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Channel: eurasia geopolitica – Pagina 61 – eurasia-rivista.org
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“PER UN CASCO DI BANANE”. LIBERTÁ E REALPOLITIK

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Nel suo Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (2007), Luciano Canfora sostiene che la propagazione dei valori universali della libertà e della democrazia non è possibile. Storico dell’antichità e filologo classico, Canfora è uno degli studiosi più autorevoli a livello internazionale nel campo degli studi dell’antichità classica. Tuttavia egli si dedica anche allo studio della storia contemporanea, con una particolare attenzione alla dimensione politica. Il problema principale che si frappone fra i valori e la loro realizzazione è costituito dagli interessi degli stati che si fanno paladini del processo di esportazione. Come spiega chiaramente Canfora, fino a questo momento gli stati che si sono mossi in difesa di altre realtà in balia di conflitti hanno agito solamente quando entravano in gioco fattori politici ed economici che potevano essere utilizzati a loro vantaggio. Fatto ancor più grave, le potenze che scendono in campo a fianco di coloro che vengono fatti oggetto di soprusi si nascondono dietro la bandiera della salvaguardia della libertà per legittimare quelle che sono nella maggior parte dei casi meri atti di conquista. Canfora sostiene quindi una tesi realpolitica nei confronti dell’esportazione della democrazia. Il realismo politico concepisce la politica come una «…lotta che ha come fine il potere e come mezzo la forza»1.

Nonostante sia un “ismo”, non possiamo parlare del realismo politico come una ben precisa ideologia, date le diverse sfaccettature che lo caratterizzano. Inoltre il realismo nasce proprio come critica alle ideologie che, secondo i realisti, non fanno che distogliere l’attenzione dalle necessità primarie che devono governare lo stato e chi ne è a capo. La politica è una lotta fra realtà e apparenza e il realismo si preoccupa di far convergere questi due ambiti diversi per ottenere la sopravvivenza dello stato, dando maggiore importanza però alla dimensione pratica della politica. Questa tesi pone le sue basi nella generale sfiducia nutrita dai realisti nei confronti dell’uomo e del principio di eguaglianza che dovrebbe eliminare ogni distinzione e appianare ogni divergenza. L’uomo è considerato come intrinsecamente dedito alla ricerca del benessere personale anche a  scapito di quello dei suoi simili. Allo stesso modo gli stati devono dedicarsi alla ricerca delle condizioni della loro sopravvivenza senza preoccuparsi eccessivamente di mantenere la pace e la collaborazione a livello internazionale. La natura relativa di tutte le creazioni dell’uomo, anche a livello ideale, costringe in uno stato di relatività anche quelle conquiste che sono da sempre considerate come intoccabili e universali, come la giustizia, la legge e perfino la stessa ragione umana. Le basi della filosofia politica sono così scardinate e cedono il passo ad un approccio alla politica che si basa sull’osservazione scientifica del passato e del presente al fine di elaborare le condizioni che garantiscano la sopravvivenza di una comunità. Nell’analisi storica del realista politico hanno grande spazio anche il caso e i bisogni primari degli esseri umani.

La conseguenza più immediata di questo approccio è la delineazione di uno spazio riservato alle relazioni internazionali dominato dall’utilizzo della guerra come unico strumento per garantire la sicurezza e la pace. Di conseguenza le ragioni addotte per giustificare gli interventi militari, come l’esportazione della libertà, sono in realtà motivazioni di facciata atte a mascherare il proprio desiderio di supremazia. Il realismo politico esiste da sempre, anche se molti ne ignorano le dinamiche o credono che ogni intervento militare sia giustificato sul piano ideologico o addirittura trovi in esso le sue ragioni profonde. Già con le Storie di Tucidide, all’interno delle quali trova un posto di grande rilievo la narrazione quasi integrale della guerra del Peloponneso, si delineano le linee guida del realismo politico, così come sopra elencate. Si deve poi a Niccolò Machiavelli il merito di aver sollevato quel velo di ragioni ideologiche addotte per legittimare un’azione di forza che spesso e volentieri non sono nient’altro che pura e semplice ipocrisia. Machiavelli ci svela senza compromessi il lato “demoniaco”2 del potere, invertendo, in politica, l’importanza gerarchica tra apparire ed essere, a favore del primo. L’arte della dissimulazione e la scaltrezza diventano essenziali, seppur sempre al servizio della stabilità dello Stato. La separazione della politica dalla religione e dalla morale è senz’altro un dato che ci permette di comprendere alcuni meccanismi che governano la politica, i quali, senza una buona dose di cinismo, risulterebbero preclusi alla nostra analisi. Con l’avvento della modernità si è tentato di eliminare, peraltro senza successo, la visione politica imposta dal realismo che, fino a quel momento, aveva dimostrato quasi sempre di poter offrire una valida spiegazione delle dinamiche politiche, come Machiavelli ci illustra nel Principe3. Dal Seicento in poi infatti, anche se la periodizzazione è come sempre molto approssimativa, si è tentato di costruire dottrine politiche che poggiassero sulla razionalità e sull’intelletto, al fine di giungere all’eliminazione dei conflitti interni ed esterni allo stato. L’economia di stampo mercantilista che proprio in quel periodo cominciava a diventare la principale fonte di arricchimento incoraggiava fortemente lo sviluppo di una comunità pacifica e priva di quei conflitti che, anche a livello internazionale, avrebbero danneggiato gravemente il commercio. Proprio in quest’ambito assistiamo alla rinascita delle idee cosmopolite ad opera di Kant e altri pensatori prima e dopo di lui. Sebbene l’approccio realista sia stato a più riprese criticato anche severamente, non possiamo liquidarlo come appartenente ad epoche definitivamente superate, data la sua capacità di adattamento ai diversi contesti e alle diverse epoche storiche. Spesso le ideologie vanno in crisi e per vari motivi vengono abbandonate, mentre il realismo politico trova sempre terreno fertile nel quale mettere radici.

A conferma di questa tesi Canfora ci mostra come la storia spesso e volentieri veda trionfare gli interessi pratici sugli ideali. Esportare la libertà  si apre proprio con un riferimento alla guerra del Peloponneso, combattuta tra Sparta e Atene tra il 431 e il 404 a. C. Dato che Atene aveva da tempo riunito le città alleate in un lega sulla quale esercitava un vero e proprio dominio, gli Spartani, per dare maggior forza sul piano ideologico alla loro causa e provocare la defezione del maggior numero possibile degli alleati di Atene, che poco gradivano il giogo, si presentarono come i restauratori della libertà delle città greche. Quanto poco veritiera fosse questa propaganda ci viene rivelato dal caso della rivolta antiateniese dell’isola di Samo, scoppiata nel 441 a. C. Gli Ateniesi avevano scatenato una repressione violentissima, tanto che si può parlare di una vera e propria guerra, durata quasi due anni. Sparta avrebbe avuto l’opportunità di intervenire ma, giudicando i tempi non ancora maturi per intraprendere un’azione militare, non mosse un dito in difesa degli abitanti di Samo. Ciononostante l’iniziativa degli Spartani di presentarsi come liberatori della Grecia dall’imperialismo di Atene ebbe successo, tantoché le defezioni ricominciarono in massa dopo l’inizio della guerra. Dopo la fine della guerra però fu evidente che era ormai impossibile far coincidere la propaganda con la politica di potenza attuata dagli Spartani. Una situazione paradossale si era già venuta a creare nelle fasi finali della guerra. Infatti gli Spartani erano risultati vincitori grazie al supporto finanziario dell’impero persiano, tradizionale nemico della libertà delle città greche. La libertà della Grecia fu comperata con l’oro persiano. Quando le contraddizioni tra ideali e interessi sono così evidenti, anche il più solido degli imperi è destinato a cadere, così come accadrà a Sparta, che verrà sconfitta non molto tempo dopo la fine della guerra dalla superiorità navale dei persiani, sotto il comando, ironia della sorte, di un generale ateniese. Questa celebre guerra costituisce un efficace paradigma per comprendere come i valori della libertà e, con riferimento al presente, della democrazia, vengano sempre meno quando non coincidono con più stringenti interessi di tipo economico o politico. Da questo punto di vista la storia successiva alla lotta fra Sparta e Atene è un lungo elenco di soprusi compiuti in nome della libertà.

Di questo lungo percorso di mistificazioni un altro momento cardine è rappresentato dalla Rivoluzione francese. La decisione di portare la libertà ai popoli di tutta Europa con le armi si sarebbe tramutata in una guerra di conquista, soprattutto dopo che la Francia rivoluzionaria diventerà l’Impero francese. Anche qui la contraddizione in termini è evidente, tanto che, col passare del tempo, in tutti i paesi “liberati” dalle armi francesi, una vasta parte della popolazione percepirà sempre più la presenza dei “liberatori” come una nuova forma di sottomissione. Anche in questo caso gli ideali hanno ceduto il passo agli interessi della potenza vincitrice. Questo principio sarà applicato in tutto il suo cinismo il 17 aprile 1797, quando Bonaparte, allor generale del Direttorio e vincitore della campagna d’Italia, cederà quella che ormai era diventata la repubblica di Venezia all’Austria per suggellare la pace (trattato di Campoformio)4. La figura di Napoleone, già agli albori di quella che sarebbe diventata la sua rapida ascesa al potere, rappresenta la personificazione dei principi che riassumiamo sotto la definizione di Realpolitik. Egli seppe sfruttare a suo vantaggio la diversità delle situazioni, dimostrando una notevole maestria nel rafforzare la sua persona nel corso delle diverse fasi della rivoluzione. Proprio in nome di questo cinismo realpolitico egli fu il più importante artefice del passaggio dalla Rivoluzione all’Impero. Ed è stato infatti il realismo di Napoleone e di coloro che ne avevano sostenuto l’ascesa a piegare gli ideali della rivoluzione francese e a trasformarla in ciò che aveva tentato di distruggere5. Finché gli fu possibile continuò a dar credito alla sua immagine di “spada della rivoluzione”, anche a seguito dell’instaurazione dell’Impero. Chi, a giudizio di Canfora, aveva compreso prima del tempo l’inquietante paradosso insito nella guerra di liberazione e le conseguenze a cui esso avrebbe portato, fu Maximilien Robespierre. Ancora non era a capo del comitato di salute pubblica, al momento del voto sull’ingresso in guerra egli si pronunciò contro questo proposito proclamando: «L’idea più stravagante che possa nascere nella testa di un uomo politico è quella di credere che sia sufficiente per un popolo entrare a mano armata nel territorio di un popolo straniero per fargli adottare le sue leggi e la sua costituzione. Nessuno ama i missionari armati; il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di respingerli come nemici»6. Parole a dir poco profetiche, non solo per quanto riguarda gli esiti della rivoluzione ma anche per la storia successiva, inclusa quella recente.

La storia si sarebbe ripetuta anche per quanto riguarda la “liberazione” dell’Europa dell’Est dal dominio della Germania nazista ad opera dell’armata rossa di Stalin durante la Seconda guerra mondiale. La triste fine degli stati “liberati̕” fu quella di passare dal dominio tedesco a quello sovietico. Un posto d’onore a questa rassegna di aggressioni compiute in nome della libertà è riservato da Canfora al ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto e continuano ad avere nello scacchiere internazionale dal secondo dopoguerra ad oggi. Proprio con la fine della seconda guerra mondiale si afferma definitivamente il predominio di USA e URSS su gran parte del mondo. Il periodo che seguirà di lì a poco e che si sarebbe concluso con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 sarà, a ragione, definito guerra fredda. Le esigenze dei singoli stati risultarono spesso sacrificate da coloro che avevano in mano le redini di quello che possiamo definire il “grande gioco”7 della geopolitica all’epoca della guerra fredda. La condotta degli Stati Uniti in ambito internazionale è esemplare nel dimostrare come la diffusione della libertà e della democrazia siano per lo più armi retoriche alle quali fare affidamento per dare maggior forza ad un intervento militare o per delegittimare le operazioni della potenza rivale che si accinge a compiere la stessa operazione. Già nel 1947 il presidente Harry Truman annunciava la sua omonima dottrina, secondo la quale gli Stati Uniti dovevano operare su scala globale con tutti i mezzi a loro disposizione per evitare la diffusione del comunismo. A questa teoria si aggiunse poi negli anni ’50, sotto la presidenza di Dwight Eisenhower, la teoria del roll back, ossia del “ributtare indietro” il comunismo, elaborata dal segretario di stato John Foster Dulles. Appoggiandosi a quella che possiamo definire una vera e propria fobia del comunismo e di una sua costante minaccia all’Occidente, si pensi alla “caccia alle streghe” del senatore Mac Carthy, gli Stati Uniti, nella ricostruzione di Canfora, si adoperarono per estendere la loro egemonia, in modo diretto o indiretto, sulla quasi totalità del globo, adoperandosi per instaurare governi a loro fedeli e accondiscendenti anche rispetto alla loro politica economica. Un’altra forma di “aiuto” a popolazioni impegnate nella lotta per la libertà era quella di rifornire di armi e di aiuti di altro genere coloro che si ribellavano alla penetrazione comunista, come nel caso dei talebani dell’Afghanistan, oppure che dovevano eliminare una realtà sgradita, come nel caso dell’Iraq di Saddam, armato dagli americani per logorare l’Iran rivoluzionario dell’ayatollah Khomeini. Ironia della storia: gli alleati del momento nella lotta al comunismo e al fondamentalismo diventeranno i nemici di domani.

Quello che, a giudizio di Canfora, spesso si dimentica, è che coloro i quali si definiscono e vengono definiti paladini della libertà si sono in passato adoperati per instaurare vere e proprie dittature militari, preferite alla democrazie autonome, perché più facili da controllare. Il caso del colpo di stato in Cile ad opera del generale Pinochet contro il governo liberamente eletto di Salvador Allende è uno dei tanti esempi che dimostrano che la democrazia non è sempre stata ritenuta dai governi americani la migliore e più conveniente forma di governo ̒da esportare̕. Un esempio forse ancora più tragico di questo modus operandi è costituito, negli esempi addotti da Canfora, dal rovesciamento del governo legittimo del presidente Arbenz Guzmán in Guatemala ad opera dei mercenari di Castillo Armas, inviati nel 1954 su ordine del presidente Eisenhower. Perché si era arrivati a tanto? La motivazione principale era costituita dal fatto che il Guatemala ostacolava la politica della United Fruit Company, potentissima multinazionale statunitense attiva già da fine Ottocento in America Latina ed impegnata nell’esportazione di frutta. La libertà fu di fatto venduta ”̒per un casco di banane̕”. Dopo la fine dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti sono, come è noto, diventati una superpotenza solitaria. Privi di un loro pari al quale rendere conto in caso di azioni militari e diplomatiche troppo azzardate e privi della minaccia di una guerra atomica, la politica estera americana ha mutato la forma ma non la sostanza dei suoi interventi. Senza la necessità di operare sotto mentite spoglie, come spesso era accaduto durante la guerra fredda, dove era la CIA a dover intervenire in modo da evitare una crisi diplomatica con l’URSS, gli americani sono stati in grado di impiegare liberamente le loro truppe ovunque se ne fosse sentito il bisogno.

Risulta però inutile la censura o la disapprovazione per la condotta attuale della politica estera statunitense, dato che essa non opera niente di diverso da quello che in tutto il mondo e in tutte le epoche si è sempre fatto, ossia agire secondo i propri interessi. Le operazioni di state-building compiute in Afghanistan e Iraq dagli statunitensi sono solamente la prosecuzione più raffinata di una politica imperialistica da sempre perseguita dagli Stati Uniti e da altre potenze prima di loro. Naturalmente anche ai giorni nostri ogni intervento acquista maggior vigore agli occhi di chi deve supportarlo se ammantato di una serie di ragioni più o meno valide (la salvaguardia dei diritti umani, una possibile minaccia alla sicurezza, ecc.), generalmente accettate dall’opinione pubblica. Negli Stati Uniti, in particolare, a seguito degli attacchi alle torri gemelle è stata realizzata una campagna mediatica volta a inculcare nella mente di ogni cittadino americano la necessità di combattere il terrorismo, anche con l’uso della forza militare. Il caso degli Stati Uniti è particolarmente interessante, perché dopo la seconda guerra mondiale essi sono stati identificati come i portatori dei valori della libertà e della democrazia. Una buona parte degli americani e della classe dirigente, percepisce il proprio paese come l’unica realtà in grado di diffondere la democrazia in tutto il mondo. Questa idea è derivata in parte dall’assunto che gli Stati Uniti siano l’espressione più compiuta della democrazia liberale, data la loro origine rivoluzionaria. Dall’altra parte, la mentalità di stampo prettamente imperialistico affermatasi dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, ha portato nel corso del tempo la maggioranza dell’opinione pubblica a considerare gli interessi dell’America come gli interessi del mondo intero8. Sembra quasi che ci si sia dimenticati, sottolinea Canfora, che le rivoluzioni in senso autoritario scoppiate in America Latina erano state sostenute nella maggioranza dei casi proprio dagli esportatori della democrazia per antonomasia. Le autorità statunitensi hanno ripetutamente sostenuto la necessità di impegnarsi nella risoluzione di conflitti esterni giustificandola come un’azione volta alla diffusione dei valori della democrazia liberale. In questo modo però si è contribuito a imprimere nella mente dell’opinione pubblica l’inscindibilità fra intervento armato ed esportazione della democrazia9. Da un certo punto di vista l’idea stessa di esportare la libertà e la democrazia con le armi è quanto mai un paradosso: le armi sono strumenti usati per imporre con la forza la volontà dei vincitori ai vinti, dai quali difficilmente può nascere un paese veramente libero.

La prospettiva dell’esportazione della democrazia attuata in modo totalmente disinteressato subisce un altro duro colpo se pensiamo che questa ed altre operazioni sono state legittimate attraverso quella che possiamo definire una vera e propria manipolazione dell’opinione pubblica attraverso l’uso massiccio dei mezzi di informazione, responsabili della diffusione di notizie falsificate, come il possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq. L’allora presidente in carica George W. Bush Jr. aveva ammaliato l’opinione pubblica mondiale delineando l’esistenza di un fantomatico “asse del male” che univa Iraq, Iran e Corea del Nord in un’alleanza simile a quella che univa Germania, Italia e Giappone durante il secondo conflitto mondiale. Quindi cosa è cambiato dai tempi della guerra condotta da Sparta in nome della libertà dei greci? Purtroppo molto poco. Sono cambiati i mezzi propagandistici e gli scopi presunti, ma la sostanza è rimasta invariata.  
                                                                     
Adottando la visione di Canfora arriviamo ad una totale eliminazione del principio di sovranità. Seguendo la visione delle relazioni internazionali e della natura dello stato stesso dettate dalla Realpolitik, la sovranità di uno stato esiste solamente se è salvaguardata dalla forza delle armi. In definitiva se assumiamo il punto di vista di Canfora, del resto ampiamente condiviso in ambiti diversi nell’analisi politica contemporanea, riconosciamo come impossibile la realizzazione pratica dell’idea che è alla base degli interventi umanitari.

