогут компенсировать никакие экономические блага. Истинное евразийство – это принципиально новое осознание мира, чуждое слепому следованию за материалистическими идеологиями прошлого. В Молдове оно может стать ядром консолидации столь разрозненного сегодня общества. Внутренние острые противоречия и споры останутся лишь отголоском безвозвратно ушедшей короткой эпохи либерализма. Я согласился с моим московским другом и соплеменником.

Мы находимся в конце исторического цикла. А История, пока на то будет воля Божья, не предопределена. Творец одарил нас разумом, свободой, волей, проницательностью и ответственностью. И также как завершился словно кошмар «триумфальный марш Советской Власти», придёт конец и «триумфальному маршу либерального глобализма». Конечно, если только мы не останемся фаталистами, безразличными и пассивными. Возможностей для проявления тех, кто думает, страдает и посвящает себя фундаментальным ценностям, предостаточно. А под небом Родины «словно епитрахиль», как сказал бы поэт Раду Джир, достаточно места для всего нашего православного народа, вне зависимости от этнического происхождения или языка, на котором разговаривает тот или иной из нас. Мы не являемся обществом неудачников, у нас есть сердце и разум, у нас есть желание воплотить нашу судьбу. Мы ощущаем наше призвание с особой остротой именно сейчас. Кризисные времена отшлифовывают нашу чувствительность, катализируя нашу энергию.

Мы условились с профессором Александром Дугиным, что я переведу на румынский его книгу «Четвертая политическая теория», изданную уже на многих языках, и напишу предисловие к ней. А затем, надеюсь, последует и другая его работа, дополняющая первую, «Теория многополярного мира». Читатели из Республики Молдова, как румыноязычные, так и русскоязычные, должны быть ознакомлены с ними. Впрочем, как и читатели из Румынии. Таким образом, 17 июня было положено начало академическому сотрудничеству между Народным Университетом и профессором Дугиным.

В этот день у нас было четыре публичных выступления. Это – встреча с молодёжью, в которой участвовали мои воспитанники из организации «Новое Поколение» и слушатели Народного Университета, дискуссия в здании моего университета с участием известных представителей академической среды, священнослужителей, политологов, журналистов и региональных лидеров, а также две телепередачи на «Журнал ТВ» и «Публика ТВ». Прямая трансляция нашей встречи порталом www.privesc.eu в 17.00, которая продолжалась более двух часов, набрала рекордное число просмотров, более 150 000. Выражаю всем участникам этих встреч, а также коллегам из прессы, искреннюю благодарность за их интерес и открытость. Я счастлив, что радость от этих встреч была обоюдной. Профессор Дугин и публика получили особое наслаждение. Его появление в публичном пространстве нашей страны подняло дебаты на высочайший интеллектуальный уровень. Правда, некоторые дежурные комментаторы не упустили возможности уколоть моего гостя. Причины этих уколов лежат на поверхности. Само соотношение с Дугиным, даже критическое, как-то выводит их на первый план. В то же время, правда состоит и в другом. Инерция мышления и идеологические шоры, заменяющие интеллектуальную состоятельность, не позволяют им превзойти собственные предрассудки. Топтание в тусклой, фрагментарной и узкой системе координат, исходящих из модных догм доминирующего дискурса либерализма, проявилось, на сей раз, в явном контрасте с академической широтой личности мирового значения. Тот, кто предпримет минимальное усилие, открыв Wikipedia и прочитав список его монографий и учебников, которые преподаются в десятках учебных заведениях мира, сможет сформировать себе ясное представление о значимости этого крупнейшего мыслителя. Когда профессор оперирует такими именами, как Рене Генон, Юлиус Евола, Мирча Элиаде, Мартин Хайдеггер, Жак Еллул, Жан Бодрияр, Жильбер Дюран, Алэн де Бенуа или Клаудио Мутти, реплицировать ему с перспективы исторических фрустраций, либо некоторых наивностей геополитического характера или с позиции стипендиатов определённых западных вузов, финансирующих «деформаторов» общественного мнения, выглядит одновременно и дисквалифицирующе, и смешно. Столь же смешной и контрпродуктивной является и антироссийская истерия, вытекающая из нашей этноцентристской одержимости и из реальных трагедий прошлого, которые подталкивают стольких наивных людей продолжать культивировать «образ врага» в лице России и, симметрично, образ «внешнего друга» в лице ЕС и США. Все эти подходы, вытекающие из прошлого, надёжно закрепили шоры лжепатриотам и нескончаемой веренице прозападников. Известно, что когда все думают одинаково, в действительности, никто не думает. А оперировать устаревшими категориями ХIX и XX веков и воевать сегодня с исчезнувшими царской и советской империей, значит оставаться пленником окончательно просроченного видения.

Те, кто застрял во вчерашнем концептуальном болоте, возможно, смогли бы понять чуть больше о новых реалиях, если бы задались вопросом, почему, например, Франция, Германия или Италия имеют отличные политические и экономические отношения с Россией. Продолжать довольствоваться незавидной ролью санитарного кордона, установленного американцами в зоне Восточной и Центральной Европы, которая включает в себя и некоторые новые независимые государства бывшего СССР, по меньшей мере, наивно, но и опасно для наших национальных интересов. А не видеть в лице европейской бюрократии и в лице американских групп финансового, политического, медийного и военного влияния реальную опасность десуверанизации страны, экономической, культурной и информационной колонизации, означает не понимать почему мы становимся всё беднее, несмотря на «историю успеха», выдуманную европейскими комиссарами для пользования местных дураков. И не осознавать истинных причин «массового кочевничества», которое превращает нашу страну в общество на грани исчезновения, означает смириться с ролью бессознательной жертвы, добровольно шагающей в бездну нового коминтернизма. Сколькие из тех, кто топчутся в публичном пространстве и пустословят каждый вечер с экранов телевизоров, слышали о том, что былого капитализма более не существует, что он стал спекулятивным, что виртуальные деньги преобладают над производством, что свободный обмен выгоден лишь крупным транснациональным компаниям? И что социального государства на Западе больше не существует, что профсоюзы теряют своё значение в развитых странах, что капитал переродился в наднациональный и кочевнический, что не международные организации, а транснациональные корпорации правят миром, что в Европе и Америке то, что представляло собой средний класс разлагается с небывалой скоростью, что фантастическая концентрация капитала превращает богатых в ещё более богатых, а бедных в ещё более бедных. Сколькие из политических игроков и комментаторов (о политических мыслителях и речи быть не может в наших краях!) осознают, что тем, что они творят и декларируют, они превращаются, по сути, в «слепых пилотов», как сказал бы Элиаде? Совсем немногие. И если незнание простительно рядовому человеку, оно становится опасным, когда пронизывает саму суть псевдоэлиты, оторванной от собственного народа, от его традиции, религии и нужд. Великий румынский социолог Димитрие Густи называл этот разрыв между массами и административными верхами «конфликтом между государством и нацией».

Разве не очевидно, что наша страна, как, впрочем, и все страны нашего региона и большинство стран мира, подвергается массированному процессу десуверанизации и подчинения стратегическим интересам политического, экономического и культурного толка центрами влияния из США? Именно сети, базирующиеся в США, стремятся создать однополярный мир под их контролем, а кто игнорирует эту истину – либо слепец, либо их наймит. Давайте проведём небольшое сравнение. Подобно тому, как большевики, архитекторы СССР, разрушили и поработили сначала русский народ, а затем – другие народы, оказавшиеся под доминированием антинационального и репрессивного режима, контролируемого кликой догматических авантюристов, сегодня олигархические группы, поработив американский народ, принялись подчинять своим интересам другие страны и народы мира. Для коммунизма военные методы были привычными орудиями порабощения, а сегодня, чаще всего – невоенные. Вместо штыков и танков, используемых большевицким режимом, пущены в ход инструменты ростовщического капитализма, пропаганды и впрягания коррумпированных элит стран-мишеней в телегу нового империализма. Конечно, когда возникает необходимость, и военная сила применяется колонизаторами в полной мере. Между советским и американским империализмом различия незначительны. Они относятся лишь к типу риторики и методов. Однако, цель та же – подчинение мира под предлогом мессианской универсальной идеологии. А большевицкий принцип «Кто не с нами, тот против нас!» (Вот пример конвертирования Слова Божьего дьявольским интересам слуг тьмы!) перешел почти естественным и незаметным образом из коммунистического арсенала в глобалистский. С этой точки зрения, советский коммунизм и американский глобализм являются братьями-близнецами. Речь идёт о тоталитарных идеологиях, стремящихся покорить мир, с использованием парарелигиозных политических теорий.

Советский коммунизм уже умер. Американский глобализм – ещё нет. Мы боролись против первого. Сегодня настало время устоять перед вторым. Как и тогда в качестве мишени выбраны наша вера, культура, традиция, семья и наше будущее, но в особенности наш шанс осмыслить глубину человеческого бытия и его ответственности перед Богом. А Александр Дугин и другие светлые умы являются нашими союзниками духа, веры и действия. Тем, кто ещё сомневается, что дела обстоят именно так, и что реалии в Америке и в Европе совсем другие, чем показывают нам, а сравнение, которое я провожу между советским коммунизмом и западным потребительством нисколько не преувеличены, думаю, было бы полезным почитать ряд релевантных в этом смысле авторов. Русские Иван Ильин, Александр Солженицын и Александр Дугин, американцы Пол Готтфрид, Дэвид К. Кортен и Виллиям Грейдер и южнокореец Ха Жун Чанг могли бы помочь наведению порядка в умах многих из нас.