Nel lungo braccio di ferro tra idealismo e realismo, che ha caratterizzato tutta la storia dell’umanità, secondo Canfora è quest’ultimo a prevalere. Qualsiasi possibilità di portare la democrazia in modo totalmente disinteressato, risulta pertanto negata. Sembra quasi che Machiavelli abbia vinto una volta di più nel disegnare una politica sgombra da ideali o princìpi, alla mercé del più forte. Risulta chiaro che una politica internazionale modellata sul principio dell’interesse dei singoli stati e sulla forza militare non può che portare allo scontro tra potenze e al fallimento di qualsiasi disegno cosmopolita. Il realismo inoltre, data la sua attenzione pressoché esclusiva alla conservazione dello stato, è poco incline ad imbarcarsi in ambiziosi progetti di nation-building e di esportazione di istituzioni democratiche in altri paesi, avvicinandosi, anche se solo parzialmente, ad un approccio di stampo conservatore per quanto riguarda la politica estera. Con ciò non vogliamo sostenere l’esistenza di una connessione tra conservatorismo e realismo, ma solo sottolineare che  il realista tende, talvolta, ad avvicinarsi al modus operandi di un conservatore, dato il suo intento primario, ossia la cura e l’integrità dello stato. Proprio il progetto cosmopolita è una delle proposte riprese in epoca illuminista per superare il realismo e cercare invece una collaborazione fra stati basati sulla loro uguaglianza e sui vantaggi a tutti i livelli che possono derivare da una loro coesistenza pacifica. Tuttavia, adottando una visione realpolitica delle relazioni internazionali non si rischia si cadere in uno stato di anarchia totale, dato che i rapporti di forza fra i vari stati portano necessariamente ad una gerarchizzazione degli stati nello scacchiere internazionale. Se diamo credito alla trattazione polemica ma raffinata di Canfora non ci resta quindi che abbandonare ogni velleità idealista e non pensare più a esportare la democrazia, almeno preservando la sostanza, e non soltanto le forme ipocrite, della buona fede e del rispetto dei diritti dei popoli.

 

 

 

 

 

 

1. Pier Paolo Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p 19.

2. Per una disamina più approfondita del rapporto fra politica e morale cfr. Gerhard Ritter, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino, Bologna, 1997.  Machiavelli stesso sarà a lungo etichettato come un essere demoniaco, tanto che in Inghilterra lo si conoscerà per lungo tempo come, the old Nick, uno dei nomignoli attribuiti al diavolo.

3. Niccolò Machiavelli, Il principe, Mondadori, Milano, 1994.

4. Avvenimento che turberà profondamente molti intellettuali che fino a quel momento avevano appoggiato senza riserve le conquiste francesi, tra i quali Ugo Foscolo.

5. Riprendiamo qui l’immagine suggestiva che compare nel libro di Jean Jacques Chevallier Le grandi opere del pensiero politico (Il Mulino, Bologna, 1998). L’autore suggerisce che dopo la Rivoluzione francese e la Rivoluzione d’Ottobre lo Stato, inteso come la macchina statale, anziché soccombere sotto i colpi della rivoluzione si è rafforzato e perfezionato, cfr. p. 419.

6. Luciano Canfora, Esportare la libertà. Il mito che ha fallito, Mondadori, Milano, 2007, p.20.

7. Mi servo di un’espressione di Peter Hopkirk, che è anche il titolo di un suo celeberrimo libro. Sebbene Hopkirk parlasse di grande gioco della politica riferendosi all’espansione coloniale dell’Ottocento e in particolare agli scontri tra russi e inglesi per il controllo dell’Afghanistan penso che l’espressione sia ancora efficace per descrivere le dinamiche che sono alla base della politica internazionale.

8. Cfr. intervista a Christopher J. Coyne e Tamara Cofman Wittes, originariamente apparsa sul “Cato Policy Report” del gennaio/febbraio 2008.

9.Cfr. Eric Hobsbawn, The dangers of exporting democracy, originariamente apparso su “The Guardian” del 22 gennaio 2005.

10. Cfr. Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003.

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GUINEA BISSAU: DA NARCOSTATO A STATO FALLITO?

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La primavera del 2012 è stato un periodo molto convulso per l’Africa Occidentale: poche settimane dopo il colpo di Stato in Mali, vi è stato un importante sconvolgimento politico in Guinea Bissau. Il Paese, che da lunghi anni vive una situazione di instabilità, ha visto emergere in modo brutale le posizioni dell’élite militare. Infatti nel Paese si stava cercando di mettere in pratica delle politiche volte a ridimensionare il ruolo storico dei vertici dell’esercito che, per lungo tempo, hanno avuto voce in capitolo nelle scelte politiche della Guinea Bissau. Nel momento in cui queste nuove politiche stavano mettendo a repentaglio lo status quo, si è scatenata la reazione violenta dell’esercito che ha preso in mano le sorti del paese proprio nel momento in cui si stavano tenendo le elezioni presidenziali, in seguito alla morte prematura del Presidente Malam Bacai. Il Paese oggi rischia di essere un nuovo esempio di Stato fallito, contraddistinto dalla mancanza di un potere politico capace di affrontare i problemi che fin dall’indipendenza pregiudicano il benessere dei suoi cittadini1. La corruzione ed il traffico di stupefacenti determinano una situazione di sottosviluppo economico e sociale che fanno sì che il Paese sia uno dei più poveri al mondo.

Fin dal momento della sua indipendenza, l’ex colonia portoghese ha subito il ruolo dominante dei militari senza poter limitare in alcun modo il loro peso nelle scelte, non solo politiche, ma anche economiche2. Nel 1999, le Nazioni Unite decisero di dar vita alla missione UNOGBIS, per affrontare tre ordini di problemi. In primis doveva essere risolta la crisi politica che perdurava ormai da un lungo periodo e che aveva portato ad una cronica incapacità nella risposta alle richieste della popolazione; in secondo luogo le condizione di vita precarie della popolazione, che nel 1999 superava di poco il milione di individui; infine, le difficoltà incontrate dai governi nel tentativo di regolamentare l’economia del paese. La mancanza di uno sviluppo economico era anche dovuta alla mancanza, o quasi, di una classe imprenditoriale che potesse sfruttare le risorse umane e naturali di cui è dotato il territorio3. Per queste ed altre ragioni, gli obiettivi della missione delle Nazioni Unite riguardavano la possibilità di garantire una pace stabile e duratura. Le Nazioni Unite volevano far sì che questo percorso andasse avanti a tappe forzate e che si concludesse con lo svolgimento delle elezioni presidenziali. Questa missione fu messa in piedi anche perché vi era il rischio che l’instabilità politica potesse espandersi nei paesi confinanti, tra i quali Guinea-Conakry e Senegal. L’Africa Occidentale rappresenta da sempre un’area strategica, non solo per la presenza  di risorse naturali, ma anche perché fornisce basi strategiche al controllo di un territorio densamente popolato. Alla scadenza del primo mandato della missione UNOGBIS fu presentata una relazione che esponeva i risultati ottenuti, tra i quali le elezioni presidenziali tenute proprio nel 1999, e sottolineava la necessità di una profonda riforma delle forze armate.

Nella primavera del 2012, più precisamente nel mese di aprile, Carlos Gomez Junior si apprestava a diventare il nuovo presidente dopo aver vinto nettamente il primo turno delle elezioni sfiorando il 49% dei voti e staccando nettamente il secondo candidato, Kumba Yala, fermatosi al 23%. Benché la vittoria fu netta, non avendo raggiunto il 50% più uno dei voti, non poté evitare il ballottaggio e quindi dover continuare una dura campagna elettorale. Nonostante gli osservatori internazionali non abbiano riscontrato irregolarità nelle fasi del voto, quasi tutti i candidati alle elezioni hanno manifestato il loro dissenso parlando di veri e propri brogli. Proprio per questo motivo Kumba Yala aveva manifestato l’intenzione di voler boicottare il secondo turno delle elezioni chiedendo ai suoi sostenitori di non presentarsi alle urne, tale scelta è stata motivata dall’idea che erano stati messi in essere dei brogli volti a favorire l’elezione dell’allora Primo Ministro Gomez Junior. Nella notte del 12 aprile (il secondo turno delle elezioni si sarebbe dovuto tenere il 29 dello stesso mese) un commando militare ha occupato la capitale Bissau ed ha arrestato il Presidente ad interim Pereira e anche lo stesso Gomez, prendendo in mano il potere. Nelle ore immediatamente successive al golpe si pensava che l’intervento dei militari potesse essere una risposta all’accusa di brogli e quindi un tentativo volto ad evitare un crescendo di violenza per le strade di Bissau. Effettivamente la motivazione non fu questa, infatti i golpisti non sovvertirono il normale processo democratico in seguito alle accuse di brogli da parte degli oppositori di Gomez, ma bensì perché accusavano quest’ultimo di aver sancito segretamente un accordo con un Paese straniero, cioè con l’Angola. Accordo che, a detta dei golpisti, pregiudicavano la sovranità nazionale a favore dei militari angolani già presenti nel paese da diverso tempo poiché facenti parte della MISSANG, una missione angolana volta a fornire supporto alle forze di sicurezza della Guinea Bissau. L’esercito non aveva mai accettato la presenza di militari stranieri all’interno dei confini del Paese e l’ormai scontata elezione di Gomez Junior avrebbe potuto consolidare la presenza straniera, nonostante il governo dell’Angola avesse chiarito in più occasioni la volontà di voler interrompere questa missione, proprio perché fortemente osteggiata da alcuni partiti politici4.

La missione del governo angolano nasceva proprio come risposta a quella necessità di rivedere il ruolo dell’esercito all’interno della sfera politica guineana più volte sottolineata non solo dalle Nazioni Unite ma anche dalle organizzazioni regionali africane. Tra queste organizzazioni bisogna sicuramente citare l’ECOWAS l’organizzazione economica dell’Africa Occidentale, che sta avendo un ruolo importante nella soluzione della crisi in Mali, e anche la Comunità dei Paesi lusofoni (CPLP)5.  Proprio quest’ultima organizzazione, di cui fanno parte le ex colonie portoghesi ed il Portogallo stesso, si era preposta l’obiettivo di fornire sostegno alla Guinea Bissau per cercare di operare una ristrutturazione dell’esercito6. I dati riguardanti la corruzione ci consegnano una realtà che non può essere migliorata solo attraverso un ridimensionamento di quello che è il ruolo dell’esercito, bensì appare evidente che il Paese necessita di tutta una serie di riforme che modifichino profondamente l’assetto istituzionale7. Una situazione caratterizzata da alti tassi di corruzione, soprattutto nelle forze di polizia, dovuto principalmente al fatto che, oggi, la Guinea Bissau rappresenta un vero e proprio snodo commerciale della droga tra America Latina ed Europa. Gran parte degli stupefacenti prodotti nelle regioni andine prima di giungere nel mercato europeo (principalmente Spagna, Regno Unito ed Italia) passano proprio per la Guinea Bissau. I narcotrafficanti internazionali prediligono quest’area proprio per la mancanza di forze di controllo che in qualche modo possano ostacolino la loro azione e per la, già citata, diffusa corruzione. La pratica della corruzione è solamente una concausa poiché le forze di polizia guineane non dispongono dei mezzi e delle risorse che possano permetterli di contrastare efficacemente questi traffici illeciti8.

Il traffico internazionale di droga in Africa Occidentale perdura ormai da decenni e non riguarda solamente l’ex colonia portoghese, le rotte passano anche per la Guinea, ex colonia francese, e per il golfo del Benin. Le rotte scelte dai narcotrafficanti si adeguano in base al cambiamento degli equilibri e proprio per questo motivo il recente colpo di Stato in Guinea Bissau ed in Mali hanno fatto si che questi due territori siano tra quelli più allettanti. Le merci che passano per questa regione non sono solamente stupefacenti ma anche armi e uomini, soprattutto nella fascia saheliana. La morfologia del territorio, caratterizzato dalla presenza di insenature, piccole isole e numerose baie, rende tutt’altro che agevole il lavoro delle forze preposte al controllo doganale e alla lotta al contrabbando. Proprio a livello doganale che si inserisce la cattiva pratica della corruzione che rende inefficace lo sforzo dei governi in questa difficile lotta, dato il fatto che i contrabbandieri, grazie agli introiti della vendita delle droghe, dispongono di mezzi e tecnologie superiori rispetto alle forze preposte al controllo. Per questo ci si riferisce alla Guinea Bissau come un vero e proprio narcostato, cioè un Paese dove l’economia è influenzata pesantemente dal traffico di droga e dove il potere politico poco può nella lotta contro questi traffici illeciti. Tutto ciò comporta importanti conseguenze sia sul piano economico ma anche su quello sociale poiché l’economia illegale può arrivare a superare quella legale. Per questi motivi il PIL pro capite della Guinea Bissau è tra i più bassi al mondo, secondo i dati del’FMI si piazza 167esimo posto senza superare i 1200 dollari per cittadino. Dati che contrastano con le potenzialità di cui è dotato il Paese, non solo perché è ormai nota la presenza di giacimenti di gas e petrolio al largo delle sue coste, ma proprio per l’estensione delle coste che oltre a rappresentare una risorsa per poter sviluppare l’industria ittica fungono anche da approdo per quei Paese che non hanno uno sbocco sul mare. Proprio per queste potenzialità la Cina ha rinforzato i rapporti con la Guinea Bissau e, più in generale, con i Paesi membri della CPLP, riducendo i dazi doganali sia per le importazione che per le esportazioni. L’interesse cinese da un lato può rappresentare una potenzialità, ad esempio nella costruzione di infrastrutture, potrebbe contribuire ad aumentare i tassi di corruzione se non vengono portare avanti delle politiche volte a ridurre questa pratica9.

A un anno dal colpo di Stato, la Guinea Bissau vive una situazione di forte incertezza e di ancor più profonda instabilità politica. L’ECOWAS, insieme all’Unione Africana, sta cercando di delineare un percorso che porti alle elezioni ma che, nelle varie tappe di avvicinamento, possa rinforzare le fragili istituzioni statale così da evitare che proprio la chiamata alle urne diventi occasione di scontro tra l’élite militare ed i partiti, come già avvenuto in passato10. Questa situazione determina un forte peggioramento della situazione economica dato che non arrivano investimenti dall’estero, ritenuti troppo rischiosi soprattutto alla luce della crisi economica, e dato che l’opinione pubblica e la comunità internazionale concentra le sue attenzione nella crisi in Mali. Proprio la contemporanea congiuntura politica nel Sahel tende a diminuire la possibilità da parte delle Nazioni Unite, ma anche dell’Unione Europea, di poter fornire un sostegno valido ad aiutare la stabilizzazione nel Paese. Per questo motivo quello che avverrà nei prossimi mesi potrebbe essere un buon ambiente di prova per le organizzazioni regionali interessate, come l’ECOWAS e anche la CPLP, che potrebbero trovare una giusta armonia di interessi capace di portare allo svolgimento delle elezioni. Nel momento in cui ci sarà la chiamata alle urne, sarà necessario ed importante la presenza di osservatori esterni da parte delle più importanti organizzazioni governative in modo tale da mettere al riparo dagli attacchi di brogli il partito che dovesse ottenere la maggioranza dei voti. Una volta raggiunto tale obiettivo potrebbero giungere nel Paese degli investimenti esteri capaci di essere uno stimolo per l’economia e, anche grazie al sostegno delle ONG, si potrebbero studiare dei piani che possano sostenere la nascita di una classe imprenditoriale locale11. Imprenditori che hanno bisogno di essere formati e puntare su diversi settori come, ad esempio, sull’agricoltura, cercando di operare una diversificazione della produzione che, in passato, è stata legata alla produzione solamente degli anacardi. La scelta della monocoltura, cioè coltivare principalmente un solo prodotto, determina dei grossi rischi poiché nel momento in cui la domanda di quel bene dovesse calare ed il prezzo dello stesso si riducesse in modo repentino questo potrebbe determinare grosse perdite economiche. Inoltre per poter sviluppare la produzione agricola è necessario dotarsi di un know-how e di un certo livello di tecnologia che limiti i rischi legati ai periodi di siccità.

 

 

 

 

 

 

1.Patrick Chabal, A History of Postcolonial Lusophone Africa, Hurst&Co., Londra 2002

2. David Stephen, Guinea Bissau coup: military plays politics to defend own power, African arguments, 23 aprile 2012

3. Carlo Lopes, Etnia, Stato e rapporti di potere in Guinea-Bissau, GVC, Lisbona 1982

4. Patricia Ferreira, State-Society relations in Angola, FRIDE, Lisbona 2009

5. A.O. Enabulele, Reflections on the ECOWAS Community Court Protocol and the Constitutions of Member States, “International Community Law Review”,  n.12/2010 p.115

6.Birgit Embalo, Civil–military relations and political order in Guinea-Bissau, “Journal of Modern African Studies”, n. 2/2012, pp. 253-281

7. M.P. Temudo, From the margins of the State to the presidential palace: the Balanta case in Guinea Bissau, “African Review”, n.2/2009

8. Demas R.R., Moment of truth: development in sub-saharan Africa and critical alterations needed in application of the foreign corrupt practices act and other anti-corruption initiatives, “American University International Law Review”, 26/2011, p.340

9. Patricia Gomes, Cina e Stati Uniti in Guinea Bissau: tra cooperazione e politica dell’assistenza, Guinea Conacry: dall’isolamento internazionale all’interesse delle grandi potenze, Meridione Sud e Nord nel Mondo, “Meridione” 2008 n.3/2012, p.86

10. Barry Munslow, The 1980 Coup in Guinea Bissau, “Review of African Political Economy” n.21/1981, pp.109-113

11. Aizenman, J., N. Marion, Policy Uncertainty, Persistence and Growth, “Review of International Economics” n. 1/1993, pp. 145–163

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INTERVENTO A “LA NOTTE DI RADIO1″

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Il 22 marzo scorso è andato in onda all’interno del programma radiofonico “La notte di Radio 1″ (nell’occasione interamente dedicato a Cipro, in virtù delle recenti vicende che hanno sconvolto la vita socio-economica dell’Isola) un intervento di Federico Capnist, collaboratore del sito di “Eurasia” e autore di un articolo relativo alla “questione Cipriota”. L’intervento – pur nella sua brevità – ha riguardato sia la perdurante occupazione britannica ed i suoi effetti negativi sulla vita nell’Isola, sia la forte presenza russa, oggi diventata anche fisica al di là di quella economico-finanziaria. L’intervista è disponibile, a partire dal minuto ’39, al seguente collegamento: Cipro

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“RADIKAL ANDERS”

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Fabio Falchi, contributor of the review “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici” has been interviewed by Manuel Ochsenreiter about the political movement “5 stars”, which has won 22.55% of the votes in the last Italian general elections. Here the English translation of the interview, which has been published in the last issue of the German magazine “Zuerst!” (4/2013) under the title “Radikal anders”.

 

 

Mr. Falchi, the German social democrat candidate for the chancellors position, Peer Steinbrück, called Silvio Berlusconi and Beppe Grillo “clowns”. Let´s talk about Grillo – is he really a “clown”? 

Beppe Grillo, is a comedian and blogger involved in politics since 2009. In a few years he has built up a new movement, “MoVimento 5 Stelle” ,from nothing, exploiting in an intelligent way the potential of Internet (the candidates of “MoVimento 5 Stelle” were chosen by party members through an online primary), but also conquering the squares, which traditionally belonged to the political left (on 22 February 2013, a large crowd of people attended the last meeting of Beppe Grillo in Piazza San Giovanni, in Rome). “MoVimento 5 Stelle” is composed of simple citizens joined together by hatred for the corruption and poor governance of the traditional parties. So, at the general election, last February, the civic “MoVimento 5 Stelle” won 25.55% of the vote for the Chamber of Deputies (and 23.79% of the vote for the Senate). Now it is the first party (even if it is not the first coalition) in the Chamber of Deputies. Apart from any other consideration, it is evident that Grillo is a clever politician, not a “clown”, and there is nothing to laugh about the success of “MoVimento 5 Stelle”.

 

 

German mainstream media sees in Beppe Grillo a “danger for the EU”, because he refuses the European currency. Is that right?