Всякий схематический подход и чёрно-белое видение противопоказаны проведению глубокого анализа. С этой точки зрения, нахождение Дугина в Кишинёве можно рассматривать и как сеанс коллективной психотерапии, способный помочь нам одолеть старые фрустрации, румынофобию и русофобию. Его любовь к румынской культуре, глубокое знание румынской философии, Мирчи Элиаде, Нае Ионеску, Лучиана Блага и многих других являются в этом смысле показательными. С другой стороны, тот, кто, вместо того, чтобы дорожить традицией и истинной культурой, аплодирует, заодно с извращенцами из внешних групп влияния, однополым бракам, гомосексуализму, гей-парадам и ритуальным выходкам «Пусси Райот» в Храме «Христа Спасителя» из Москвы, является либералом. А отвергающий всё это – человек нормальный. Возрастающие и всё более коварные давления извне заставляют нас искать идейных собратьев. В конечном счёте, два великих явления творят историю – идея и воля. Всё остальное – суета.

Молдова нуждается в усилении нового течения мысли – традиционного, консервативного, христианского. А две главенствующие идеи – одна метафизическая, а другая физическая – взаимосвязаны. Это – религиозная вера и экономическое возрождение. То есть, духовная реальность, которая всегда главенствует, определяет материальную реальность. Если мы наведём порядок в наших душах, в системе ценностей, которые исповедуем, мы сумеем навести порядок и в нашем хозяйстве, в экономике. Наша духовная и интеллектуальная независимость определит нашу политическую и экономическую независимость. А тот, кто обладает менталитетом вассала, кто является носителем синдрома аппендикса крупных держав, кто пытается постелить наши национальные интересы под ноги циклопических структур извне, от которых ожидает решения наших проблем, глубоко заблуждается. Кто боится или обжигается от прямого диалога с людьми размаха Дугина, видя в нём представителя русского империализма, страдает острой интеллектуальной недальновидностью, как и достойной сожаления геополитической близорукостью.

Влияние румынской и русской культуры на Молдову следует обернуть в преимущество, в слияние, которое не испортит, а напротив, отшлифует и укрепит идентитарный профиль нашего общества. Противоречия и исторические противостояния между этими двумя странами должны быть трансформированы в духовные и культурные созвучия, а геополитическое соперничество и ревность должно быть преобразовано в комплементарность интересов трех стран и наций. Мы не являемся более ни окраиной царской империи, ни восточной частью Великой Румынии, ни советской республикой. И если у нас или в двух столицах, Москве и Бухаресте, для некоторых мы являемся лишь временно потерянной территорией, предназначенной для возвращения под администрацию одной из них, мы и никто иной, путём наших культурных, политических и экономических достижений, посредством нашей дипломатии и наших элит, должны показать, что эта земля – наша, наших мёртвых, всех тех, кто родился здесь, и нашего потомства. А исторические родины рассматриваются нами сегодня с одинаковым уважением и вниманием, но и с достоинством. Мы не будем практиковать ни кичливость, ни послушание. Мы впитаем с одинаковой жаждой обе культуры и создадим своим трудом ценности, достойные быть отмеченными как дома, так и в соседних странах. Великолепие народа не измеряется его географическими просторами и не имперскими претензиями, а вкладом в ценности мира. Кто же обладает комплексом человека, принадлежащего к народу второго сорта, агрессивного или покорного, несёт лишь вред своей стране.

До скорого, дорогой друг Александр Дугин! Я твёрдо верю в судьбу моей страны, в её уникальное призвание и в её достойное место в мире симфонии между народами, культурной и идентитарной полифонии, взаимодополняемости между странами и нациями, которые будут сравниваться не столько в цифрах и военном потенциале, сколько в достижениях ума и творчества. В однополярном мире есть место только для одного хозяина и множества лакеев. А в многополярном мире есть достойное место для каждого народа. Молдова может и должна участвовать в глобальном процессе геополитической реконфигурации мира. Как зрелый, достойный субъект, способный сыграть свою уникальную роль во взаимодействии с другими народами.

Юрий Рошка,

Кишинёв, 19 июня 2013

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DUGHIN LA CHIŞINĂU SAU REABILITAREA DISCURSULUI TRADIŢIONALIST

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La 17 iunie 2013, la Chişinău, s-a produs un eveniment de primă importanţă, de o anvergură cu totul excepţională pentru lumea academică şi pentru viaţa publică a ţării noastre. Celebrul gânditor rus, filozoful, sociologul şi geopoliticianul Aleksandr Dughin a fost oaspetele special al Universităţii Populare. Cine a reuşit să citească măcar unele lucrări ale acestui savant de calibru internaţional, realizează fără greutate că aflarea lui Dughin la Chişinău poartă o încărcătură deosebită. Iar cine are măcar o cât de vagă închipuire asupra geografiei culturale căreia îi aparţine, asupra volumului lucrărilor traduse în zeci de limbi, a multitudinii de conferinţe ţinute în cele mai diverse limbi peste tot în lume, asupra prestigiului intelectual al acestei personalităţi uriaşe, în mod cert înţelege că evenimentul de acum câteva zile este unul de o semnificaţie cu totul aparte.