We do not know exactly what Grillo and “MoVimento 5 Stelle” think about “european currency” but we know that they think that european currency is not the solution of the “Eu problem” but it is “part” of this problem. We know that the danger of “Eu” is “Eu”, because “Eu” cannot or does not want to combat the dominance of financial markets. It seems that Grillo wants a referendum on the European currency, but a referendun cannot abolish an international treaty. Of course, it is important that Grillo clarifies as soon as possible his ideas about this problem, that, in the first place, is a (geo)political problem, not a mere economic problem – and we must remember that many european countries, members of “Eu”, have not European currency; in any case, there are “technical solution”, such as two euros (“northern euro” and “southern euro”, on the basis of a solidarity pact), or back to the “European snake”, or a real political and monetary “Eu” changing the role of the European Central Bank (that seems longa manus of financial markets in Europe) ad so on. The question is that “this Eu” cannot survive, Grillo or not Grillo. And many observers think that “Italy ship”, rebus sic stantibus, is expected to arrive in Piraeus! We must take into account the failure of “austerity” to understand the “phenomenon Grillo”.

 

 

What can you say about the MoVimento 5 Stelle? Is it a movement of the political right or left? Is it a real opposition party? 

“MoVimento 5 Stelle” is neither moviment of political rigth nor left. Moreover, now political right and political left are two sides of the same coin.There are differences, but these differences are not very important. But, even if it is not fascist, or better neo-fascist moviment, it is true that Grillo has not not specific ideological roots and many observers consider “MoVimento 5 Stelle” as a demagogue and “populist” movement. Nevertheless, Grillo and his many supporters protest against financial speculation, the installation of Nato military bases and Italian military missions abroad. And Grillo had the courage to criticize Israel and defend the reasons of Iran. So, only if these political positions are the basis for the policy of the “MoVimento 5 Stelle” , this new moviment will be a real opposition party.

 

 

Will Grillo have influence on politics in Italy in future? Do you rate that positive or negative – and why?

“MoVimento 5 Stelle” is likely to deflate quickly, if it does not “grow” from political point of view. Criticizing the ruling class is different from being a ruling class. As you know, there are also many “doubts” about Gianroberto Casaleggio, co-founder of “MoVimento 5 Stelle”, of which he is called “guru”. In the next few weeks or in the next few months these doubts will disappear. However, considering the Italian situation and that all other comparable parties are blackmailed by the financial markets it is positive this “caos”. And we know that financial markets “speak English”. It is no coincidence tha United States want an economic Nato to strengthen relationship between the United States and Europe. Indeed, this would be the death of Europe. But we cannot prevent it with the actual (Italian and European, with few execeptions) ruling class. In this perspective, in my opinion, “MoVimento 5 Stelle” is  not so much important. But “if” a new political movement should get out from this “caos”, a political force able to counter financial markets and the aberrant power politics of United States, then we could say that the success of “MoVimento 5 Stelle” is “not negative”. From a realistic point of view it is unlikely that “MoVimento 5 Stelle” can be such a political force (that seems very far from “Eurasian weltanschauung” and Grillo unfortunately does not seem to be an “Italian Chavez”) . But, it is not impossible that “something” hinders “euro-atlanticst mincer”. In effect, also in other european countries are growing so called “populist” (but not neo-fascist) movements. Also they have not a clear political theory (yet), but they seem to place at the center of the political debate people’s problems and that it is absurd that a State depends on the financial markets. Therefore, we should be “pragmatic” about all these movements. In this case, it is fair to say, without being vulgar, that the end could justify the means.

 

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I CONFLITTI NEL CAUCASO E LA STABILITÀ DELLA RUSSIA. SABATO 6 APRILE A TRIESTE

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Il Centro Studi Eurasia-Mediterraneo (www.cese-m.eu) organizza sabato 6 aprile alle ore 17:30 presso la Libreria Internazionale La Fenice in via Battisti 6 (Galleria Fenice) aTrieste il convegno “I conflitti nel Caucaso e la stabilità della Russia”.

Lorenzo Salimbeni, Presidente del CeSE-M, introdurrà l’incontro analizzando i separatismi presenti nella regione del Caucaso, a partire dalla Cecenia, spesso eterodiretti e collusi con le reti del terrorismo internazionale jihadista, vero e proprio fattore di destabilizzazione utilizzato a proprio uso e consumo dai competitori internazionali di Mosca in questo ed altri scenari.

L’analisi passerà quindi al cosiddetto “Estero vicino” della Russia, in particolare alle ex repubbliche sovietiche caucasiche, con Mauro Murgia (sociologo e Presidente dell’Associazione Italia-Abkhazia), il quale, partendo dall’aggressione georgiana nei confronti dell’Abkhazia nell’estate 2008, ne descriverà gli antefatti, ma anche e soprattutto l’attuale stato dei colloqui e dei tentativi di mediazione. A tal proposito, verrà presentata la pubblicazione “Abkhazia”, che, ripercorrendo la storia e le vicende del piccolo Stato, fornisce anche preziose indicazioni per investitori economici ed operatori internazionali.

Filippo Pederzini, collaboratore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” (www.eurasia-rivista.org) relazionerà altresì sulla vicenda del Nagorno Karabagh, enclave armena in Azerbaijan, nonché tipico esempio di quei cosiddetti “conflitti congelati” che costellano lo scacchiere dell’ex URSS: da questo caso esemplare l’intervento spazierà sulla manipolazione dell’informazione finalizzata alla diffusione di un sentimento russofobico funzionale ai progetti delle potenze occidentaliste.  

 

  Caucaso_Russia
 

http://www.cese-m.eu/cesem/2013/03/convegno-i-conflitti-nel-caucaso-e-la-stabilita-della-russia-sabato-6-aprile-a-trieste/  

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LA COREA DEL NORD DICHIARA LO STATO DI GUERRA

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L’agenzia di stampa statale nordcoreana KCNA informa, citando un comunicato ufficiale, che la Corea del Nord ha dichiarato lo stato di guerra con la Corea del Sud

 
 
La Corea del Nord ha annunciato che risolverà tutte le questioni in sospeso tra le due Coree, come in tempo di guerra. “Questa è la fine dello stato di non pace e di non guerra in cui si trovava la penisola coreana”, recita la dichiarazione. “Tutte le azioni del governo, dei partiti politici e delle organizzazioni saranno ora valutate considerando che il nostro paese è in guerra con la Corea del Sud”, recita la dichiarazione sottolineando che questa “decisione importante” del leader nordcoreano Kim Jong-Un costituisce un ultimatum alle “forze ostili” ed è un passo decisivo verso il perseguimento della giustizia. L’esercito della Corea del Nord rimane in attesa di un ordine di Kim Jong-Un, che ha ordinato di prepararsi per un possibile attacco missilistico. La dichiarazione avverte che la Corea del Nord scatenerà una rappresaglia senza pietà nel caso di un atto di provocazione da parte degli USA o della Corea del sud. Questo venerdì le forze armate della Corea del Sud hanno registrato un aumento dell’attività delle basi missilistiche della Corea del Nord, dopo la firma del leader nordcoreano Kim Jong-Un di un piano strategico di preparazione delle truppe, che ordina alle unità missilistiche di tenersi pronte a lanciare in qualsiasi momento un attacco contro gli USA. Pochi giorni fa le autorità della Corea del Nord hanno inviato a quelle del Sud una notifica di telefonica di sospensione dei collegamenti con la linea del “telefono rosso”, attraverso la quale i due paesi mantengono contatti militari d’emergenza, finché il Sud non abbandoni il suo atteggiamento ostile. La tensione nella penisola coreana, è aumentata dopo l’adozione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di nuove sanzioni contro la Corea del Nord, in risposta al suo terzo test nucleare; si era acutizzato ancor prima che si sapesse, che la Corea del Sud e gli Stati Uniti  stanno impiegando nell’area bombardieri strategici B-52 e sottomarini nucleari nelle esercitazioni militari congiunte realizzate nella regione. Pyongyang ha definito questo fatto una “provocazione imperdonabile”.

 

 

(Traduzione di Marco Nocera da RT Español) 

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INTERVISTA A FABIO FALCHI SUL MOVIMENTO CINQUE STELLE

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La rivista tedesca “Zuerst!” ha pubblicato nel n. 4/2013 un’intervista con Fabio Falchi, redattore di “Eurasia”, sul fenomeno del movimento dei “grillini”. Qui di seguito la traduzione italiana.

 

 

Zuerst!: Peter Steinbrück,il candidato della Spd alla cancelleria, ha definito Silvio Berlusconi e Beppe Grillo due “clown”. Parliamo di Grillo – è davvero un “pagliaccio”?

Fabio Falchi: Beppe Grillo, è un comico e blogger impegnato in politica dal 2009. In pochi anni ha  costruito il “Movimento 5 Stelle” (M5S) dal nulla, non solo sfruttando in modo intelligente la potenzialità di Internet (i candidati del M5S sono stati scelti tramite delle primarie on line), ma anche riuscendo a conquistare le “piazza”, che tradizionalmente apparteneva alla sinistra (il 22 febbraio scorso, cioè due giorni prima delle elezioni politiche, un enorme numero di persone ha partecipato alla manifestazione del M5S in Piazza San Giovanni, a Roma). Il M5S è infatti composto da semplici cittadini uniti dal disgusto e dalla ripugnanza per la corruzione e il malgoverno dei partiti tradizionali.

Orbene, alle elezioni politiche il M5S  ha ottenuto 25,55% dei voti per la Camera dei deputati (e il 23,79% dei voti per il Senato) e ora è il primo partito (anche se non la prima coalizione) alla Camera dei deputati. A parte ogni altra considerazione, è evidente quindi che Grillo è un politico intelligente, non un “pagliaccio”, e che non vi è nulla da ridere riguardo al successo del M5S, che invece si deve considerare molto seriamente.

 

 

Zuerst!: I principali media tedeschi vedono in Beppe Grillo un “pericolo per l’UE”, perché egli  rifiuta la moneta europea. E’ così?

Fabio Falchi: Non sappiamo esattamente che cosa Grillo e il M5S  pensino riguardo all’euro,  anche se si può sostenere che ritengono che l’euro non sia la soluzione del problema della UE, bensì “parte” di questo problema. D’altronde, noi sappiamo che il pericolo dell’UE è la stessa UE, dato che l’UE non può o non vuole opporsi alla (pre)potenza dei mercati finanziari.

Sembra comunque che Grillo voglia un referendum sulla moneta unica europea, anche se un referendum non può abrogare un trattato internazionale. E’ importante allora che Grillo chiarisca al più presto le sue idee in merito a questo problema, che, in primo luogo, è un problema (geo)politico, non un mero problema economico – e non dobbiamo dimenticare che molti Stati dell’UE non sono membri di Eurolandia. Inoltre non mancano soluzioni “tecniche”: due euro (un euro per il Nord Europa ed un euro per Sud Europa, sulla base di un patto di solidarietà), oppure ritornare al cosiddetto ” Serpente europeo” o una vera e propria Unione politico-monetaria , cambiando il ruolo della BCE (che però sembra essere la longa manus dei mercati finanziari in Europa) e così via. Ma la vera questione è che “questa Ue” non può sopravvivere, Grillo o non Grillo. E molti osservatori pensano che la “nave Italia”, rebus sic stantibus, sia destinata ad arrivare al Pireo!

Dobbiamo dunque prendere in considerazione il fallimento della politica di austerità, imposta dalla UE, se vogliamo capire il “fenomeno Grillo”.

 

 

Zuerst!: Che cosa si può dire del M5S? E’ un movimento di destra o di sinistra? E si tratta di un vero e proprio partito di opposizione? 

Fabio Falchi: Il M5S non pare essere né di destra né di sinistra. Del resto, ormai  destra e sinistra sono due facce della stessa medaglia. Vi sono delle differenze, ma non sono molto importanti. D’altra parte, anche se il M5S non è un movimento fascista o meglio neo-fascista, è pur vero che Grillo non ha precise “radici ideologiche” e che per questo molti osservatori ritengono che il M5S sia un movimento “demagogico”  e “populista”. Tuttavia, Grillo e molti dei suoi sostenitori sono contro la speculazione finanziaria, contro la presenza di basi militari della Nato e contro le missioni militari italiane all’estero. E Grillo ha avuto pure il coraggio di criticare Israele e di difendere le ragioni dell’Iran. Sicché solo se queste posizioni saranno a fondamento della visione e della prassi politica del M5S, questo nuovo movimento potrà essere un vero e proprio partito di opposizione.

 

 

Zuerst!: Avrà Grillo una reale influenza sulla politica italiana ? Se ciò accadesse, sarebbe positivo o negativo – e perché? 

Fabio Falchi: Il M5S rischia di sgonfiarsi rapidamente, se non “crescerà” dal punto di vista politico. Criticare la classe dirigente è naturalmente ben diverso dall’essere una classe dirigente. Com’è noto, ci sono anche molti “dubbi” circa Gianroberto Casaleggio, co-fondatore (e da alcuni definito addirittura “guru”) del M5S. Nelle prossime settimane o nei prossimi mesi questi dubbi dovrebbero sparire. Comunque sia, considerando la situazione italiana e il fatto che tutti gli altri partiti sono  ricattabili da parte dei “mercati”, questo “caos” pare positivo. Inoltre, si sa che i mercati finanziari “parlano inglese”. Non a caso gli Stati Uniti vogliono una NATO economica allo scopo di rafforzare le relazioni tra gli USA e l’ Europa. Di fatto, ciò equivarrebbe alla fine dell’Europa. Ma non possiamo impedirlo con l’attuale classe dirigente italiana (ed europea, tranne poche eccezioni). In questa prospettiva, a mio parere, non è tanto importante il M5S, in quanto tale. Ma se un nuovo movimento politico dovesse nascere da questo “caos” – una forza politica in grado di contrastare i mercati finanziari e la politica di potenza degli Stati Uniti – allora potremmo senza dubbio sostenere che il successo del M5S non è negativo. Se si deve essere “realisti”, si deve però riconoscere che è improbabile che tale forza politica possa essere il M5S (che, tra l’altro, pare essere assai distante da una “Weltanschauung” eurasiatista – e difficilmente, purtroppo, Grillo può essere considerato un “Chavez” italiano ).

Eppure, non è impossibile che adesso “qualcosa” possa ostacolare il “tritacarne euro-atlantista”. In effetti, anche in altri Paesi europei stanno “crescendo” dei movimenti cosiddetti “populisti” (non neo-fascisti). Si tratta di movimenti che non si basano (almeno per ora) su una salda e chiara dottrina politica, ma tendono a mettere al centro del dibattito politico i problemi delle persone “in carne ed ossa” e a mettere l’accento sul fatto che è assurdo che uno Stato dipenda dai “mercati”. Di conseguenza, si dovrebbe essere “pragmatici” per quanto concerne il giudizio su tutti questi movimenti. In definitiva, è lecito affermare, senza essere “volgari”, che in questa situazione il fine giustifica i mezzi.

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THE WESTERN USE OF ISLAMISM

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In his famous book The Clash of Civilizations Samuel Huntington affirms that the true problem of western world is not the Islamic fundamentalism, but Islam itself. The American ideologist explains that Islamis a strategical enemy of the West, because the confrontation between the two is an existential conflict between secularist values and religious ones, Human Rights and Divine Rights, Democracy and Theocracy. Therefore, until Islam remains Islam and the West remains the West, the conflict will mark their mutual relations.

Huntington’s assertion indicates not only the strategical enemy of the West, but also its tactical ally, that is the Islamic fundamentalism. However in 1996, when The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order was published, such a tactical alliance was already existing.

An Arabian ex-ambassador, who had been accredited to the United States and Great Britain, writes: “It is a fact that the USA have stipulated alliances with the Muslim Brothers in order to expel the Soviets from Afghanistan and that since then the USA have courted the Islamist current, supporting its propagation through the Muslim world. Towards the Islamists, most of western States have followed the example of their major ally and have adopted an attitude going from the benevolent neutrality to the resolved connivance” (1).

The western support to the so-called Islamic integralism or fundamentalism did not start in Afghanistan in 1979, where six month before the Soviet intervention the US intelligence had begun to aid the Afghan guerrilla (as the ex director of CIA Robert writes in his book From the Shadows). This support dates back to the fifties and the sixties of the last century, when Great Britain and USA, considering the Nasserian Egypt as the main obstacle to the western hegemony in the Mediterranean region, gave their aid to the Muslim Brothers. A son-in-law of the movement’s founder, Sa’id Ramadan, who created an important Islamic centre in Munich, received money and instructions from the CIA agent Bob Dreher. According the project explained by Sa’id Ramadan to Arthur Schlesinger Jr.: “When the enemy is armed with a totalitarian ideology and served by regiments of devoted believers, those with opposing policies must compete at the popular level of action and the essence of their tactics must be counter-faith and counter-devotion. Only popular forces, genuinely involved and genuinely reacting on their own behalf, can meet the infiltrating threat of Communism” (2).

The exploitation of the Islamist movements useful to the Atlantic strategy did not finish with the Red Army’s retreat from Afghanistan. The aid granted by Clinton’s administration to the Bosnian and Kosovar separatism, the US and English support to wahhabi terror in Caucasian region, Brzezinski’s patronage to fundamentalist movements in Central Asia, the intervention in Libya and Syria are episodes of a war waged against Eurasia, in which the North Americans and their allies have turned to the Islamist collaboration.

Rachid Ghannouchi, who in 1991 received George Bush’s praise for the role he had played in mediating the agreement among the Afghan factions, has tried to justify the Islamist collaborationism, sketching ad idyllic picture of the relations between the USA and the Muslim world. Speaking with a French journalist who asked him if he considered the North Americans more conciliatory than Europeans towards the Muslims, the founder of An-Nahda replied in the affirmative, because “an American colonialism never existed in the Muslim countries; no Crusades, no war, no history”; moreover, Ghannouchi recalled the common struggle of North Americans, Britains and Islamists against the bolshevist enemy (3).

 

 

The “noble salafist tradition”

As an Italian orientalist writes, the Islamist current represented by Rachid Ghannouchi “refers to the noble salafist tradition of Muhammad Abduh and has had a more modern version in the Muslim Brothers’ movement” (4).

To return to the pure Islam of the “pious ancestors” (as-salaf as-salihin) and to make a clean sweep of the tradition originated by the Quran and the Prophet’s Sunnah in the course of the centuries: this is the program of the reformist current whose starters were Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) and Muhammad Abduh (1849-1905).

Al-Afghani, who in 1883 founded the Salafiyya Society, in 1878 had been initiated in a Masonic lodge of Scottish rite in Cairo. He introduced his disciples into the Masonry; among them, Muhammad Abduh became the Mufti of Egypt in 1899 with the consent of British authorities.

“They deserve all the encouragement and support which can be given to them. They are the natural allies of the western reformer” (5). This explicit acknowledgment of the role played by the reformers Muhammad Abduh and Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) was given by Lord Cromer (1841-1917), one of the main architects of British imperialism in the Muslim world. Indeed Ahmad Khan stated that “the British domination in India is the most beautiful thing ever seen by the world” and that “it is not islamically lawful to rebel against the English until they respect Islam and the Muslims are allowed to practise the religion”, while Muhammad Abduh transmitted the rationalist and scientist ideas of the West to the Muslim milieu. According to Abduh, in the modern civilization there is nothing contrasting with Islam (he identified the jinns with the microbes and was persuaded that Darwin’s evolutionist theory is contained in the Quran); hence the necessity of revising and correcting the traditional doctrine, submitting it to the judgment of the reason and welcoming the scientific and cultural contributions of the modern thought.

After Abduh, the leader of the Salafist current was Rashid Rida, who after the end of the Ottoman Caliphate planned the birth a “progressive Islamic party” being able to create a new Caliphate. In 1897 Rashid Rida had founded a review, “Al Manar”, which was diffused in the Arabian world and also otherwhere; after Rida’s death, its publisher was another representative of Islamic reformism, Hasan al-Banna (1906-1949), the founder of the Muslim Brothers.

While Rashid Rida theorized the birth of a new, reformed Islamic State, in the Arabian Peninsula was born the Saudi Kingdom, ruled by another reformist ideology: Wahhabism.

 

 

The Wahhabi sect

The name of the Wahhabi sect comes from the patronymic of Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792), a follower of the Hanbali school who became enthusiastic over the texts of the literalist jurisprudent Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328). An interpreter of Quranic symbols from an anthropomorfic viewpoint and a mortal enemy of Sufism, Ibn Taymiyya was frequently accused of heterodoxy and has deserved the definition of “father of Salafist movements” (6). Following his teachings, Ibn Abd al-Wahhab and the Wahhabis condemned as idolatric polytheism (shirk) the faith in the intercession of prophets and saints, so that they considered “polytheist” (mushrik) also the devout believer invoking the Holy Prophet or praying God next to the shrine of a shaykh.

The Wahhabis attacked the holy towns of Shiites, sacking their mosques; after taking possession of Mecca and Madina, they demolished the tombs of Companions and martyrs and even violated the grave of Prophet Muhammad; they banned the initiatic organizations and the Sufi practises, abolished the celebration of the Holy Prophet’s birthday, extorted money from the pilgrims, suspended the Pilgrimage to the Holy House of God, issued the oddest and queerest prohibitions.

After being defeated by the Ottoman army, the Wahhabis separated supporting two rival dynasties (Saud and Rashid) and during a century their civil wars covered with blood the Arabian Peninsula, until Ibn Saud (1882-1953) changed the condition of the sect. Being supported by Great Britain, which in 1915 had instaured official relations with him and had made the Sultanate of Najd a “quasi protectorate” (7), Ibn Saud occupied Mecca in 1924 and Madina in 1925. This way he became “King of Hejaz and Najd and its dependencies”, according to the title decerned to him by Great Britain in Jeddah’s treaty of May 1927.

“His victories – a famous orientalist writes – have made him the most powerful sovereign in Arabia. His dominions reach Irak, Palestine, Syria, Red Sea and Persian Gulf. His prominent personality has imposed itself through the creation of the Ikhwan, i.e. the Brothers: a brotherhood of activist Wahhabis that English Philby has called ‘a new Masonry’ ” (8).

The quoted Philby was Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), the organizer of the Arabian anti-Ottoman revolt, who “in Ibn Saud’s court occupied the seat of the deceased Shakespeare” (9), as hyperbolically wrote another orientalist. This new Shakespeare exposed his project to Winston Churchill, George V, Baron Rothschild and Chaim Weizmann: a Saudi kingdom usurping the custody of the Holy Places (traditionally due to the Hashemite dynasty) would be able to unify the Arabian Peninsula and to control the seaway Suez-Aden-Mumbay on behalf of England.

After the Second World War, during which Saudi Arabia had observed a pro-English neutrality, the British patronage was gradually replaced by the North American one. On March 1st 1945, on the board of the Quincy, Roosevelt had an historical meeting with Ibn Saud, who “has ever been a great admirer of America, preferred by him to even to England” (10), as proudly observed by a fellow-countryman of the US President. Indeed since 1933 the Saudi monarchy had granted the oil concession to Standard Oil Company of California and since 1934 the US company Saoudi Arabian Mining Syndicate held the monopoly of the gold digging and mining.

 

 

The Muslim Brothers

In order to contain the nasserian panarabism, the baathist national-socialism and – after the Islamic Revolution in Iran – the shiite influence, the neo-royal family of Saud needed an “International” as support for its hegemony in the Muslim world. Therefore the Muslim Brothers put at the disposal of Riyad their militant network, which was strengthened by Saudi funds. “After 1973 the improving incomes deriving from the oil market are assigned to Africa and to the Muslim communities in the West, where a not well established Islam run the risk of opening the door to the Iranian influence” (11). However the synergy between the Wahhabi monarchy and the movement founded by Hasan al-Banna (1906-1949) is based on a common ideological ground, because the Muslim Brothers are “direct heirs, even if not always strictly faithful, of Muhammad Abduh’s salafiyyah” (12) and bear in their DNA the tendency to accept the modern western civilization, with all the due reservations.

Tariq Ramadan, Hasan al-Banna’s grandson and representative of the reformist Muslim intelligentsia, interprets the thought of the movement’s founder: “Like all the reformists who preceeded him, Hasan al-Banna never demonized the West. (…) The West has permitted the mankind to make great strides since the Renaissance, with the beginning of a wide process of secularization (a positive contribution, considering the speciality of Christian religion and clerical institution)” (13). The reformist intellectual remembers that his grandfather, performing the activity of school teacher, drew his inspiration from the most recent pedagogical theories of the West and reports a significant passage written by him: “From the western schools and their programs we must take the constant interest for the modern education, their way of facing the requirements and the preparation to learning (…) We must take advantage of all that, without being shy: science is a right of everyone” (14).

The so-called “Arabian Spring” has proved that the Muslim Brothers, supported by USA in Libya, in Tunisia, in Egypt and in Syria, are willing to accept those western ideological main points which – as Huntington has underlined – clash with Islam. The Egyptian party “Freedom and Justice”, born on the initiative of the Brotherhood and controlled by it, appeals to the Human Rights, champions the democratic doctrine, supports the capitalist economy, does not refuse the loans of the international usurocratic institutions. The Muslim Brother become Egyptian President has studied in USA, where he was assistant lecturer at the California State University; two of his children are American citizens. He has immediately declared that Egypt will observe all the treaties stipulated with other countries (included the Jewish State); he has paid his first official visit to Saudi Arabia and has declared his will of strengthening the Egyptian relations with Riyad; he has proclamed an “ethic duty” the support to the armed opposition struggling against the Syrian government.

If the thesis upheld by Huntington about Islam and Islamism needed a proof, it seems that it has been given by the Muslim Brothers.

 

 

 

 

 

1. Rédha Malek, Tradition et révolution. L’enjeu de la modernité en Algérie et dans l’Islam, ANEP, Rouiba (Algeria) 2001, p. 218.

2. http://www.american-buddha.com/lit.johnsonamosqueinmunich.12.htm

3. “- Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? – A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… – Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains à vous soutenir… – Sans doute, mais la Grande-Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…” (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http://plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires).

4. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.

5. Quoted by Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.

6. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, p. 126.

7. Carlo Alfonso Nallino, Raccolta di scritti editi e inediti, Vol. I L’Arabia Sa’udiana, Istituto per l’Oriente, Roma 1939, p. 151.

8. Henri Lammens, L’Islàm. Credenze e istituzioni, Laterza, Bari 1948, p. 158.

9. Giulio Germanus, Sulle orme di Maometto, vol. I, Garzanti, Milano 1946, p. 142.

10. John Van Ess, Incontro con gli Arabi, Garzanti, Milano 1948, p. 108.

11. Alain Chouet, L’association des Frères Musulmans, http://alain.chouet.free.fr/documents/fmuz2.htm.

12. Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica”, a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.

13. Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Città Aperta, Troina 2004, pp. 350-351.

14. Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath”, Sept. 19th 1929, quoted by Tariq Ramadan, Il riformismo islamico, p. 352.

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LA RUSSIA NEL MEDITERRANEO, LA QUESTIONE DEGLI STRETTI E DI CIPRO

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Il raggiungimento di uno sbocco su mari caldi, come il Mediterraneo, ha da sempre costituito uno dei più importanti obiettivi geopolitici della politica estera di Pietrogrado e Mosca. Nel corso dei secoli l’Impero Russo si espanse fino a controllare stabilmente tutte le coste settentrionali del Mar Nero. Quando nel 1922 l’Ucraina entrò ufficialmente a far parte dell’URSS, la possibilità di avere accesso al Mediterraneo, venuta meno dopo la Rivoluzione del 1917 e la Guerra Civile (1917-1920), venne assicurata ancora una volta. Ancor’oggi gli interessi russi a mantenere una forte presenza nel Mediterraneo sono percepiti come vitali da Mosca. L’indipendenza ucraina ha ridotto significativamente le coste russe che si affacciano sul Mar Nero e, sebbene nel 1991 fu trovato un accordo tra Mosca e Kiev per la divisione della flotta sovietica nel Mar Nero e la gestione coordinata della base di Sebastopoli, negli ultimi anni il crescente dinamismo dell’Ucraina ha portato ad alcuni contrasti con la Federazione Russa, che vedeva minacciati i propri interessi nella regione. Già nel 2003 Putin siglò un decreto che prevedeva la costruzione di una nuova grande base per la flotta russa nel Mar Nero presso la città russa di Novorossijsk, che avrebbe eventualmente sostituito l’attuale base di Sebastopoli qualora Kiev non si fosse dichiarata disponibile a rinnovare l’accordo, la cui scadenza era prevista nel 2017. Più di recente, nell’aprile 2010, il presidente russo Putin e l’omologo ucraino Janukovich firmarono un accordo per prolungare di venti anni la concessione alla flotta russa, con l’eventuale possibilità di un’ulteriore estensione di altri cinque anni.

Sin dai tempi più remoti, l’accesso al Mediterraneo risponde a due bisogni fondamentali per la Russia. In primo luogo vi è una ragione di ordine commerciale: le acque dei porti del Baltico e del Mar Bianco nei mesi invernali congelano, impedendo così l’attracco alle navi; la seconda ragione è invece di ordine militare, l’aumento continuo dell’importanza della Russia nel contesto internazionale la obbliga ad incrementare la propria capacità di proiezione verso l’estero e la flotta del Mar Nero costituisce un fondamentale tassello di questa capacità. Tuttavia affinché questi elementi trovino la loro giusta contestualizzazione nel quadro della politica estera russa sul Mediterraneo dobbiamo ancora una volta partire da un fattore puramente geografico: il Mar Nero è un bacino chiuso, collegato al Mediterraneo dagli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Il controllo delle coste del Mar Nero non è quindi un fattore sufficiente per l’obiettivo di più ampio respiro della politica estera russa. Assicurare alla proprie flotte, mercantili e soprattutto militari, la possibilità di un passaggio sicuro attraverso questi stretti divenne una necessità imperativa per la politica estera di Pietrogrado prima e di Mosca poi, tanto che dal XVIII al XX secolo la questione degli stretti rappresentò uno degli elementi di maggior contrasto tra la Russia ed i suoi diretti competitori: Gran Bretagna prima e Stati Uniti poi.

Fino all’ascesa al potere di Napoleone, gli interessi militari russi sul Mar Mediterraneo erano motivati principalmente dal conflitto con l’Impero Ottomano e dalla lotta alla pirateria, che vessava i mercantili degli Zar. La nascita del primo Impero Francese e la conseguente modifica degli assetti europei portò ad un sempre maggiore coinvolgimento di Pietrogrado nel bacino del Mediterraneo. Nel 1798 Napoleone Bonaparte era intenzionato a sconfiggere l’ostile Gran Bretagna privandola dell’Egitto, che costituiva per Londra una cerniera tra la madrepatria e le sue colonie asiatiche. Napoleone, in rotta per Alessandria, occupò Malta e disperse l’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni, che vi risiedeva. Questo evento ebbe ripercussioni notevoli sulla politica estera dell’Impero Russo nel corso delle Guerre Napoleoniche. Infatti durante la Terza Spartizione della Polonia, nel 1795, l’Impero Russo aveva ottenuto il controllo della regione della Volinia, territorio cattolico sul quale sorgeva un Priorato dei Cavalieri di Malta. Lo Zar Paolo I si dimostrò magnanimo nei confronti dell’Ordine e ne confermò i privilegi, oltre ad incrementarne i benefici, tant’è che, con la caduta di La Valletta, i Cavalieri lo nominarono Gran Maestro. Questo fatto suscitò in Paolo un maggior interesse per il Mediterraneo e la volontà di installare basi navali russe sulle sue isole. Nel 1799 Fëdor Fëdorovič Ušakov venne nominato Ammiraglio Supremo della flotta russa dallo Zar e fu inviato nel Mediterraneo per supportare la campagna italiana del Generale Aleksandr Vasil’evič Suvorov; gli Stretti furono aperti dal Sultano, anch’egli in guerra con Napoleone, dato che la sovranità sull’Egitto apparteneva ancora ad Istanbul. L’Ammiraglio Ušakov liberò le Isole Ionie e ne costituì una repubblica, Paolo I ordinò quindi di assaltare Malta, che era inefficacemente assediata dalla flotta dell’Ammiraglio Nelson da lungo tempo. Londra tuttavia richiese che la flotta russa fosse spostata lungo le coste dell’Egitto – richiesta che suscitò il malcontento tanto di Ušakov quanto dello Zar. L’interesse di Paolo per Malta era infatti evidente e non sorprende che, a seguito della sua occupazione ad opera dei britannici nel 1800, egli si sia irritato tanto da far sprofondare la Russia in un periodo di forte isolamento diplomatico. Paolo I morì poco dopo vittima di una congiura nel 1801, sarà suo figlio, Alessandro I, a risollevare l’Impero dall’isolazionismo dovuto al padre.

La volontà del nuovo Zar era – una volta raggiunta la pace – ottenere una modifica del diritto marittimo, suscitando l’aperta ostilità della Gran Bretagna di Pitt. Nonostante queste incomprensioni, le necessità di guerra portarono alla sottoscrizione di un’alleanza nel 1805. In quegli anni la Russia poteva contare ancora sull’alleanza con l’Impero Ottomano e sul sicuro passaggio negli Stretti: questi restavano un problema, ma posposto rispetto alle altre priorità belliche in Europa. La questione tornò ad acuirsi dopo Austerlitz. Gli ottomani consideravano l’Impero Russo ancora come il nemico principale e se i francesi potevano sconfiggere gli eserciti russi, essi avrebbero potuto proteggere i sudditi ottomani nei Balcani. Persuasa da questo assioma, la Sublime Porta chiuse gli stretti alle navi russe nell’aprile del 1806 e nel dicembre dello stesso anno scoppiò una nuova guerra russo-ottomana. La guerra si protrasse fino al 1812 e vide la vittoria di Pietrogrado; indipendentemente dalle sorti europee. Con il Trattato di Bucarest firmato da Kutuzov il 28 maggio, i turchi cedettero la Bessarabia allo Zar.

Conclusesi le Guerre Napoleoniche l’Impero Russo divenne la prima potenza continentale, mentre il nemico ottomano visse un periodo di forte declino che attirerà le corti europee sui Balcani. Nel 1821 le comunità greche della Rumelia si sollevarono sostenute dai rumeni di Valacchia, ma furono sconfitte dalle milizie del Sultano. La repressione degli ortodossi e la mancata autonomia serba[1] deteriorarono i rapporti tra Pietrogrado e Istanbul. Quando nel 1825 Nicola I salì al trono di Russia, la questione greca giaceva ancora irrisolta. Nonostante alcune divergenze con Londra, Pietrogrado e Vienna iniziarono dei colloqui per concordare un’azione comune. Il Sultano, temendo un fronte comune, si vide costretto ad appoggiare le richieste russe contenute nell’ultimatum del marzo 1826. Il 7 ottobre 1826, con la Convenzione di Akkerman, l’Impero Ottomano assicurò una larga autonomia a Serbia, Moldavia e Valacchia, ma soprattutto garantì alle navi russe il diritto di navigare in acque ottomane ed in ultimo il passaggio per gli Stretti.

Nel frattempo in Grecia era però giunto Ibrahim Pasha, figlio di Mohammed ‘Ali, signore dell’Egitto, e vassallo del Sultano. La situazione per i greci si fece disperata e Francia, Inghilterra e Russia intervennero. La battaglia di Navarino portò alla sconfitta della flotta egiziana, ma questo non fece che spingere il Sultano ad invocare la guerra santa e a revocare il Trattato di Akkerman. Nel 1828 la Russia dichiarava così guerra all’Impero Ottomano. Nel 1829 la guerra si concluse, venne trovata una soluzione alla questione greca garantendole un’ampia autonomia[2] e, con il Trattato di Adrianopoli, l’Impero Russo ottenne l’estensione della frontiera europea con l’Impero Ottomano includendovi il ramo meridionale del delta del Danubio. Inoltre il trattato sanciva che la Russia avrebbe potuto commerciare liberamente nel territorio della Sublime Porta, nonché nel Mar Nero e negli Stretti, ed essi sarebbero stati aperti alle navi di tutte le potenze che si trovavano in pace con il Sultano[3].

La politica di Nicola I si concentrò a questo punto su un rafforzamento dell’influenza russa nell’Impero Ottomano con l’intento di garantirsi il controllo degli stretti. La congiuntura interna turca fu particolarmente favorevole all’obiettivo russo data l’insurrezione dell’Egitto contro il Sultano del 1832. Mohammed ‘Ali, in protesta per il mancato compenso per l’aiuto fornito in Grecia, inviò il figlio in Asia Minore e rapidi successi egiziani misero Istanbul sotto minaccia di attacco diretto. Il Sultano non poté che chiedere aiuto alle potenze europee, e a rispondere all’appello fu solo l’Impero Russo. Mohammed ‘Ali si ritirò ed il Sultano fu costretto a sottoscrivere un nuovo accordo. Nel Trattato di Hunkar Iskelesi l’Impero Russo si impegnò a fornire assistenza armata agli ottomani, mentre l’Impero islamico si impegnò, su richiesta del governo russo, a chiudere gli Stretti a tutte le navi da guerra straniere, raggiungendo cosi l’obiettivo che Nicola si era proposto inizialmente.

Nel 1841 la crisi egiziana si concluse e fu messa in atto l’intenzione delle potenze di risolvere il problema degli stretti. Il 13 luglio 1841 fu firmata dalle cinque potenze europee la Convenzione degli Stretti, che forniva alla Russia la sicurezza già disposta nell’Accordo di Hunkar Iskelesi, trattato che veniva meno. Chiaramente questa sicurezza era limitata alle occasioni in cui il Sultano non fosse sceso in guerra. Pertanto era necessario per la Russia mantenere una flotta nel Mar Nero capace di difenderne la costa meridionale.

A ridimensionare il peso ed il potere russo nell’area, nella seconda meta del XIX secolo, fu un nuovo conflitto scoppiato in prossimità del Mar Nero: la Guerra di Crimea. Nel 1850 l’Impero Ottomano era ancora lontano dall’aver risolto i propri problemi interni. Il casus belli fu originato dai tentativi russi, respinti dalla Porta, di ottenere un nuovo trattato con il Sultano che autorizzasse la protezione sui sudditi ortodossi risiedenti in territorio ottomano (come peraltro era stato concesso a Napoleone II per i sudditi cattolici). Nel luglio del 1853 le armate russe oltrepassarono il Prut. Il rischio di veder l’Impero Russo ottenere ulteriori benefici a discapito dell’Impero Ottomano nei Balcani e sui mari, spinse Londra e Parigi ad intervenire a fianco degli ottomani. La neutralità della Prussia e l’intervento diplomatico austriaco a fianco del Sultano, nonché l’attacco nel Baltico, che privò di importanti truppe il fronte russo a Sud, furono le principali cause della sconfitta russa nel 1856. La Conferenza di Pace si aprì a Parigi nel 1856 e la Convenzione degli Stretti fu rivista «nell’interesse dell’equilibrio europeo»[4].

Le pesanti condizioni inflitte a Pietrogrado dopo il conflitto di Crimea spinsero lo Zar Alessandro II ad adoperarsi sin da subito per ottenere la revisione delle clausole del Trattato. Il concerto europeo rispose freddamente alle richieste della diplomazia russa. A sbloccare la situazione fu la politica del cancelliere Otto von Bismarck che, con la sconfitta della Francia nel conflitto del 1870, permise a Pietrogrado di ottenere la revoca delle clausole di neutralizzazione del Mar Nero.