Prezenţa lui Dughin la Chişinău, în vizită privată la invitaţia unei modeste iniţiative academice cum este Universitatea Populară, pe care am pus-o pe picioare relativ recent, este şi o dovadă a recunoaşterii internaţionale a efortului nostru de readucere în circuitul public a valorilor creştine, tradiţionale şi conservatoare. În timp ce Moldova e dominată de două paradigme depăşite, comunistă şi liberală, iar dezbaterea publică se reduce la exaltarea virtuţilor unei Europe aflate într-un proces vertiginos de dezagregare spirituală, instituţională şi economică, iar pe de altă parte, la cultivarea unor nostalgii după defuncta URSS, cei care pricep că ambele proiecte sunt moarte în egală măsură pot fi număraţi pe degete. Este adevărat, URSS îşi are actul de deces eliberat încă acum două decenii, iar UE este doar în aşteptarea lui. Dar, privite dintr-o perspectivă istorică mai largă, cele două versiuni ale omului prometeic, ale determinismului economic, ale ideologiilor ridicate la rang de religie sunt condamnate, în egală măsură, la dispariţie. Între trecutul sovietic şi viitorul european, cei care au un sistem de referinţă profund spiritual şi au vocaţia să desluşească sensul istoriei aleg o altă cale. Este calea revenirii la Tradiţie, la originile noastre creştine, la interpretarea spirituală a acestor deviaţii care ne împing în zone devastatoare pentru societăţile noastre. Experimentul comunist a eşuat mai repede decât cel liberal. Printre motivele de bază ale acestui eşec sunt utilizarea terorii, a constrângerilor ideologice şi a lipsurilor materiale. Proiectul simetric şi complementar comunismului – liberalismul, acţionează mai subtil, prin seducţie, prin înlăturarea oricăror limite, prin dulcea otravă a consumismului şi prin sacralizarea banilor.

Atunci când mai toată lumea de la noi încă mai era captiva iluziei comuniste, am fost printre cei care am contestat-o energic. Şi atunci eram privit ca un excentric, ca un teribilist, ca o persoană fără simţul realului şi chiar fără instinctul autoconservării, de vreme ce mă expuneam riscului de a merge contra curentului general şi contra regimului. Dacă e să mă întreb astăzi ce m-a făcut atunci să îmbrăţişez această cale şi să mă opun pe faţă regimului şi ideologiei dominante, aş putea spune că a fost şocul descoperirii că trăiesc într-o lume strâmbă, pe care am respins-o total, fără rest şi fără a avea garanţia că, până la urmă, se va reuşi înfrângerea puterii care părea invincibilă. Odată descoperind adevărul, am simţit nevoia acută să devin un contestatar. Cuvântul „NU” a fost termenul-cheie care m-a ghidat. Am spus că aşa nu se mai poate, că am rătăcit şi am răbdat destul. Pe atunci singura alternativă pentru noi era modelul occidental. Desigur, în măsura în care realizam ce înseamnă o democraţie liberală, un stat de drept, o economie de piaţă, proprietate privată şi drepturile omului. Reuniunile noastre publice se desfăşurau sub semnul occidentalizării, drumul îmbrăţişat era unul fără alternativă, modele demne de urmat erau SUA şi UE. Procesul de renaştere naţională se axa, în mod firesc, pe redobândirea dreptului de a ne vorbi limba şi de a ne recupera alfabetul latin. Însă, din cauza handicapurilor noastre moştenite din ateismul comunist, cultura ţinea loc de cult. Şi chiar dacă în paralel se producea şi renaşterea noastră spirituală, învăţam să rostim rugăciuni, să purtăm icoane la mitingurile noastre şi să reconstruim biserici, a trebuit să treacă douăzeci de ani ca să putem desluşi adevărul că am plonjat dintr-un univers anticreştin în altul şi mai potrivnic lui Dumnezeu.
Aşadar, de la versiunea sovietică, care ne procurase „one way ticket” (bilet într-o singură direcţie) spre comunism pe calea devenirii istorice inexorabile, ne-am pomenit în versiunea occidentală a drumului cu un singur sens, cel al liberalismului globalizant. Himera roşie s-a spulberat, dar a fost înlocuită fără întârziere de mirajul multicolor al „societăţii spectacolului”. Am fugit ca de ciumă de un sistem dizolvant, care ne oprima prin constrângere, şi ne-am pomenit în anticamera altui sistem, care-şi propune să ne subjuge prin tentaţie şi prin fascinaţia abundenţei materiale. Astăzi societatea noastră încă mai este dominată de curentul liberal, susţinut masiv dinspre Occident. Falsele elite care populează dens ierarhiile de stat, politice, economice şi mediatice sunt fericite în postura de imitatori inconştienţi ai noului curent de opinie, devenit o dogmă obligatorie în discursul public. Vechea nomenclatură sovietică a fost succedată de alta, şi mai venală, cea care astăzi profetizează un alt „Paradis terestru” – o Uniune Europeană care ne-ar aştepta cu braţele deschise şi o lume globalizată în care să ne realizăm destinul istoric. Subiectele mai profunde de ordin spiritual, filozofic, geopolitic şi etnosociologic, de cele mai multe ori, scapă exerciţiului intelectual destul de superficial al „directorilor de opinie”, cantonaţi în zona de confort psihologic, atât de gustat de cohorta de papagali fără discernământ din topul VIP-urilor locale. Într-o atmosferă de exaltare cvazigenerală la vârfurile societăţii, pe motivul iminentei noastre integrări europene, şi de disperare generală a majorităţii oamenilor simpli din cauza lipsurilor, nedreptăţilor şi corupţiei, un discurs academic şi publicistic conservator pare a fi o curată nebunie.