I Balcani restarono una zona di forte instabilità e nel 1877 i tempi divennero maturi per una nuova guerra russo-ottomana. Nonostante non riuscì ad ottenere uno sbocco sul Mediterraneo[5], l’Impero Russo uscì rafforzato dalla guerra. La questione degli stretti fu quindi inserita nel testo della Pace di Santo Stefano del 1879 dove venne sancito il principio del blocco degli stretti. Il Sultano si impegnava così ad aprirli in tempo di pace a navi da guerra di potenze amiche e alleate. Questa soluzione si dimostrò accettabile ai sensi dei principi dell’equilibrio europeo.

Tra il 1895 e il 1896 l’Impero Ottomano fu colpito dagli attentati dei nazionalisti armeni. La debolezza di Istanbul fu contestuale ad un aumento dell’influenza russa e della conseguente crescita della preoccupazione inglese circa un ulteriore rafforzamento russo nella zona. Temendo che l’intervento della Gran Bretagna, potenzialmente sostenuta dall’Austria-Ungheria e sempre più in collisione con gli interessi russi nei Balcani, potesse determinare una sfavorevole revisione del diritto degli stretti, nel novembre del 1896 l’ambasciatore russo A.I. Nelidov sottopose allo Zar un piano per l’occupazione russa del Bosforo[6]. Tuttavia prima che si potesse prendere qualsiasi iniziativa a riguardo, nel 1897 scoppiò la guerra tra la Grecia e l’Impero Ottomano, che vide la Russia nei panni di attore secondario e che si concluse ancora una volta con l’affermazione del principio della chiusura degli stretti.

Nei primi anni del XX secolo l’attenzione di Pietrogrado si concentrò ad Est nel tentativo di ritagliarsi maggiori opportunità in Cina e Corea, ma successivamente ai tumultuosi giorni delle rivolte del 1905, l’interesse per il passaggio nel Mediterraneo delle flotte russe tornò a crescere. La situazione nei Balcani si fece negli anni successivi sempre più instabile. Nel 1911 l’Italia, intenzionata a conquistare la Libia, aveva dichiarato guerra all’Impero Ottomano che ancora ne vantava la sovranità. Questo conflitto motivò i governi degli Stati balcanici ad unirsi nella prima Lega con l’intento di espellere l’Impero Ottomano dall’Europa. L’obiettivo fu raggiunto, salvo per una sottile striscia di territorio al di qua degli Stretti. Ma la situazione non si stabilizzò e già nel 1913 scoppiò la Seconda Guerra Balcanica, questa volta contro la Bulgaria, rafforzatasi enormemente dopo il precedente conflitto. La situazione si fece più allarmante per l’Impero Russo quando nel 1913 il Sultano, che aveva richiesto la consulenza occidentale per il piano di riforme e ammodernamento che stava seguendo, ottenne che una missione tedesca addestrasse l’esercito. Ciò di per se non avrebbe allarmato Pietrogrado, ma quando il Sultano concesse ad un ufficiale tedesco il comando del distretto militare di Istanbul che dominava gli Stretti, la minaccia divenne troppo grande per lo Zar Nicola II, che vide le sue proteste accolte e sostenute anche dai governi di Parigi e Londra, ottenendo cosi il ritiro della nomina[7].

La questione degli stretti mantenne tutta la propria importanza strategico-politica durante gli ultimi anni della Russia zarista. Nel 1914 l’Impero Ottomano entrò in guerra al fianco degli Imperi Centrali. Questo fatto ebbe una significativa ripercussione sulle sorti della guerra e, più nello specifico, sulle sorti dell’Impero Russo. Con la chiusura degli stretti veniva meno una delle principali rotte di rifornimento che permettevano a Pietrogrado di mantenere lo sforzo bellico. Nel 1915 gli alleati cercarono di occupare gli stretti ed escludere l’Impero Ottomano dalla guerra, l’intento era complicato dal fatto che uno degli obiettivi dei russi durante la guerra fosse proprio quello di occupare per se gli stretti ed ottenerne il controllo permanente[8]. Viste le necessità di guerra, sia Francia che Gran Bretagna accettarono le richieste russe per il controllo della costa e delle isole del Mar di Marmara, ma il tentativo di occupazione terrestre degli stretti del 1915 si rivelò fallimentare. La pressione sul fronte occidentale russo e il congelamento di quello meridionale distolsero infine l’attenzione di Pietrogrado dagli stretti. Bisognerà attendere che un segretario del Partito Comunista (Bolscevico) salga al potere, prima che questo obiettivo storico russo torni ad essere una questione centrale della politica estera russa.

Durante tutta la Rivoluzione e la Guerra Civile la Russia ebbe ben altri problemi di cui occuparsi che non la questione degli stretti. Ad ogni modo debbono essere formulate alcune considerazioni. In primo luogo va rammentato che dal 1917 fino al 1920 la sorte dell’Ucraina non fu tale da garantire il controllo russo sulla costa del Mar Nero. Inoltre con il Trattato di Brest-Litovsk la Russia bolscevica non soltanto cedette importanti porzioni di territorio a Nord-Ovest, ma addirittura acconsentì ad alcune concessioni favorevoli all’Impero Ottomano nel Caucaso. Una volta stabilizzata la situazione interna e sconfitti gli oppositori esterni, Lenin poté negoziare nuovamente con la Turchia. Tuttavia, a partire dal primo dopoguerra la questione degli stretti iniziò a delinearsi come una questione sempre meno legata alla volontà di Ankara. La comunità internazionale, organizzata nella Società delle Nazioni, stabilì infatti una smilitarizzazione degli stretti da essa stessa garantita.

L’Unione Sovietica avendo riassorbito definitivamente i territori ucraini, tornò alla tradizionale politica nei confronti della Turchia e degli Stretti solo nel 1936. Con la Convenzione sugli Stretti di Montreux, ancora oggi vigente, si determinò la definitiva regolamentazione della navigazione negli stretti. Per garantire la sicurezza alla Turchia e agli Stati che si affacciano sul Mar Nero, si affermò il riconoscimento della piena libertà di transito delle navi mercantili di qualsiasi bandiera in tempo di pace, con la sola condizione di soddisfare i diritti di transito e le prescrizioni sanitarie. Oltre alla libertà di passaggio e navigazione in tempo di guerra per i mercantili dei Paesi neutrali, nelle ore diurne e rispettando rotte obbligate. Per quanto riguarda invece le navi da guerra, fu sancito l’obbligo di informare il governo turco otto giorni prima del transito, e solo per flotte di un massimo di nove unità e di una mole complessiva di 15.000 tonnellate. E’ inoltre previsto che possano superare tale limite solo i Paesi rivieraschi del Mar Nero, purché le navi passino singolarmente. Con riguardo allo stazionamento nel Mar Nero di flotte di Paesi non rivieraschi queste devono avere un tonnellaggio inferiore a 40.000 tonnellate. In tempo di guerra se la Turchia è neutrale è consentito il passaggio di navi da guerra di qualsiasi Paese purché non compiano atti ostili. Se la Turchia è parte di un conflitto può opporsi al passaggio di navi da guerra di qualunque Paese.

Stalin cercò ripetutamente di modificare a proprio favore la situazione. Nel 1939, quando il patto di non-aggressione Molotov-Ribbentrop era già stato sottoscritto, Mosca si adoperò per un accordo con la Turchia che potesse tutelare, ancora una volta, le proprie coste meridionali. L’accordo fu raggiunto solo in parte, infatti «quando l’Italia entrò in guerra nel 1940, la posizione franco-inglese sembrava disperata, e anche più tardi i turchi rifiutarono di affrontare la Germania, che occupava allora tutti i Balcani»[9]. Ciò decretò il ritorno a dinamiche diplomatiche turco-russe più tradizionali. La questione degli stretti tornò ad interessare le diplomazie degli Alleati durante le conferenze tenutesi nella seconda metà del conflitto, e per i primi anni del secondo dopoguerra. Come spesso accade in tempi di guerra, si tese ad essere più possibilisti riguardo alle richieste alleate viste le necessità belliche. Così a Teheran, Churchill si disse disposto a concessioni sugli stretti a favore di Mosca, nonché alla revisione della Convenzione di Montreux. Ma già a Potsdam, Churchill e Truman dichiararono che non ci sarebbero potute essere concessioni territoriali in merito.

Non potendo ottenere nulla dagli alleati, Stalin assunse una politica più diretta. Come ricorda Adam B. Ulam: «Nessuna delle mosse compiute dalla Russia nel dopoguerra può venire definita assolutamente imprevedibile. Nella maggioranza dei casi queste mosse avevano molti precedenti, alla luce delle aspirazioni secolari della politica estera russa»[10]. Tra il 1945 e il 1947 la diplomazia sovietica fu concentrata sull’offensiva contro la Turchia che mirava alla restituzione dei territori perduti nel 1917 e alla cessione di una base navale presso gli stretti che potesse garantire gli interessi sempre più globali della nascente potenza sovietica. Come si sa questa pressione, considerata legittima da Stalin, visti i trascorsi della Conferenza di Teheran, si dimostrerà essere una delle cause che condussero alla Guerra Fredda. Difatti l’attivismo sovietico in Turchia e in Grecia potrebbe aver spinto gli Stati Uniti all’elaborazione della dottrina Truman e del Piano Marshall.

Con la crisi di Cipro assistiamo oggi ad un’altra occasione in cui gli interessi di Mosca per il Mar Mediterraneo sono sotto gli occhi di tutta la comunità internazionale. La crisi cipriota, esplosa negli ultimi giorni, è dovuta principalmente ai forti vincoli tra il sistema bancario dell’Isola e quello greco. Cipro, membro UE dal 2004, nel corso degli ultimi anni ha basato la propria crescita attirando ingenti capitali stranieri, in particolare russi, grazie al segreto bancario e ad alcuni vantaggi fiscali. A partire dal 1991 si è assistito ad una ingente immigrazione russa a Cipro, tanto che alcune città, come Limassol, hanno ora negozi, scuole, banche, giornali e televisioni russe. Non solo, circa 2.000 imprese russe sono oggi registrate a Cipro e il flusso di capitali russi ammonterebbe a 43 miliardi di euro, la metà dei quali si stima siano provenienti da attività illecite. Di fronte al collasso imminente, il governo di Nicosia ha avuto due opzioni in agenda: negoziare con UE, BCE e FMI un piano per il salvataggio dell’Isola o ottenere l’aiuto della Federazione Russa – strade che non si escludono a vicenda. La delegazione inviata a Mosca e composta dal Ministro delle Finanze cipriota, Michalis Sarris, e dal collega, Lorgos Lakkotry, Ministro dell’Energia, sembra aver ricevuto un net dal Cremlino, che tuttavia ha fatto sapere, tramite il primo ministro Dmitrij Medvedev, che nessuna porta sarebbe stata chiusa a Cipro; la Federazione Russa sarebbe stata disponibile non appena si fosse trovato e completato un accordo con l’Eurogruppo. L’accordo è stato raggiunto il 25 marzo ed ha subito suscitato il malcontento di Mosca. La scelta europea, infatti, è prevista andare a pesare sui capitali russi di Cipro per un ammontare che varia tra i 2 e i 3 milioni d’euro di tasse. Il Cremlino, che già nel 2011 aveva fornito un prestito di 2,5 miliardi di euro, ha immediatamente reagito definendo l’operazione un “saccheggio del bottino” oltreché “ingiusta e pericolosa“.

Certamente gli interessi della Russia non si limitano ai capitali presenti nell’Isola. Cipro costituisce un fondamentale partner strategico di Mosca nel Mediterraneo e uno dei fondamentali tasselli della sua politica estera nel bacino. In primo luogo Cipro rappresenta uno snodo fondamentale per il commercio di armi verso i principali alleati della Russia nell’area: Siria, Libano e Iran. In secondo luogo a causa dei ricchi giacimenti di gas scoperti lo scorso anno nell’area meridionale dell’Isola, che suscitano il grande interesse di Gazprom e di Mosca, sempre attenta che la sua politica energetica e di trasporto di gas e petrolio si riveli efficace nello scacchiere mediterraneo. L’importanza che ricopre Cipro nella politica russa nell’area è quindi di grande rilievo e, ad ulteriore riprova di questo coinvolgimento, v’è l’assoluta continuità nel sostegno russo presso l’ONU alla comune opposizione verso la proposta turca di riconoscere la Repubblica Turca di Cipro del Nord. Non deve stupire quindi che l’insoddisfazione di Mosca per il prelievo forzoso possa trovare una compensazione concedendole maggiore influenza politica ed energetica sull’Isola.

Mosca ha quindi ancora interessi vitali nel bacino del Mediterraneo e la questione degli stretti potrebbe rilevarsi nel lungo periodo non ancora risolta completamente, soprattutto alla luce della crescente instabilità generale dovuta alle principali vicende politico-economiche nelle regioni affacciate su questo mare – vicende che hanno sempre coinvolto il Cremlino. Da un lato la crisi finanziaria ed economica dei Paesi dell’Europa Meridionale, la crescita economica della Turchia e la presenza ancora rivelante degli Stati Uniti nel bacino; dall’altro le difficoltà dei nuovi regimi sorti a seguito delle rivolte della “primavera araba”, nonché le irrisolte questioni libica e siriana.




[1] Si trattava di due clausole contenute nel trattato di Bucarest del 1812.

[2] Poi indipendenza con il protocollo di Londra del 1830.

[3] Seton-Watson H., The Russian Empire 1801-1917, Clarendon Press, Oxford, 1967; trad it. Storia dell’impero russo (1801-1917), Giulio Einaudi Editore, Torino, 1971, p. 275.

[4] Ibidem, p. 294.

[5] Se non indiretto tramite la Bulgaria.

[6] Ibidem, p. 523.

[7] Ibidem, p. 632.

[8] Il progetto prevedeva Costantinopoli sotto controllo internazionale e acquisizione dell’entroterra da parte del governo russo.

[9] Ulam A. B., Expansion and coexistence: the history of the Soviet Foreign Policy 1917-1967, New York Praeger, New York, 1969; trad. it. Storia della politica estera sovietica (1917-1967), Rizzoli Editore, Milano, 1970, p.412

[10]Ibidem, p. 610.

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DA BENEDETTO XVI A FRANCESCO I, ANALISI DELLE SFIDE GEOPOLITICHE CHE ATTENDONO LA CHIESA CATTOLICA

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Dopo otto anni di pontificato, Papa Benedetto XVI il 28 febbraio alle ore 20.00 ha rinunciato ufficialmente al soglio pontificio, come gli permette una clausola del diritto canonico. Da quel giorno Benedetto XVI, pontefice emerito, si è ritirato in Castel Gandolfo, da dove ha assistito all’elezione del suo successore Papa Francesco I. Una volta ultimato il restauro del convento di clausura, situato presso le antiche mura leonine nella Città del Vaticano, il Papa emerito vi si trasferirà per continuare a meditare e pregare. L’annuncio di Ratzinger ha lasciato interdetti sia molte alte cariche, che i maggiori esperti vaticanisti. Da tempo si sussurrava tra le stanze della Città Santa di una possibile rinuncia al papato; tuttavia, non si teneva troppo in considerazione questa ipotesi, in quanto il Papa continuava a prendere impegni per il 2013, da lui dichiarato l’Anno della Fede.

 

 

Le cause della rinuncia di Benedetto XVI 

Oggi la Chiesa è esposta su più fronti a numerosi attacchi e critiche. Probabilmente, dunque, Benedetto XVI sentiva sulle sue spalle il peso crescente dei problemi della Chiesa Cattolica, alcuni dei quali, recentemente, hanno assunto una gravità maggiore, come i vari scandali legati a episodi di pedofilia e lo scandalo Vatileaks. (1)

Dunque, la scelta del Papa emerito si presenta come una novità e la sua portata è decisamente storica. Alcune alte cariche del clero cattolico hanno tentato di darne una spiegazione, attribuendo all’età avanzata del pontefice la causa principale di tale scelta: certamente è un’analisi riduttiva, che non prende in considerazione alcuni scenari.

Innanzitutto, bisogna valutare l’influenza degli scandali che hanno coinvolto la Chiesa Cattolica negli ultimi anni. Gli episodi di pedofilia commessi da alcuni esponenti del clero hanno colpito profondamente l’opinione pubblica mondiale; a fronte degli scandali urlati dai media di tutto il mondo, Benedetto XVI si è esposto personalmente condannandoli in Piazza San Pietro, indebolendo, in questo modo, la sua figura, e prestandosi a ulteriori critiche provenienti dal mondo laico e cattolico.

Altro fronte caldo emerso di recente è il caso Vatileaks. Il Papa stesso aveva ordinato la stesura di un rapporto completo sulla vicenda, che sarebbe stato presentato nelle Congregazioni Generali a marzo ai cardinali elettori. La vicenda di Paolo Gabriele, ex assistente di camera del pontefice che sottrasse documenti sensibili e altamente riservati, si è conclusa con la grazia concessa a quest’ultimo dal Papa in persona. Tuttavia, restano ancora dei retroscena da svelare, di cui certamente Benedetto XVI era a conoscenza, riguardanti personalità di alto profilo del palazzo apostolico, che potrebbero emergere in un prossimo futuro. (2)

Per concludere, poi, la serie di difficoltà affrontate da Benedetto XVI nel 2012 bisogna citare anche le vicende riguardanti l’Istituto per le Opere Religiose, IOR. L’ex presidente dell’Istituto, scelto per quella posizione da Ratzinger in persona, si attivò subito per attuare una serie di provvedimenti che avrebbero permesso allo Stato del Vaticano di entrare finalmente nella “Lista bianca”: la lista di Stati che hanno un sistema finanziario relativamente trasparente, e che adottano misure antiriciclaggio. Le azioni di Tedeschi, però, mossero le torbide acque del Vaticano, facendo preoccupare non poche figure. Alla fine, il presidente fu sfiduciato dal Consiglio di Sovrintendenza della Banca Vaticana. Come suo successore è stato eletto, recentemente, il tedesco Ernst von Freyberg, in un tentativo di allontanare il centro di potere dell’Istituto dalla Città Eterna.

Troppe crepe hanno reso instabile la Città del Vaticano, cosicché il pontefice tedesco non si è sentito più sicuro e, invece di continuare a reggere un simile incarico senza la forza necessaria, anche fisica, ha preferito rinunciare al soglio pontificio e rimescolare le carte in tavola. Una scelta estrema, che ha certamente creato un precedente significativo nel diritto canonico.

A posteriori si può, dunque, ritenere che la scelta di Benedetto XVI sia maturata con la consapevolezza che la Chiesa Cattolica, anche attraverso le Congregazioni Generali tenutesi a Roma prima del Conclave, avrebbe riflettuto sulle sfide attuali e future e avrebbe scelto una figura adatta per guidare i cattolici in un momento così decisivo.

 

 

L’elezione del nuovo pontefice 

Si è giunti, così, all’elezione del cardinale Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco I.

L’elezione del nuovo pontefice ha lasciato interdetti, ancora una volta, i principali vaticanisti. Jorge Mario Bergoglio fu il secondo cardinale più votato durante il Conclave del 2005, che portò all’elezione di Benedetto XVI; tuttavia, la sua elezione era ritenuta improbabile, vista la sua età avanzata, 76 anni.

Uno dei favoriti all’inizio del Conclave era il cardinale Ettore Scola: la sua figura di teologo conservatore e la sua esperienza, prima a Venezia, e poi a Milano, facevano di lui una figura forte che avrebbe saputo affrontare la crisi attuale. Tuttavia, il suo stretto legame con Comunione e Liberazione è stato il fattore che ne ha determinato la sconfitta. (3)

Secondo alcune indiscrezioni, il Cardinale Scola avrebbe ottenuto, fin dal primo scrutinio, diverse decine di voti, ma non abbastanza per farlo eleggere, vista anche l’opposizione dei cardinali extraeuropei.

All’interno del conclave, Cardinali come Bertone e Sodano hanno svolto un ruolo determinante, come pontieri fra diversi schieramenti. Essi si sono opposti alla candidatura di Scola, cercando di creare una cordata che raccogliesse i voti di chi gli si opponeva. (4) Durante i pasti consumati nel refettorio di Santa Marta, i cardinali avrebbero deciso di optare per un’altra figura che avesse l’appoggio e il carisma necessario, ed ecco dunque che la scelta ricadde su Jorge Mario Bergoglio.

 

 

Papa Francesco I, profilo e sfide future

Papa Francesco fu nominato vescovo ausiliare di Buenos Aires nel 1992 da Papa Giovanni Paolo II e, successivamente, arcivescovo nel 1998. Appartiene all’ordine dei gesuiti, fondato nel 1539 da Ignazio de Loyola e legato al Papa da uno speciale “voto di obbedienza”. L’ordine si distinse nei secoli successivi per essere sempre in prima linea nei territori da evangelizzare, soprattutto nelle Americhe a seguito della colonizzazione di spagnoli e portoghesi. La difesa e la propagazione della fede sono fra i loro compiti principali; Francesco I, quindi, dovrà fare sua questa regola dell’ordine, e impegnarsi per riconquistare il terreno perduto dalla Chiesa Cattolica proprio nella sua terra, il Sudamerica.

Papa Francesco I è il primo Papa sudamericano della storia; egli ha origini italiane e, quindi, può comprendere entrambi i mondi, quello europeo e quello sudamericano, dove oggi risiede il 42% dei cattolici del mondo. Tuttavia, il primato della religione cattolica in quell’area è minacciato dal diffondersi delle chiese riformate dell’America del Nord.

Sostenute da ingenti fondi raccolti nel Nord, i protestanti hanno lanciato una campagna di conversione che attrae numerosi cattolici. Questa campagna si basa, da un lato, su una forte propaganda condotta attraverso i principali mezzi d’informazione fatta di slogan accattivanti e, dall’altro, da un’assistenza promossa da queste Chiese verso i meno abbienti. Da qui parte l’ulteriore offensiva mirata alla Chiesa Cattolica, le cui alte cariche sono spesso percepite come distanti dalla popolazione in difficoltà e troppo spesso vicine ai centri di potere politico. La percentuale di riformati, oggi, si aggira intorno al 15% in Cile e Colombia, 10% in Argentina e Venezuela. L’elezione di un pontefice carismatico, con un passato vissuto tra le baraccopoli della capitale argentina, non può che essere un’arma decisiva nello scontro con le Chiese riformate, per l’evangelizzazione di nuovi fedeli in America latina. (5)

Dal continente americano potrà ripartire, in seguito, la controffensiva della Chiesa Cattolica a livello mondiale. Africa e Asia sono le altre frontiere sulle quali dovrà concentrarsi l’attività ecumenica della Chiesa. Per farlo in modo efficace, Francesco I dovrà sensibilizzare anche l’alto clero cattolico, proveniente per due terzi dall’Europa e dal Nord America, a pensare e operare maggiormente in quelle aree dove l’importanza del cattolicesimo cresce di anno in anno. Un’inversione di tendenza rispetto al pontificato di Benedetto XVI, che aveva dato maggiore importanza all’Occidente, spendendosi nel tentativo di rievangelizzazione del vecchio continente. Francesco I è decisamente più un pastore che un accademico come il suo predecessore, e questa qualità sarà fondamentale in un’epoca di cambiamento negli equilibri mondiali. (6)

La scelta di Bergoglio può essere anche dovuta all’intenzione di contrastare il tentativo delle sinistre del continente sudamericano, che cercano di attrarre e guadagnarsi la fiducia dei milioni di poveri. Provenendo da una città che ospita ai suoi confini milioni di abitanti, che vivono in situazioni di estrema povertà, ed essendo abituato a gestire una rete capillare di sottoposti che agiscono proprio in tale contesto, Papa Francesco potrà abilmente presentare il volto di una Chiesa caritatevole e umile.

Tuttavia, Francesco I appartenne alla linea più conservatrice interna al suo ordine, quando, durante gli anni Settanta, i gesuiti furono influenzati dalle tesi della teologia della liberazione, accogliendole in parte. Secondo questa particolare interpretazione, il messaggio cristiano andava letto secondo una chiave radicale e politicizzata, che insistesse sull’emancipazione sociale. Il cardinale Bergoglio prese posizione contro questa particolare corrente, schierandosi invece con la visione più conservatrice di Roma (7). Inoltre il cardinale Bergoglio è diventato un convinto oppositore del governo Kirchner, sostenendo l’opzione delle “unioni civili” come “male minore” rispetto ai cosiddetti “matrimoni” omosessuali.

Il rapèporto conflittuale fra Bergoglio e il capo di Stato argentino si è disteso durante il loro primo incontro ufficiale, che ha visto i due Capi di Stato confrontarsi su vari temi, tra cui anche la questione delle Isole Malvine, per le quali la Presidente argentina ha chiesto al pontefice di intercedere presso il governo britannico. Ovviamente la questione ha irritato il governo di Londra e non avrà seguiti diplomatici (8).

Altro tema indagato a fondo dopo l’elezione di Francesco I sono i suoi passati rapporti, in quanto Superiore Provinciale della Compagnia di Gesù, con la dittatura militare durante la fine degli anni Settanta. A oggi, nonostante pesanti critiche gli siano state rivolte dopo l’elezione, in particolare dal giornalista Horacio Verbitsiky, non è stato provata alcuna relazione tra il nuovo Papa e la dittatura argentina (9).

Il nuovo pontefice sembra per ora la figura adatta a riconquistare la fiducia dei credenti e a raggiungere gli obiettivi che la Chiesa si è posta. Alla luce di questa elezione, si può ancora una volta confermare il carattere decisivo dell’abdicazione di Benedetto XVI in favore di una figura più forte.

Sono numerose le sfide che attendono il nuovo Pontefice, ma lo stile con cui egli si prepara ad affrontarle intende sottolineare il  contrasto con le abitudini che sono state imputate alla Curia, tanto che già viene paventata la possibile convocazione un Concilio Vaticano III.

 

 

 

 

*Andrea Rosso è laureando in Scienze Politiche – Studi Internazionali ed Europei presso l’Università degli Studi di Padova

 

 

 

(1)http://vaticaninsider.lastampa.it/documenti/dettaglio-articolo/articolo/dimissioni-23042/

(2)http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/vatileaks-vaticano-vatican-19638/

(3)http://www.washingtonpost.com/world/europe/italys-cardinal-angelo-scola-is-viewed-as-a-safe-pick-to-become-the-new-pope/2013/03/12/6c1ff430-8aa9-11e2-98d9-3012c1cd8d1e_story.html?tid=pm_world_pop

(4)http://www.corriere.it/esteri/speciali/2013/conclave/notizie/15-marzo-accordo-che-ha-portato-oltre-90-voti-calabro_13d454b0-8d38-11e2-b59a-581964267a93.shtml

(5)http://www.geopolitica-rivista.org/20939/il-papa-dalla-fine-del-mondo-e-le-sue-sfide-una-lettura-geopolitica-del-conclave/

(6)http://www.geopolitica-rivista.org/20939/il-papa-dalla-fine-del-mondo-e-le-sue-sfide-una-lettura-geopolitica-del-conclave/

(7)http://www.ilpost.it/2013/03/13/chi-e-papa-francesco-i/

(8)http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/francisco-francesco-francis-23358/

(9)http://www.ilpost.it/2013/03/19/testimonianza-bergoglio-dittatura-argentina-videla/

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CRISI IN COREA: LA PARTITA IN GIOCO

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Lo “stato di guerra” e lo sviluppo dell’armamento nucleare (definito da Kim Jong Un l’unico “deterrente” contro la guerra e pilastro su cui costruire “pace e prosperità”, quindi non un atto aggressivo, ma difensivo) dichiarato dal nord; l’intensificazione delle manovre militari congiunte sudcoreane-statunitensi. Queste sono in estrema sintesi le sporadiche notizie giunte ai media occidentali.

Ma la posta in gioco della nuova “guerra fredda” intercoreana sembra decisamente più corposa. Innanzitutto va sottolineato che anche gli analisti occidentali non registrano sostanziali movimenti di truppe del nord, tanto da far sembrare poco plausibile un’aggressione nordcoreana al sud e sembra che ci sia stata assicurazione in tal senso da alti esponenti dell’esercito a controparti cinesi. Quindi cosa si nasconde dietro alle dichiarazioni energiche del giovane leader Kim Jong Un? Principalmente una reazione alle manovre congiunte Seul-Washington Key Resolve e Foul Eagle, che prefigurano senza dubbio un atto di guerra (con tanto di proteste delle associazioni pacifiste e per l’Unificazione della penisola), visto che prevedono la mobilitazione di forze militari non indifferenti (oltre 45.000 soldati) a cui va aggiunto l’invio dei bombardieri F-22 Raptor nella penisola, e allo stesso tempo un segnale nei confronti di Cina e Russia, che in sede ONU avevano approvato le nuove sanzioni contro la RPDC, in seguito al lancio del missile balistico intercontinentale di inizio marzo. Un messaggio al mondo, sia agli alleati sia ai nemici, di un presidente giovane ma sicuramente non sprovveduto, come viene dipinto da Occidente, che in poco più di un anno ha saputo mantenere inalterato il complicato sistema di potere a Pyongyang, ottenendo la fiducia dei due grandi pilastri su cui si reggono il governo e la dottrina Songun: cioè Partito ed Esercito. Inoltre è il primo presidente nordcoreano che ha la prospettiva di muoversi in uno schema mondiale veramente multipolare: ciò a differenza del nonno, Kim Il Sung, che ha retto il paese durante la guerra fredda (è morto nel 1994) e del padre, Kim Jong Il, che è stato Presidente nell’epoca dell’unipolarismo e della “fine della storia”, dovendo subire anche la dura prova dell’“Ardua marcia”, cioè del periodo di crisi intensa dovuta alla caduta del socialismo reale e a catastrofi naturale (1994-2011). Il giovane Kim può contare su alleanze forti (considerando che Russia e Cina partecipano anche al BRICS e allo OCS) che si possono porre su un piano di parità con la potenza statunitense, già ammonita in merito a soluzioni unilaterali, oltre che su una serie di interlocutori in potente crescita economica e geostrategica, come Thailandia, Mongolia e Iran, che potrebbero fungere da forze di intermediazione nella disputa, e su una serie di “simpatizzanti antimperialisti” come Venezuela, Cuba e Siria che potrebbero movimentare non indifferenti “masse critiche” contro un’aggressione nei confronti dello stato socialista, principalmente nelle popolazioni latinoamericane e nel mondo arabo. A ciò va aggiunto un esercito (Chosŏn inmin’gun, l’Armata Popolare Coreana) che, nonostante debba pagare il fio nei confronti della controparte sudcoreana negli aspetti prettamente tecnologici, può contare su un’unità di intenti, su un numero di soldati che ne fa il quarto esercito al mondo (1 milione e 200 mila unità, con una riserva che si aggira attorno ai 4 milioni e mezzo di uomini), e su una conoscenza dell’ostico territorio della penisola e dei siti strategici su cui i servizi americani e sudcoreani sono in notevole difficoltà. C’è inoltre la consapevolezza di aver superato il periodo più duro e di ristrettezza economica e il paese è in progressivo sviluppo economico, verso una vera prosperità, magari guardando anche alle politiche di sviluppo portate avanti dalla Cina.

Nella prospettiva del potere nordcoreano quindi non manca la fiducia nella risoluzione positiva dell’annosa divisione forzata e antistorica della penisola coreana.

Va ricordato, in sede storici, che nella conferenza di Jalta la suddivisione del mondo voluta da USA e URSS non prevedeva la divisione della penisola coreana, che fu definita Stato “neutrale”. Solamente un colpo di mano statunitense contro le armate di Kim Il Sung, liberatore della Patria, privò il popolo coreano dell’effettiva unificazione, ponendo il confine al 38° parallelo per una semplice questione strategica.

Nella partita entrano di diritto i due alleati, nonché paesi confinanti, di Pyongyang: Cina e Russia. La Cina, in caso di conflitto, difficilmente potrebbe esimersi dall’intervento a favore del Nord. Ragioni storiche, culturali, ideologiche e geopolitiche sono tutte dalla parte di un’alleanza tra Pechino e Pyongyang. Tanto più che la Cina deve farsi “perdonare” almeno due scelte politiche che sono state vissute come una sorta di tradimento dal Partito del Lavoro di Corea: il riconoscimento di Seul e le recenti sanzioni in sede ONU (anche se è evidente che la scelta di Pechino era del tutto naturale nel momento in cui gli accordi a 6 erano stati violati). Ma la solidarietà con i “fratelli d’armi” nordcoreani non è mai venuta meno, e Pyongyang lo sa (non a caso il “viaggio di investitura” di Kim Jong Un è avvenuto in Cina). A sostegno di questa tesi è stato recentemente rimosso il vicedirettore del quotidiano della Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese, Deng Yuwen, fortemente critico verso Pyongyang.

Anche la Russia, pur non intervenendo direttamente nella disputa, avrebbe grosse problematiche a lasciare strada libera agli Stati Uniti nell’invasione del Nord, soprattutto considerando che con una presa di Pyongyang, le forze militari di Washington si troverebbero ad un tiro di schioppo da Vladivostok, completando di fatto quell’accerchiamento ad oriente che ha le sue roccaforti nell’Alaska, in Guam, nelle Hawaii, nel Giappone e a Seul e che ora trova un contenimento solo dalla presenza della RPDC e dalla fermezza cinese su Tibet e Xinjiang.

Ma in definitiva l’unico vero interlocutore che può sbloccare lo stallo sembra essere la Corea del Sud. È nota la posizione di Pyongyang, già proposta negli anni ’60 a Seul, con una straordinaria lungimiranza, da parte di Kim Il Sung: confederazione coreana dei due stati, con due sistemi distinti, ma pienamente democratici e soprattutto liberi da qualsivoglia presenza militare straniera e quindi sovrani. Se al nord la presenza straniera è ormai un lontano ricordo, al sud è ancora invadente la presenza americana (oltre 60.000 soldati e 19 installazioni militari). E a Seul sembra non ci sia la volontà di ottenere una vera sovranità. L’accordo fu anche posto sul tavolo delle trattative a fine degli anni ’90 e nei primi anni 2000, con la riduzione della presenza statunitense ad una sorta di “Guantanamo coreana”, cioè in una base extraterritoriale nel sud della penisola. Ma vuoi l’effimera crescita economica sudcoreana (effimera perché pompata a dismisura da investimenti speculativi statunitensi e spinta da un turbocapitalismo completamente estraneo alla storia coreana, tant’è che è sempre presente una forte critica sindacale e socialista a queste misure) e la presa di posizione di George Bush contro Pyongyang (inserita nell’Asse del male), pose fine al dialogo e all’apertura. Ma la partita sul tavolo è ancora attuale: avrà la Corea del Sud il coraggio di accettare l’unica strada percorribile per la riunificazione, abbandonando l’alleato (o per meglio dire, il sovrano) statunitense e incamminandosi nel percorso di sviluppo asiatico dettato dalla Repubblica Popolare Cinese?

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COME USCIRE DALLA CRISI COREANA. INTERVISTA AD ALDO COLLEONI

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Intervista a cura di Marco Bagozzi
 
Aldo Colleoni, già Docente di Geopolitica ed autore di 120 pubblicazioni, è indubbiamente l’italiano che da più tempo e in modo più approfondito conosce la Repubblica Democratica Popolare di Corea: i suoi rapporti coi dirigenti coreani risalgono agli anni ’70. Ha ricoperto il ruolo di Presidente dell’Ufficio di Corrispondenza Commerciale con l’Italia per oltre dieci anni prima della apertura delle relazioni diplomatiche tra i due Stati, alle quali ha contribuito in modo determinante. Colleoni ha aperto a Pyongyang nel 1980 il primo ufficio europeo, ricevendo attestazioni di solidarietà dallo stesso Presidente Kim il Sung e da suo figlio Kim Jong Il, allora dirigente del Partito, dal quale è stato decorato con l’onorificenza di Stato, l’Ordine della Fratellanza. Ha tenuto corsi sulla economia occidentale a Pyongyang e ha visitato il Paese, le fabbriche, il 38° parallelo e le difese militari; ha gestito nel Mediterraneo la flotta mercantile della RPDC aprendo un ufficio a Trieste con personale coreano; ha guidato e organizzato la visita in Corea delle prime delegazioni ufficiali italiane prima della apertura delle relazioni diplomatiche. Colleoni è ancor oggi in contatto permanente con esponenti delle strutture di Partito e di Governo della RPDC.

 

 

D. Perchè si è creata questa situazione di tensione nell’area?

R.  Durante la visita del Presidente Obama ad Israele, dopo la sconfitta militare e politica degli USA in Iraq e Afganistan, dalle sue dichiarazioni è emersa la chiara volontà dei gruppi di potere dell’industria di armamenti USA di aprire  nuovi fronti di guerra: il primo contro l’Iran a sostegno di Israele ma in realtà mirante alle grandi riserve petrolifere iraniane e il secondo quale monito al continuo rafforzamento della Repubblica Popolare di Cina, che ha sostituito la presenza dell’URSS nell’America centrale e meridionale, in Africa e in Asia.

 

D. Qual è il ruolo della RPDC in questo contesto?

R, – Nella Corea del Sud è presente una delle più grandi basi USA con armamento atomico per il controllo della Cina, della Russia siberiana e della RPDC. Da questa base è partita la provocazione – ormai ricorrente ogni anno – contro la RPDC, denominata manovra congiunta con la Sud Corea. Ma ad aggravare questa volta la situazione è stato l’arrivo di nuovi bombardieri e aerei spia invisibili per monitorare il territorio nordcoreano, che ha provocato una giusta, decisa e coraggiosa reazione da parte della RPDC e del suo giovane dirigente. Lo scopo come sempre è il tentativo degli USA di far insorgere la popolazione del Nord contro il Partito e il Governo, per insediare un regime filoamericano come al sud ai confini della Repubblica Popolare Cinese, la vera grande potenza mondiale del XXI secolo. Il tentativo anche questa volta è fallito, perché popolo, esercito, partito si sono stretti attorno al loro Presidente. E’ un chiaro messaggio, rivolto  agli USA, di rifiuto delle ingerenze straniere nel processo pacifico di riunificazione della penisola coreana, processo che avanzava decisamente nel reciproco interesse. Ciò ha scatenato la provocazione USA, tesa a bloccarlo per evitare la riunificazione e  la conseguente formazione di uno Stato confederale di 60 milioni di abitanti, che certamente non avrebbe più gradito la presenza della grande base militare americana.

 

D. Quali possibili passi per uscire dalla crisi e rilanciare il processo di pacifica riunificazione?

R. – La soluzione è semplice: ripristinare la situazione geopolitica dei primi mesi di questo anno. In concreto, ciò significa: sospendere immediatamente le manovre congiunte con il sud contro la RPDC, ripristinare gli accordi di Ginevra voluti dalla amministrazione Clinton, organizzare un incontro immediato a Ginevra dei tre Ambasciatori di USA, RPDK, Sud Corea, per confermare i due punti precedenti e fissare la data per la firma del trattato di Pace che metta fine all’armistizio del 1953.

 

D. Professore, ritiene che questi tre punti possano risolvere lo stato di tensione attuale?

R. – Certamente rappresentano i punti essenziali per ripristinare i contenuti degli accordi di Ginevra voluti da Clinton, per poi procedere celermente sulla strada della riunificazione pacifica senza ingerenze straniere, già concordata e in fase di positiva attuazione tra le due Coree.