Dar anume asta insist să fac în cadrul Universităţii Populare. Caut să ajut tinerii mei cursanţi să desluşească mai bine ce ni se întâmplă şi de ce, să le deschid un alt orizont de gândire, bazat pe opera celor mai de seamă gânditori români, ruşi şi occidentali. Depăşirea inerţiei, a clişeelor, a interpretărilor superficiale ale realităţii, ieşirea din mrejele culturii de masă şi ale gândirii comune, devenirea intelectuală şi spirituală sunt ţintele cursului meu ce ţine de compartimentul „VIZIUNE”. Iar atunci când, aşa cum se spune în arta comunicării, reuşesc să obţin efectul „a-ha”, atunci când văd cum tinerii prind cu o viteză şi o profunzime uimitoare subiecte de o complexitate deosebită, bucuria mea este una totală. Printre multitudinea de autori de primă mărime la care mă refer în lecţiile mele este şi gânditorul rus Aleksandr Dughin. Nu credeam vreodată că voi apuca să îl cunosc personal, să mă împrietenesc cu el şi să-l am drept oaspete drag chiar la Universitatea Populară. A fost suficient să ajungă în mâinile lui ultima mea carte „Moldova – partea care a devenit întreg”, ce înmănunchează o serie de articole de presă, pentru a-i trezi interesul şi curiozitatea intelectuală. Deschiderea lui pentru cineva care are preocupări similare l-a făcut să accepte dintr-o dată invitaţia mea. Aş putea compara satisfacţia descoperirii operei lui Dughin şi apoi stabilirea unei relaţii personale cu el doar cu bucuria pe care mi-a produs-o contactul cu opera unui alt mare sociolog şi geopolitician, profesorul român Ilie Bădescu, pe care, de asemenea, am avut onoarea să-l cunosc personal. Aş aminti că anume Bădescu este cel care a scris prefaţa la renumita carte a lui Dughin, apărută acum câţiva ani la Bucureşti, „Bazele Geopoliticii”, singurul volum al acestui autor editat până acum în limba română.

Roman Răileanu, coordonator pentru dezvoltarea tehnologiilor umanitare eurasiatice, care l-a însoţit pe Aleksandr Dughin la Chişinău, e de părerea că cercetările socioumane ale profesorului reprezintă o reconsiderare a realităţilor, care depăşeşte clişeele de gândire obişnuite. Este o filozofie care izvorăşte din valorile societăţii tradiţionale, ce presupune dezvoltarea colectivităţilor în contextul religios, cultural şi lingvistic, fără ruperea lor de rădăcinile spirituale. Viaţa şi soarta popoarelor este un proces ce nu suportă intervenţii artificiale. Tradiţionalismul moldovenesc s-ar putea deosebi de conservatorismul rusesc sau românesc. Totodată, pentru fiecare dintre aceste societăţi dezvoltarea spirituală va reprezenta întotdeauna prioritatea vitală numărul unu, a cărei lipsă nu va putea fi compensată de nicio binefacere economică. Adevărata gândire eurasiatică reprezintă o nouă conştientizare a lumii, în special pentru cei tineri, ea fiind străină de înregimentarea în ideologiile materialiste ale trecutului. Iar conservatorismul luminat poate deveni în Moldova un element-cheie de consolidare a societăţii, atât de răzleţite astăzi. Contradicţiile acute, ce marchează azi societatea moldovenească, vor rămâne doar ca un ecou al scurtei epoci liberale pe care o traversăm în prezent. I-am dat dreptate prietenului şi conaţionalului meu de la Moscova.
Ne aflăm la sfârşit de ciclu istoric. Iar Istoria, atâta cât va îngădui Dumnezeu, nu este una predeterminată. Creatorul ne-a înzestrat cu raţiune, cu libertate, cu voinţă, cu discernământ şi răspundere. Şi aşa cum s-a spulberat ca un coşmar „marşul triumfal al Puterii Sovietice”, tot astfel se va consuma şi „marşul triumfal al globalismului liberal”. Desigur, dacă nu vom rămâne fatalişti, indiferenţi şi pasivi. Loc de manifestare pentru cei care gândesc, suferă şi se dedică unor valori fundamentale este destul. Iar sub cerul Patriei „ca un patrafir”, cum ar zice Radu Gyr, este loc pentru întregul nostru popor ortodox, indiferent de originea etnică sau limba în care vorbeşte unul sau altul dintre noi. Nu suntem o colectivitate de rataţi, avem inimă, minte şi dorinţă de a ne împlini destinul. Ne simţim vocaţia mai acut tocmai acum, în vremurile de criză ce ne şlefuiesc sensibilitatea şi ne catalizează energiile.