 

 

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UN “OMBRELLO” DA RIFIUTARE NELL’INTERESSE EUROPEO

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Il caso del MUOS di Niscemi risolleva la questione delle basi statunitensi disseminate per l’Italia, l’Europa e il pianeta. Chi critica la decisione di fermare la costruzione della base in Sicilia argomenta tirando in ballo la logica del “non nel mio cortile”; cioè: vogliamo sì le comodità e le sicurezze della modernità, senza però volerne pagare il prezzo. Il punto è, tuttavia, proprio questo: abbiamo ancora bisogno dell’ombrello nordamericano? La Guerra Fredda è finita da un pezzo, non viviamo più in un mondo bipolare, spaccato tra il blocco statunitense e quello sovietico. Ora la situazione è più frammentata, e l’Europa potrebbe essere più forte e rivendicare strategie geopolitiche indipendenti dalla politica estera degli USA.

Per prima cosa, l’Europa dovrebbe cercare di appianare i suoi dissidi e le sue rivalità intestine, e cercare di stabilizzare e rendere più equa la situazione economica al suo interno. Le enormi sperequazioni tra i vari Stati membri ci offrono un’Europa a velocità diverse, ma con la stessa moneta, per cui c’è già chi parla di creare un euro forte e uno debole. Ovviamente un tale sistema non può reggere per molto tempo e in tutto il Continente proliferano i gruppi politici che invocano l’uscita dalla moneta unica. Guardare per prima cosa al proprio interno, dunque, e per seconda cosa consolidare o creare i rapporti con i cosiddetti Paesi emergenti, cercare di spingere la ricerca verso fonti energetiche alternative, e nei limiti del possibile pulite, visto che l’Europa non ne dispone molte.

Contemporaneamente, l’Europa dovrebbe munirsi di un esercito unitario e, a quel punto, che senso avrebbe per le forze statunitensi rimanere? Le ragioni di tale permanenza le ha fornite chiaramente Mark P. Hertling, Comandante delle Forze Statunitensi in Europa: “L’Europa è un’area strategica da cui possiamo supportare operazioni che si svolgono in questo emisfero, mentre lavoriamo con i nostri alleati e partner e in questo modo il nostro obiettivo è quello di rispondere a tutte quelle sfide che stanno emergendo nel XXI secolo”.

Solo in Italia i militari statunitensi sono 2.600, in tutta Europa 40.000 (dati del 2012). Obama ha sì detto che intende ridurre il numero dei militari in Europa, di circa 10.000 unità, ma le spese in campo bellico rimangono ancora una priorità per gli Stati Uniti. La Cina ha superato gli Stati Uniti come volume d’affari, ma dal punto di vista militare è ben lungi dal raggiungerli; se la Cina ne ha spesi poco più di 100, questi ultimi hanno, infatti, raggiunto quasi i 700 miliardi di dollari nel 2012, cui si aggiungono gli sforzi dei suoi alleati al di là dell’Atlantico, e tutto questo materiale dovrà, prima o poi, essere usato.

Il caso del MUOS, poi, coinvolge anche la questione dei droni e, con essi, la forma di guerra più vigliacca mai condotta nella storia. Il Presidente degli Stati Uniti, Premio Nobel per la Pace e Comandante in Capo del più potente esercito del mondo, ha dichiarato che, se potesse, manderebbe in Afghanistan solo automi, per non sacrificare la vita dei militari suoi connazionali; difatti, ha intensificato l’uso dei droni, dispiegandone molti di più di quanto non fece l’amministrazione Bush Jr.

All’interno di questo quadro, è interessante osservare il caso del Kosovo. Un fazzoletto di terra dentro la Serbia, a maggioranza albanese, si dichiara indipendente; gli Stati Uniti appoggiano la richiesta e, nonostante il Consiglio di Sicurezza Onu non appoggi l’intervento, intervengono militarmente adducendo come motivo una pulizia etnica effettuata da Milosevic. Il Kosovo ottiene così l’indipendenza e la più grande base statunitense di tutta Europa. La posizione strategica e geopolitica è importantissima: in funzione antirussa e per il controllo dei flussi di petrolio che coinvolgono l’area del Mar Caspio, il Vicino Oriente, l’Europa orientale e parte di quella mediterranea. A questa base (Bondsteel) sono da affiancare quelle situate in Romania, Bulgaria, Croazia e Montenegro.

Non deve, quindi, stupire quanto detto dall’ex-segretario di stato Hillary Clinton nell’aprile del 2012 e cioè che gli USA si impegneranno affinché il Kosovo entri non solo nella NATO, ma anche nella UE.

C’è però la questione Regno Unito, che in virtù della “speciale amicizia” che lo lega agli USA, e delle relazioni tra la borsa di Londra e quella di New York, sembra tenere molto di più all’alleato oltreoceano che all’Europa. Del resto recentemente David Cameron ha annunciato che la permanenza nella UE è in discussione. Dovrebbe quindi decidere cosa volere fare da grande, continuare a seguire gli USA nelle loro politiche economiche ed estere, o cercare, assieme a tutto il resto dell’Europa, una via alternativa?

Similmente la Francia dovrebbe lasciarsi alle spalle la sua storia coloniale, e non intromettersi più nelle questioni interne a quelle che considera ancora le proprie colonie.

L’Europa, infine, non dovrebbe persistere nella scelta di assecondare gli USA nella loro politica nel mondo arabo e musulmano, ma dovrebbe trovare rapporti diversi; in tale compito dovrebbe impegnarsi in particolare l’Italia, che per posizione geografica e relazioni storiche ha sempre avuto rapporti privilegiati con alcuni Paesi arabi. Questa inversione di rotta produrrebbe, oltre tutto, il non trascurabile risultato di sfoltire le schiere dell’estremismo settario, contribuendo alla pacificazione dell’area.

 

 

* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.
 

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IL RITORNO DEI MARO’

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La contesa tra i governi dell’Italia e dell’India va avanti da Febbraio (dell’anno scorso, ndt), quando due marò italiani furono catturati e arrestati dalle autorità indiane nella regione del Kerala. I due militari erano in servizio per conto della Marina come contractor a bordo della petroliera privata italiana Enrica Lexie. Il 22 febbraio sono stati coinvolti in un caso di omicidio. Due pescatori indiani sono stati uccisi nello stesso spazio marittimo. Qualche ora dopo, la Guardia Costiera Indiana bloccò la nave e ordinò all’equipaggio di attraccare al porto di Kochi.

Da allora, l’India ha sempre considerato la questione sotto la sua giurisdizione e l’Alta Corte del Kerala continua a rivendicare il pieno diritto a condurre le indagini e a stabilire la competenza processuale. Tuttavia il governo italiano reclama una propria competenza specifica, in base all’ipotesi che il duplice omicidio sia avvenuto in acque internazionali.

L’ultimo braccio di ferro è cominciato quando il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi ha deciso di non rispettare l’accordo con il primo ministro indiano Manmohan Singh, trattenendo i marò in Italia e bloccando il loro ritorno in India dopo un permesso per fare temporaneamente ritorno in Italia in occasione delle elezioni politiche. Il governo indiano ovviamente ha condannato questa decisione e Singh l’ha reputata inaccettabile, minacciando ripercussioni nei rapporti bilaterali tra i due Paesi durante un discorso ufficiale al Parlamento.

L’opinione pubblica indiana si è immediatamente concentrata su questa disputa. La memoria dell’era imperiale è ancora forte in India, dove il nazionalismo indù si oppone tanto all’eredità dell’Impero Britannico quanto a quella degli “invasori” del Mughal islamico, che governarono l’India nel passato. Il colonialismo resta una delle tracce più negative sull’eredità storica occidentale e le piaghe lasciate in Asia e in Africa sono ancora profonde.

Oggi l’India è una delle più considerevoli potenze mondiali, forte di un’economia crescente e dotata di significative capacità militari. Diverse contraddizioni ovviamente rimangono: l’inquinamento, una rilevante fascia di popolazione sotto la soglia di povertà, la discriminazione sociale e la divisione tra le varie caste, il terrorismo e il crimine. Tuttavia, la posizione del mercato indiano all’interno dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio è notevole e il ruolo giocato da questo Paese nel quadro di importanti vertici internazionali come il BRICS o l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai fa dell’India un attore geopolitico profondamente influente.

Terzi si è subito reso conto di aver commesso un grave errore diplomatico e ha così abbandonato la sua decisione iniziale, anzi accettando le richieste dell’India, ma i partiti e i movimenti di destra italiani hanno ingenerato una imponente opera di propaganda contro questa “umiliazione nazionale”, rivendicando un atteggiamento “forte” da parte dell’Italia e nei casi più eclatanti addirittura un’azione di guerra contro l’India.

In Italia, un caso di duplice omicidio è dunque diventato un pretesto per istigare allo sciovinismo e all’imperialismo in un Paese sotto il tallone della crisi economica, creando così un pericolosissimo clima sociale. Alcuni giorni fa, Terzi è stato costretto a dimettersi dal suo incarico, mentre il primo ministro Mario Monti ha affermato che durante il recente vertice BRICS a Durban sono stati inviate preoccupanti minacce politiche contro l’Italia. Ovviamente tutto ciò è completamente falso e nessun capo politico dei Paesi del gruppo dei BRICS ha minacciato l’Italia.

Ad ogni modo, questa incomprensione potrebbe generare tra la popolazione italiana un clima d’odio xenofobo nei confronti dei Paesi non-occidentali e soprattutto nei confronti dell’India. Questa propaganda nazionalista evita di menzionare il fatto che i due marò italiani stavano lavorando come contractor su una petroliera privata, così come dimentica numerosi altri casi di incidenti militari o di tipo “blue-on-blue” (quando uno o più soldati sono vittime del proprio stesso esercito o alleato, ndt).

Questo rozzo nazionalismo, simile più alla legge della giungla che ad un vero e proprio orgoglio patriottico, crea tuttora seri ostacoli sul cammino della pace, della stabilità e della mutua cooperazione. L’Italia e gli altri Paesi dell’Europa sembrano essere incapaci di cancellare le fallaci idee di “occidentalizzazione” e “superiorità occidentale” dalla loro agenda politica internazionale, che resta completamente vincolata alla dottrina degli Stati Uniti anche a 22 anni di distanza dalla fine della Guerra Fredda.

 

 

L’articolo è stato originariamente pubblicato in lingua inglese, con il titolo Return of marines shakes up nervous and fraught Italian politics, a pag. 13 dell’edizione del 2/04/2013 del “Global Times”, quotidiano internazionale del Partito Comunista Cinese.

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IL QATAR SBARCA IN EUROPA

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Gl’investimenti del Qatar in Italia

Nel novembre 2012 nasce a Doha una particolare società che può essere definita un’opportunità per l’Italia o il lento, ma strategico, avanzamento della ricchezza araba in Europa. Stiamo parlando della IQ Made in Italy Venture, una società che ha visto la luce in virtù di un accordo firmato dal Fondo Strategico Italiano Spa, FSI, la holding nata nel maggio 2011 e controllata dalla italiana Cassa Depositi e Prestiti, e la Qatar Holding LLC, QH (1).

Con un capitale complessivo di 2 miliardi di euro, che verranno versati pariteticamente da FSI e QH nel corso dei primi 4 anni, IQ Made in Italy Venture investirà nelle società italiane che operano in settori “strategici” per lo Stivale. La neonata società si concentrerà sulla produzione e distribuzione dei prodotti alimentari, sulla moda e i beni di lusso, sull’arredamento e il design, così come sul turismo e il tempo libero.

Il nome scelto per la società è indicativo dell’obiettivo a lungo termine dell’Emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa Al Thani: entrare nel Made in Italy, nell’ambito di quella particolare politica estera qatariota portata avanti anche attraverso ingenti investimenti in Europa. Uno sguardo ad Est, uno ad Ovest, oltre l’Oceano Atlantico, e occhi puntati sulla crisi che investe ormai da alcuni anni gli Stati europei, questi ultimi sempre alla ricerca di potenti finanziatori.

La Qatar Holding nasce nel 2006 e ha come obiettivo quello di ottenere regolari profitti di lungo termine investendo a livello internazionale e locale, a vantaggio del paese e per diversificarne l’economia (2).

L’incontro con il Fondo Strategico italiano ha permesso all’Emirato di entrare dalla “porta di ingresso” dell’economia italiana. I settori in cui la IQ Made in Italy Venture investirà rappresentano quella che può essere definita l’eccellenza dell’Italia: le aziende che contribuiscono in misura determinante alle esportazioni italiane.

Si tratta, infatti, di settori che rappresentano nel mondo la “qualità” dell’Italia, con un significativo potenziale di crescita e di espansione internazionale.

Obiettivo dell’Italia e del Qatar è quello di investire in aziende d’avanguardia, consolidarne le strutture e garantirne la crescita, anche a livello internazionale. Tutto ciò dovrebbe avvenire mediante la combinazione della conoscenza locale di FSI e della portata globale e conoscenza del settore di QH, per fornire alle aziende un insieme unico di competenze, potenziandone i processi di crescita.

IQ Made in Italy Venture sarà gestita da FSI e QH in maniera paritetica. L’accordo è stato raggiunto in occasione della visita del Primo ministro uscente Mario Monti in Qatar e rappresenta  una delle iniziative che appartengono ad un quadro di cooperazione tra il paese arabo e la Repubblica italiana.

Tra le aziende che sembrano suscitare l’interesse del Qatar emergono la casa di moda della famiglia Versace, dopo l’acquisizione della maison Valentino, Snam, Eni ed Enel, così come il Milan (3).

Una delle regioni che più ha colpito la famiglia reale Al Thani è la Sardegna.

Il Presidente Cappellacci ha preso parte all’incontro di novembre a Doha e nel corso del colloquio è emersa la volontà dell’Emirato di investire nell’isola italiana un miliardo di euro nel settore turistico. Gli investimenti dovrebbero riguardare il rilancio della Costa Smeralda, i trasporti dell’isola e l’allevamento di cavalli purosangue arabi nel sud della Sardegna (4).

 

 

La politica estera di Doha

Quanto riportato finora, ci racconta della nascita di una società mista nata dalla collaborazione di un’Italia in crisi e di un Qatar in espansione. La rilevanza strategica di uno Stato a livello internazionale si misura anche dalla forza di attrazione che questo genera negli investitori mondiali e l’arrivo di nuovi capitali in Italia può avere senza alcun dubbio degli effetti positivi.

Nell’era dello Spread che sale e che scende e dei declassamenti ad opera di ibride agenzie di rating, “investimento” diventa la parola d’ordine per eccellenza.

La IQ Made in Italy Venture investirà in settori dell’eccellenza italiana, in aziende di elevata qualità che rappresentano una quota consistente delle esportazioni dell’Italia. Il denaro qatariota rappresenterà per questi settori una boccata di aria pura, nel breve periodo, ma a lungo termine l’intervento dell’Emirato può voler dire avere diritto a metà di quella che è l’immagine dell’Italia nel mondo.

L’Italia della moda, del cibo, del lusso e del turismo sarà finanziata da un paese che negli anni sta conducendo una politica estera sui generis.

 

 

L’Emirato in Europa 

Gli investimenti di Doha hanno oltrepassato le Alpi. Dopo un anno di dubbi, nell’ottobre 2012 anche Parigi ha accettato la creazione di un fondo gestito dal Qatar per aiutare le aree povere francesi, rurali ed urbane (5).

Il Ministro per il risanamento economico, Arnaud Montebourg, pur accettando un tale accordo, ha deciso di modificare la natura del fondo di capitali di Doha mediante la previsione della partecipazione della Francia, con l’obiettivo di mettere a tacere chi criticava la “svendita” delle periferie e delle zone rurali francesi ad un paese straniero. L’intervento del Qatar in territorio francese nasce dalla richiesta di un piccolo gruppo di eletti nelle assemblee locali, riuniti nell’Associazione nazionale dei rappresentanti locali per la diversità, Aneld. Questa associazione ha bussato alle porte dell’Emiro chiedendo di investire lì dove Parigi rimane immobile, in quei quartieri, abitati da un gran numero di musulmani, in cui il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 40 %.

L’interesse del Qatar per la Francia si è inoltre manifestato nell’acquisto del palazzo del quotidiano Le Figaro e della squadra di calcio del Paris Saint Germain e in investimenti nella compagnia petrolifera Total (6).

L’Emirato, dunque, è divenuto negli ultimi anni uno degli investitori più attivi nell’Europa della crisi finanziaria. Nel 2011 il fondo sovrano del Qatar, Qatar Investment Authority, ha finanziato la fusione di Eurobank e Alpha Bank, due delle maggiori banche della Grecia e ha poi acquisito quote nelle multinazionali petrolifere portoghesi Energias de Portugal e Iberdrola (7).

Il Qatar ha inoltre investito nel settore automobilistico e bancario e si è spinto anche in Gran Bretagna con l’acquisto del Villaggio Olimpico di Londra e dei grandi magazzini Harrod’s.

 

 

 

* Marzia Nobile, Laurea Magistrale in “Relazioni internazionali” presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 

(1)   Joint venture FSI e Qatar Holding da € 2 mld per il “Made in Italy”,  19 novembre 2012, www.governo.it.

(2)  About QH, www.qatarholding.qa.

(3) Cenci F., I soldi del Qatar, 2012, www.ilfarosulmondo.it.

(4) Il Qatar investe sull’Italia. Anche senza garanzie sul dopo Monti, 2012, www.ilfattoquotidiano.it.

(5)  Le Devin W., Perfusion qatarie pur les quartiers, 2012, www.liberation.fr.

(6) Billi D., Monti svendita: il Qatar sta già prendendo tutto, con obiettivo Snam?, 2012, www.petrolio.blogosfere.it.

(7) Il Qatar investe in Europa, 2012, www.ilpost.it.

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I GIOCHI NUCLEARI DELLA COREA DEL NORD METTONO IN PERICOLO LA CINA

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La costante retorica bellica nordcoreana seguita alle sanzioni stabilite in sede ONU, potrebbe apparire ridicola alla maggior parte delle persone. In realtà ha una sua logica e non si tratta di una logica folle. Infatti, la terza prova nucleare, il lancio satellitare dello scorso dicembre e il recente picco di tensione raggiunto in occasione delle esercitazioni congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, riflettono tutti le speranze del presidente Kim Jong-Un di prendere due piccioni con una fava.

Sul piano internazionale, la Corea del Nord vuole riportare gli Stati Uniti al tavolo delle trattative e ottenere maggior sostegno giocando la carta nucleare. Nonostante i test e gli avvertimenti della Corea del Nord, Kim ha espresso la sua impazienza di ricevere una telefonata dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama durante la visita del famoso cestista dell’NBA Dennis Rodman in Crea del Nord lo scorso febbraio.

Sul piano interno, Kim può consolidare il suo ruolo-guida attraverso una serie di azioni robuste nei confronti degli Stati Uniti e della Corea del Sud. Il cambio al vertice delle Forze Armate dello scorso luglio, quando l’alto Comandante Ri Yong-Ho fu sollevato da tutti i suoi incarichi, ha messo in evidenza l’intensa lotta in seno alla dirigenza politica dopo l’ascesa di Kim alla guida del Partito e dello Stato. La linea politica dell’“esercito innanzitutto” (Songun, ndt) ha già fatto dei militari il gruppo di interesse più potente del Paese, ed una fazione del cui supporto Kim ha disperatamente bisogno.

Kim sa anche che la Corea del Nord molto difficilmente seguirà il destino politico dell’Iraq o della Libia, grazie al sostegno della Cina. Il Trattato di Mutua Assistenza e Amichevole Cooperazione Sino-NordCoreano siglato nel 1961 stabilisce che i due Paesi debbano “garantire l’adozione immediata di tutte le misure necessarie ad opporsi a qualsiasi Stato o coalizione di Stati che possa aggredire l’una o l’altra nazione”. Quindi la Cina farà tutto il possibile per fermare qualunque attacco contro la Corea del Nord, per evitare di essere coinvolta in un confronto militare non-necessario con suoi interlocutori commerciali come gli Stati Uniti e la Corea del Sud, e per impedire enormi perdite umane ed economiche come già avvenuto durante la Guerra di Corea (1950-53).