Am convenit cu profesorul Aleksandr Dughin că îi voi traduce în română şi voi prefaţa lucrarea apărută deja într-o mulţime de limbi, „A patra teorie politică”. Iar după ea sper să urmeze şi o lucrare complementară acesteia – „Teoria lumii multipolare”. Cititorii din Republica Moldova, atât de limbă română, cât şi de limbă rusă, trebuie familiarizaţi cu ele. Ca, de altfel, şi cei din România. Astfel, începând cu ziua de 17 iunie, colaborarea academică dintre Universitatea Populară şi profesorul Dughin şi-a luat startul.
În această zi am avut patru apariţii publice comune: o întâlnire cu tineretul, la care au participat discipolii mei din organizaţia „Noua Generaţie” şi cursanţii Universităţii Populare, o discuţie la sediul universităţii mele, cu prezenţa unor personalităţi marcante din lumea academică şi universitară, feţe bisericeşti, politologi, jurnalişti şi lideri regionali, precum şi două apariţii televizate la „Jurnal TV” şi la „Publika TV”. Transmisiunea în direct pe portalul www.privesc.eu a întâlnirii de la ora 17.00, care a durat peste două ore, a acumulat un număr-record de peste 150 000 de accesări. Le aduc pe această cale tuturor participanţilor la aceste întâlniri, ca şi colegilor din presă, sincere mulţumiri pentru interesul şi deschiderea lor. Sunt fericit că bucuria a fost reciprocă. Atât profesorul Dughin, cât şi publicul au trăit momente de o aleasă satisfacţie. Apariţia lui în spaţiul public din ţara noastră a reuşit să ridice ştacheta dezbaterilor la un nivel intelectual deosebit de înalt. Este adevărat, unii comentatori de serviciu n-au scăpat prilejul să înţepe oaspetele meu. Cauzele acestor înţepături sunt la suprafaţă. Însăşi raportarea la Dughin, chiar şi critică, îi scoate cumva în prim-plan. Dar, în egală măsură, este adevărat şi altceva. Inerţia de gândire şi clişeele ideologice, ce le ţin loc de eşafodaj intelectual, nu le-a permis să facă un efort de depăşire a propriilor prejudecăţi. Bălăcirea într-un sistem de referinţă opac, fragmentar şi autosuficient, pliat pe dogmele în vogă ale discursului dominant al liberalismului prost înţeles, a apărut de această dată într-un contrast izbitor cu anvergura academică a unei personalităţi de talie universală. Cine va face măcar un minim efort să parcurgă cel puţin lista monografiilor şi a manualelor acestuia, accesând Wikipedia, studiate azi în zeci de universităţi ale lumii, îşi va face o impresie mai bună despre calibrul acestui gânditor de primă mărime. Iar atunci când profesorul operează cu autori ca Rene Guenon, Julius Evola, Mircea Eliade, Martin Heidegger, Jaques Ellul, Jean Baudrillard, Gilbert Durand, Alain de Benoist sau Claudio Mutti, a-i replica din perspectiva unor frustrări istorice, a unor naivităţi de ordin geopolitic sau din poziţia de simbriaşi ai unor instituţii occidentale finanţatoare de „(de)formatori de opinie” este deopotrivă descalificant şi ridicol. Cum ridicole şi contraproductive sunt şi isteriile antiruseşti, izvorâte din obsesiile noastre etnocentriste şi din tragediile reale din trecut, care ghidează atâţia naivi de duzină să cultive în continuare imaginea „duşmanului extern” în persoana Rusiei şi, simetric, al „amicului extern” în persoana UE şi SUA. Toate aceste abordări paseiste menţin ochelarii de cai bine fixaţi pe figurile patrioţilor de mucava şi a prooccidentalilor înseriaţi. Se ştie bine că, atunci când toţi gândesc la fel, de fapt, nimeni nu gândeşte. Iar a opera azi cu categorii consumate în secolele XIX şi XX şi a lupta din răsputeri cu defunctele imperii, ţarist şi sovietic, înseamnă a rămâne prizonier al unei optici expirate definitiv.

Cei care se ambiţionează să rămână în căruţa conceptuală de ieri poate ar înţelege un pic mai mult despre noile realităţi dacă s-ar întreba de ce azi Germania, Franţa sau Italia, de pildă, au cele mai bune relaţii politice şi economice cu Rusia. A ne complace în continuare în rolul ingrat de parte a cordonului sanitar instalat de americani în zona Europei Centrale şi de Răsărit, care include şi o parte a noilor state independente din fosta URSS, este cel puţin naiv, dar şi periculos pentru interesele noastre naţionale. Iar a nu vedea în birocraţia europeană şi în grupurile de influenţă financiară, politică, mediatică şi militară americane riscuri reale de desuveranizare a ţării, de colonizare economică, culturală şi informaţională, înseamnă a nu înţelege de ce suntem din ce în ce mai săraci cu tot cu „povestea de succes” inventată de comisarii europeni pentru uzul proştilor de la noi. Şi a nu realiza cauzele reale ale „nomadismului în masă”, ce transformă ţara noastră într-o societate pe cale de dispariţie, înseamnă a accepta postura de victimă inconştientă care merge de bună voie în hăul ademenitor al noului cominternism. Câţi dintre cei care se înghesuie în spaţiul public şi ne vrăjesc de la televizor în fiecare seară au auzit despre faptul că ceea ce reprezenta capitalismul de altă dată nu mai există, că acesta a devenit speculativ, că banii virtuali domină producţia, că liberul schimb e doar în favoarea marilor companii transnaţionale? Şi că statul social nu mai există nici în Occident, că sindicatele îşi pierd orice valoare în ţările tradiţional dezvoltate, că banii au devenit apatrizi şi flotanţi, că nu organismele internaţionale, ci corporaţiile transnaţionale conduc lumea, că în Europa şi America ceea ce era clasa de mijloc se dezagreghează vertiginos, că fantastica concentrare de capital îi transformă pe cei bogaţi în şi mai bogaţi, iar pe cei săraci în şi mai săraci. Câţi dintre actorii şi comentatorii politici (pentru că de gânditori politici nici vorbă nu poate fi pe la noi!) realizează că, prin ceea ce fac şi prin ceea ce enunţă în spaţiul public, ei se transformă, de fapt, în nişte „piloţi orbi”, ca să-l citez din nou pe Eliade? Prea puţini, în mod evident. Şi dacă neştiinţa e o scuză pentru un om de rând, ea devine periculoasă atunci când este apanajul unei false elite, rupte de propriul popor, de tradiţia, de religia şi de nevoile ei. Marele sociolog român Dimitrie Gusti numea această ruptură între mase şi ierarhiile administrative „conflictul dintre stat şi naţiune”.
Cine nu vede că ţara noastră, ca, de altfel, şi toate ţările din regiune şi majoritatea ţărilor lumii, este supusă unui masiv proces de desuveranizare şi de subordonare unor interese strategice, de ordin politic, economic şi cultural de către grupurile de influenţă din SUA? Anume reţelele bazate în SUA se ambiţionează să instituie o lume unipolară sub dominaţia lor, iar cel care ignorează acest adevăr ori e orb, ori tocmit de acestea. Să facem un exerciţiu de comparaţie. Aşa cum bolşevicii sovietici, artizanii URSS, au distrus şi au subjugat mai întâi poporul rus şi doar după aceea alte popoare, care s-au pomenit sub dominaţia unui regim antinaţional şi opresiv, controlat de o clică de aventurieri dogmatici, astăzi poporul american a căzut sub dominaţia unor oligarhii şi grupuri de interese, care recurg la subjugarea altor ţări şi popoare. Sub comunism, instrumentele predilecte de înrobire erau cele militare, acum, de cele mai multe ori, nonmilitare. Astăzi, în locul baionetelor şi al tancurilor folosite de regimul bolşevic, sunt utilizate instrumentele capitalismului cămătăresc, ale propagandei şi ale înhămării elitelor corupte din ţările-ţintă la carul noului imperialism. Desigur, când e cazul, şi forţa armată e aplicată din plin de către colonizatori. Între colonialismul sovietic şi cel american diferenţele sunt minime. Ele ţin de tipul de retorici şi de metode. Ţinta e aceeaşi – subjugarea lumii sub pretextul unei ideologii mesianice universaliste. Iar principiul bolşevic „Cine nu e cu noi este împotriva noastră!” (iată o convertire diabolică a Cuvântului Mântuitorului la interesele servanţilor întunericului!) a trecut în mod firesc şi aproape pe neobservate din discursul comunist în cel globalist. Comunismul sovietic şi globalismul american sunt, din acest punct de vedere, fraţi gemeni. Este vorba de două ideologii totalitare ce tind să cucerească lumea uzând teorii politice parareligioase.

Comunismul sovietic a murit. Globalismul american încă nu. Am luptat împotriva primului. Astăzi e timpul să rezistăm în faţa celui de-al doilea. Pentru că şi de această dată se ţinteşte în credinţa noastră, în cultura noastră, în tradiţiile noastre, în independenţa noastră, în familiile noastre, în viitorul nostru, dar, mai ales, în şansa noastră de a înţelege rosturile profunde ale omului şi răspunderea lui faţă de Dumnezeu. Iar Aleksandr Dughin şi alte minţi luminoase de pretutindeni sunt aliaţii noştri în duh, în credinţă şi în acţiune. Pentru cei care mai au îndoieli că lucrurile stau anume aşa şi că realităţile din America şi Europa sunt mult mai crude decât ne sunt prezentate, iar comparaţia pe care o fac între comunismul sovietic şi consumismul occidental e perfect valabilă, cred că ar fi util să facă nişte lecturi în plus, parcurgând autori relevanţi în acest sens. Ruşii Ivan Ilin, Aleksandr Soljeniţân şi Aleksandr Dughin, americanii Paul Gottfried, David C. Korten, William Greider şi sud-coreeanul Ha Joon Chang ar fi doar câţiva dintre cei care ar putea limpezi minţile multora dintre noi.
Orice abordare schematică, în alb şi negru, este contraproductivă într-un efort de analiză. Din această perspectivă, aflarea lui Dughin la Chişinău este şi ca o şedinţă de psihoterapie colectivă, ce ne poate ajuta să depăşim frustrările noastre mai vechi, românofobia şi rusofobia. Dragostea lui pentru cultura românească, cunoaşterea profundă a filozofiei româneşti, a lui Mircea Eliade, Nae Ionescu, Lucian Blaga şi a atâtor altora este semnificativă în acest sens. Pe de altă parte, cine, în loc să ţină la tradiţie şi la adevărata cultură, aplaudă, alături de perversele grupuri de influenţă din exterior, căsătoriile unisex, homosexualitatea, paradele gay-lor şi exhibiţiile ritualice ale grupului „Pusy Riots” în Catedrala „Hristos Mântuitorul” de la Moscova este liberal, iar cine le dezaprobă este un om normal. Presiunile din afară, tot mai perfide şi mai insistente, ne determină să căutăm confraţi de idei. Două fenomene mari, până la urmă, fac istoria: ideea şi voinţa. Restul e deşertăciune.

Moldova are nevoie de fortificarea unui nou curent de opinie: tradiţionalist, conservator, creştin. Iar cele două idei directorii – una metafizică şi cealaltă fizică – sunt complementare: credinţa religioasă şi renaşterea economică. Adică planul spiritual, ce primează întotdeauna, determină planul material. Dacă vom face ordine în sufletele noastre, în setul de valori pe care le împărtăşim, vom reuşi să facem ordine şi în gospodăria noastră, în economie. Independenţa noastră spirituală şi intelectuală va determina independenţa noastră politică şi economică. Iar cine are mentalitate de vasal, cine are sindromul de apendice al celor mari, cine caută să aştearnă interesele noastre naţionale sub picioarele unor structuri ciclopice din exterior, de la care aşteaptă rezolvarea problemelor noastre, greşeşte amarnic. Cine se teme ori se frige de un dialog direct cu oameni de talia lui Dughin şi vede în el un exponent al imperialismului rus, acela suferă de o acută cecitate intelectuală, dar şi de o miopie geopolitică regretabilă.
Influenţa culturii române şi a culturii ruse asupra Moldovei trebuie convertită într-un avantaj, într-o confluenţă care să nu ştirbească, ci să şlefuiască şi să întărească profilul identitar al colectivităţii noastre. Contradicţiile şi confruntările istorice dintre cele două ţări trebuie transformate în consonanţe spirituale şi culturale, iar rivalităţile şi geloziile reciproce de ordin geopolitic trebuie redimensionate în complementarităţi de interese între cele trei ţări şi naţiuni. Noi nu mai suntem nici periferia Imperiului ţarist, nici partea răsăriteană a României Mari, nici republică sovietică. Iar dacă din interior sau din cele două capitale, Moscova şi Bucureşti, pentru unii noi suntem doar o zonă recuperabilă, un teritoriu pierdut provizoriu şi bun de readus sub administraţia uneia dintre ele, noi înşine, prin performanţele noastre culturale, politice şi economice, prin diplomaţia şi prin elitele noastre, avem datoria să arătăm că acest pământ este doar al nostru, al morţilor noştri, al celor născuţi aici, ca şi al urmaşilor noştri. Iar patriile noastre istorice, vitrege sau drepte, după caz, sunt privite astăzi de noi cu egal respect şi consideraţie, dar şi cu demnitate. Nu vom practica nici aroganţa, dar nici docilitatea, vom absorbi cu egală sete cele două culturi şi vom produce noi înşine valori demne de remarcat atât acasă, cât şi în ţările vecine. Splendoarea unui popor nu se măsoară în întinderi geografice şi nici în veleităţi imperiale, ci în contribuţia la valorile lumii. Iar cine are complexe de persoană care face parte dintr-un popor de mâna a doua, ba agresiv, ba obedient, nu face decât să dezavantajeze propria ţară.

Pe curând, dragă prietene Aleksandr Dughin. Cred cu tărie în destinul ţării mele, în vocaţia ei unică şi în locul ei de cinste într-o lume a simfoniei dintre popoare, a polifoniei culturale şi identitare, a complementarităţii şi echilibrului între naţiuni, care să se măsoare nu atât în cifre sau potenţial militar, cât în performanţe ale minţii şi ale creativităţii. Într-o lume unipolară există loc doar pentru un stăpân şi mai mulţi lachei. Dar într-o lume multipolară e loc de cinste pentru fiecare neam. Moldova poate şi trebuie să participe la procesul global de reconfigurare geopolitică a lumii. Ca un actor matur, demn şi capabil să-şi onoreze rolul său inconfundabil în interacţiune cu alte neamuri.

Chişinău, 19 iunie 2013

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