La Corea del Nord riveste ancora un’importanza strategica per la Cina. E questo viene spesso sottovalutato da quegli analisti cinesi che suggeriscono di abbandonare la Corea del Nord. Essa agisce ancora come un cuscinetto. Se la Corea del Nord dovesse cadere e Kim dovesse essere detronizzato in favore di un nuovo regime politico di orientamento atlantista, si spianerebbe la strada agli Stati Uniti per ridisporre le loro forze stanziate in Corea del Sud lungo il confine nordorientale della Cina, generando un grande pericolo in termini di sicurezza nel momento in cui la reciproca fiducia militare tra Stati Uniti e Cina venisse completamente meno.

La Cina deve inoltre mantenere la stabilità della sua regione nordorientale. Una massa di rifugiati nordcoreani getterebbe l’intera area nel caos e distruggerebbe un’economia che aspira a riguadagnare il suo vecchio ruolo di cuore industriale del Paese. Dunque una priorità strategica per la Cina è quella di assicurare la conservazione del regime di Kim e di impedire il collasso della Corea del Nord. Ma la Cina dovrebbe continuare ad essere un alleato della Corea del Nord, indipendentemente da ciò che questa compie?

Sebbene lo sviluppo nucleare della Corea del Nord sia osteggiato soltanto dagli Stati Uniti, il suo programma atomico porterà seri rischi alla Cina più che agli Stati Uniti. La terza prova nucleare di febbraio è stata condotta a poco più di 100 chilometri dal confine nordorientale cinese. Malgrado le autorità abbiano tranquillizzato la popolazione assicurando che le montagne lungo il confine erano e sono in grado di impedire che le radiazioni arrivino anche in Cina, la possibilità che le scorie nucleari inquinino le falde acquifere non può essere totalmente esclusa. La sicurezza dell’acqua sotterranea non solo è strettamente connessa alla rete idrica potabile della Cina nordorientale, ma rappresenta anche un pericolo nascosto per la sicurezza e la salvaguardia alimentare del Paese.

Già nel 2010, il governo centrale cinese pubblicò un documento ufficiale stabilendo che il Nord-Est dovrebbe essere strutturato come un pilastro della sicurezza alimentare nazionale. Nel 2011, il raccolto di grano in questa regione è arrivato a 108 milioni di tonnellate, pari a un quinto del totale nazionale. L’incidente nucleare di Fukushima in Giappone è la più recente lezione. La Prefettura di Fukushima, dove l’agricoltura costituiva un pilastro industriale, è stata altamente contaminata. La produzione alimentare è stata seriamente danneggiata.

La Cina non può permettersi il rischio di un nuovo disastro analogo nel Nord-Est. Quello che la Cina dovrebbe fare è ora proteggere la Corea del Nord offrendo un ombrello nucleare così come gli Stati Uniti fanno con il Giappone e la Corea del Sud, ma anche convincerla ad ascoltare i consigli cinesi affinché abbandoni i programmi nucleari. Se un quarto test nucleare fosse condotto, la Cina correrebbe rischi maggiori di quelli corsi da qualsiasi altra nazione.

 

*L’autore è un osservatore indipendente di affari internazionali

 

FONTE: Global Times

 

 

(Traduzione di Andrea Fais)

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IL PROCESSO DI PACE IN COLOMBIA

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Il conflitto armato colombiano è uno dei più longevi del mondo; esso infatti insanguina e destabilizza il Paese sudamericano da mezzo secolo. Le forze in campo sono essenzialmente due: da un lato lo Stato colombiano, dall’altro la guerriglia, identificata principalmente con le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia). Entrambi i fronti si sono macchiati di gravi crimini, passando da sequestri, sfruttamento del narcotraffico, giustizia sommaria e operazioni paramilitari sostenute da corposi finanziamenti statunitensi.

Dal 1964, anno di nascita delle Farc, il gruppo di guerriglia maggiore per numero, attività e notorietà, il tema della soluzione di tale conflitto ha assunto progressivamente maggiore rilevanza, arrivando a divenire necessariamente il centro della politica interna della Colombia.

Le strategie proposte sono state svariate; alcuni Presidenti hanno sostenuto il dovere dello Stato di sconfiggere sul campo la guerriglia, stimolando però una spirale di violenza sempre maggiore e senza riuscire a sradicarla. Altre Presidenze hanno invece intrapreso la via del negoziato, che però ha sempre portato a un nulla di fatto, almeno fino ad oggi.

Un tentativo di negoziato terminato nel sangue è stato quello promosso dal Presidente Betancurt, durante la sua Presidenza dal 1982 al 1986, tramite gli Accordi della Uribe con le Farc (28 marzo 1984) e l’accordo di Corinto con il movimento M-19 (24 agosto 1984).

Inizialmente Betancurt era così riuscito ad accordare un cessate il fuoco tra il Governo e i vari movimenti di guerriglia, ma la sua decisione di trovare una soluzione politica al conflitto armato colombiano risultò immediatamente controversa all’interno del Paese.

La tensione aumentava velocemente, mentre le condizioni di vita peggioravano, tanto che il movimento di guerriglia M-19 decise di rompere la tregua, arrivando il 6 novembre 1985 ad assaltare il Palazzo di Giustizia a Bogotà.

L’esercito reagì immediatamente, segnando il definitivo fallimento del tentativo di Betancurt. A pagarne il prezzo più alto fu certamente il movimento M-19, che contò il numero maggiore di caduti nei mesi che seguirono la presa del Palazzo di Giustizia. Le gravi perdite inflissero un colpo fatale al movimento che si sgretolò progressivamente, arrancando per tutti gli anni ’80 fino alla dissoluzione del movimento all’inizio degli anni ’90, in seguito alla quale alcuni dei suoi componenti confluirono negli altri movimenti di guerriglia.

Tale tentativo di soluzione pacifica  non sortì dunque gli effetti auspicati e lasciò spazio alla via militarista, che risulta infatti alternarsi alla soluzione concordata.

Una sintesi di tali metodi emerge anche nell’ultimo decennio, in particolare nelle figure di Álvaro Uribe Vélez e di Juan Manuel Santos Calderón.

 

 

Álvaro Uribe Vélez (2002-2010) 

Uribe è stato Presidente della Colombia dal 2002 al 2010, essendo stato rieletto per un secondo mandato nel 2006. Durante questi otto anni l’ex Presidente si è fatto promotore della cosiddetta politica della “sicurezza democratica”, la quale ha alimentato la violenza nel Paese e l’incertezza dei suoi cittadini, in particolare nelle aree periferiche e di frontiera. Sono state incentivate le azioni paramilitari e proposte ricompense agli informatori, fino alla promessa di ricompense per l’uccisione di componenti delle Farc.

Durante la presidenza di Uribe è certamente diminuito il numero dei guerriglieri, passati dalle 24000 unità alle 8000 (1). Un tale approccio, puramente militare, ha contribuito ad acuire la violenza nel Paese, spesso a scapito della popolazione civile.

Uno degli episodi più scandalosi è quello dei falsos positivos, verificatosi in diverse località del Paese dopo l’applicazione della Direttiva numero 29, nel novembre 2005. Tale direttiva ha introdotto ricompense specifiche per l’uccisione di guerriglieri, da un minimo di 1900 dollari a un massimo di due milioni e cinquecentomila dollari, a seconda del grado della persona uccisa (2).

Tale provvedimento ha avuto conseguenze anche peggiori di quelle che si sarebbero avute nella corretta applicazione della norma; il fenomeno, infatti, è degenerato nella messa in scena di falsos positivos. Centinaia di ragazzi sono stati prelevati dalle proprie case, travestiti da guerriglieri e poi uccisi, in modo da ottenere le ricompense promesse dalla Direttiva 29 (3).

La conferma di tali atrocità e la condanna internazionali non si sono fatte attendere; Philip Alston, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per le esecuzioni arbitrarie, ha affermato : “[…] membri delle forze di sicurezza della Colombia hanno perpetrato un numero significativo di esecuzioni extragiudiziali, seguendo un modello comune all’interno del Paese. Anche se questi omicidi non furono commessi come parte di una politica ufficiale, ho trovato molte unità militari coinvolte nei cosiddetti “falsi positivi”, in cui le vittime erano assassinate da militari, spesso per ottenere un beneficio o un vantaggio personale” (4).

Un altro grave episodio causato dall’approccio militarista di Uribe si è verificato nel 2009, quando le Forze Armate colombiane non hanno esitato a bombardare un territorio ecuadoriano, pur di colpire un accampamento delle Farc ivi situato. L’episodio ha causato inevitabilmente un raffreddamento dei rapporti tra i due Paesi; inoltre il Venezuela ha dimostrato di appoggiare l’Ecuador e ha duramente criticato una simile politica estera della Colombia. Essa infatti, negli anni di Uribe, ha scelto di avvicinarsi agli Usa, i quali hanno contribuito in maniera decisiva alla politica della sicurezza democratica, sostenendola con ingenti finanziamenti (5).

 

 

Juan Manuel Santos Calderón e l’attuale processo di pace

La linea dura di Uribe è riuscita ad assottigliare le fila della guerriglia, ma non a sconfiggerla. Otto anni di lotta violenta e continua non hanno saputo scrivere la parola fine. Nel 2010 le Farc ci sono ancora, sono forti e sono attive.

Al termine del doppio mandato di Uribe è ormai chiaro che nessuna delle due forze sconfiggerà mai l’altra sul campo in maniera definitiva (6).

Il Presidente Santos, eletto nel 2010 come successore di Uribe, ha infatti scelto di percorrere una via opposta a quella del suo predecessore: il negoziato. Santos si pone in rottura non solo col passato del Paese, ma anche con le sue personali scelte anteriori. Egli è stato Ministro della Difesa durante la Presidenza di Uribe, dunque complice e fautore consapevole delle deplorevoli politiche aggressive perpetrare.

Alla luce di quanto affermato, la scelta di Santos può essere letta in maniera più compiuta come una decisione marcatamente politica, non certamente ideologica. Forse proprio in ciò sta la sua forza e il suo auspicabile successo.

Dopo decenni di guerra civile, l’uso della forza non ha sortito gli effetti sperati, non resta che affacciarsi con fiducia a una soluzione conciliata del conflitto.

In questa prospettiva si è espressa in un’intervista del 2008 anche Ingrid Betancourt, sequestrata per oltre sei anni dalle Farc, affermando che ”è importante esercitare una pressione dal punto di vista militare, ma in questo modo non si riusciranno a sconfiggere veramente (le Farc)”; la Betancourt ha sostenuto infatti che un’alternativa efficace è l’attuazione di azioni di politica sociale per offrire alternative all’arruolamento nelle Farc, venendo incontro alle istanze sociali finora inascoltate, che ingrossano le fila della guerriglia (7).

Sembra arrivato il momento del dialogo, il momento di trattare, negoziare per giungere a una soluzione condivisa e proprio per questo sostenibile nel tempo. Il 26 agosto a Cuba è stato adottato l’Accordo quadro per porre fine al conflitto armato. Al tavolo delle trattative i delegati del Governo della Repubblica della Colombia e i delegati delle FARC ed EP. In occasione di tali negoziati è emerso che la scelta di intavolare negoziati e di arrivare finalmente alla pace è sostenuta anche a livello internazionale. Cuba e Norvegia si sono infatti impegnate come garanti, mentre il Venezuela ha assunto il ruolo di mediatore (8). Anche in questo senso sembra che il governo colombiano voglia dare un segnale di rottura col passato, rappresentato da Uribe. Se quest’ultimo si era appoggiato agli Stati Uniti per finanziare la sua politica della sicurezza democratica, Santos decide di cambiare tattica. Si affida al negoziato e lo fa col sostegno di Cuba, Norvegia e Venezuela, estromettendo finalmente gli Usa dalle dinamiche delle sua politica interna.

Tale Accordo preliminare prevede un’agenda, che stabilisce le priorità e le finalità comuni. Innanzitutto la questione della riforma agraria viene posta come base da cui partire per raggiungere lo sviluppo sociale ed economico del Paese, necessario a porre fine al conflitto; la rilevanza è provata dal fatto che questo tema sia posto come primo punto programmatico dell’agenda.

In seguito viene riconosciuta la necessità di assicurare un’effettiva partecipazione politica (punto secondo), che comprenda l’accesso ai mezzi di comunicazione, la garanzia del diritto di opposizione politica, ma anche di partecipazione diretta alla vita politica. Naturalmente tali diritti politici non possono essere assicurati, senza aver posto termine in maniera definitiva al conflitto armato (punto terzo). Il cessate il fuoco e la pace devono inoltre essere accompagnati da un grande impegno nella lotta al narcotraffico (punto 4), in modo da poter garantire alla popolazione un ambiente sicuro in cui vivere e lavorare per lo sviluppo del Paese, nel segno della legalità. Tale accordo non intende però ignorare il passato e le parti contraenti si impegnano a risarcire le vittime del conflitto, assicurando il rispetto dei diritti umani (punto 5).

Attualmente sono in corso le contrattazioni relative al primo punto, la questione agraria, considerata la chiave per porre fine alle disuguaglianze del Paese, che ne alimentano il conflitto. Il documento parla infatti di “sviluppo agrario integrale”, necessario a uno sviluppo sociale che comprenda innumerevoli dimensioni: la salute, l’educazione, l’abitazione, lo sradicamento della povertà e il raggiungimento della sicurezza alimentare (9).

Dopo quasi mezzo secolo di quella che difficilmente può non essere definita una vera e propria guerra civile, sembra ci sia una chiara volontà politica di porvi fine in maniera pacifica e sostenibile nel tempo. Il conflitto non ha fatto altro che produrre instabilità e insicurezza all’interno del Paese, di cui gli unici beneficiari sembrano essere i maggiori narcotrafficanti colombiani. Essi infatti hanno potuto approfittare dell’anarchia regnante nelle zone periferiche e di frontiera del Paese, creando così una sorta di zona franca tra Colombia, Venezuela ed Ecuador in cui gestire i propri traffici illeciti, arricchendosi a scapito delle miserevoli condizioni di vita delle popolazioni di quelle aree, lasciate in balia delle violenze dai propri governi.

L’Accordo quadro dà un segnale positivo e, rinnegando la via militarista già perdente in passato, inizia quello che potrebbe essere il definitivo processo di pacificazione.

 

 

*Rachele Pagani, laureanda in Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale presso l’Università di Bergamo

 

 

 

(1)Pace in Colombia, le Farc e Santos ci provano, Maurizio Stefanini http://temi.repubblica.it/limes/pace-in-colombia-le-farc-e-santos-ci-provano/37900

(2)Los falsos positivos, Samuel Barinas http://www.aporrea.org/internacionales/a99939.html

(3)il successore di Uribe e le Farc, Antonio Moscato http://ilmegafonoquotidiano.it/news/il-successore-di-uribe-e-le-farc  (4)http://www.un.org/spanish/Depts/dpi/boletin/dynpages/a_21403_dtls.html

(5)Colombia: il conflitto armato, http://www.treccani.it/enciclopedia/colombia-il-conflitto-armato_(Atlante_Geopolitico)/

(6)La pace in Colombia per chiudere il Novecento, Francesca D’Ulisse, http://www.treccani.it/magazine/piazza_enciclopedia_magazine/geopolitica/La_pace_in_Colombia_per_chiudere_il_Novecento.html

(7)http://www.youtube.com/watch?v=C86cYqUdHP4

(8) e (9) Revelan texto del acuerdo firmado por Gobierno y Farc para iniciar diálogos de paz, http://www.canalrcnmsn.com/noticias/gobierno_y_farc_firmaron_un_documento_de_seis_puntos_para_iniciar_di%C3%A1logos_de_paz

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INTERVISTA A STEFANO VAJ SUL CASO DEI MARÒ

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Intervista a cura di Filippo Pederzini.

Stefano Vaj, noto professionista milanese e docente all’Università di Padova, si occupa di metapolitica, visione del mondo e attualità scientifica e culturale dalla fine degli anni settanta.

 

 

1) La vicenda che vede coinvolti i due marò italiani in India, può in
 un qualche modo avere ripercussioni negative anche da un punto di
vista economico, dati i non pochi rapporti intessuti tra realtà 
imprenditoriali italiane di rilievo e lo Stato indiano?

Da qualsiasi punto di vista la si prenda, è difficile contestare che il modo in cui tutta la vicenda è stata affrontata è stato il peggiore possibile ai fini dei rapporti bilaterali. A cominciare dall’increscioso incidente stesso, per continuare con la strumentalizzazione dell’arresto in India dei due sospettati da parte dei media e della politica italiana al fine di suscitare quel tipo di “tifo” sciovinista che evidentemente si contava potesse, oltre che distrarre in generale da altri problemi, accrescere il consenso o i lettori di chi fosse pronto a spararle più grosse.

Naturalmente, l’aspetto più grottesco è stato l’atto finale del (tentativo di) rifiuto da parte del governo italiano di onorare la parola data all’atto della richiesta del permesso elettorale per i due imputati, salvo fare marcia indietro quando l’India ha alzato la voce.

Ora, tutto questo poco edificante teatrino ha certo finito per suscitare un livello di irritazione le cui conseguenze vanno al di là delle possibili distinzioni tra i soggetti economici attivi nella penisola e il governo che gli stessi volenti o nolenti si ritrovano.

 

 

2) Indipendentemente da come evolverà l’intera questione come ne potrà 
uscire l’immagine dell’Italia da un lato e quella dell’India
 dall’altro? E in che modo evolveranno i rapporti tra i due Paesi?

La situazione da un punto di vista legale è abbastanza chiara.

Due persone sono state arrestate con l’accusa di aver ucciso dei cittadini indiani, e portate avanti al giudice di quel paese. Il giudice stesso – come farebbe il giudice svizzero o quello peruviano, del resto – non può far altro che sottoporle a un processo, solo al termine del quale, ed a mente delle prove offerte dall’accusa e dalla difesa, lo stesso potrà decidere sulla base della sua legge se ha giurisdizione oppure no (ad esempio perché il fatto è avvenuto fuori dalle acque territoriali).

La giurisdizione infatti è *una* delle tante questioni che il processo serve a decidere, esattamente come quella se il fatto sussiste, se è l’imputato che l’ha compiuto, se esistevano esimenti come l’errore scusabile o la legittima difesa, eccetera.

Questioni tra l’altro legate tra loro, perché pare incoerente sostenere che il fatto sia avvenuto al di fuori del territorio indiano (così che sarebbe competente il giudice dello stato la cui bandiera è battuta dalla imbarcazione ove si è verificato) e contemporaneamente… che non è mai avvenuto affatto! Caso in cui il giudice indiano non avrebbe affatto da spogliarsi del caso a favore delle corti italiane, non più di quanto dovrebbe farlo a favore di quelle della Mongolia o della Liberia – dato che evidentemente una cosa mai successa non è successa in nessun luogo che permetta di stabilire una giurisdizione diversa da quella adita-, ma semmai dovrebbe assolvere.

Pretendere che i due imputati andassero liberati senza processo (e in particolare per atto governativo, ed in violazione dell’autonomia della corte investita del procedimento) naturalmente è una richiesta che può essere basato unicamente su argomenti come l’invio delle cannoniere. O sul tipo di potere colonialista che ha consentito agli USA di ottenere il recente noto provvedimento di “grazia” dal presidente della repubblica italiana utile a tirare almeno in parte un tratto di penna su reati di sequestro ed espatrio clandestino a fini di tortura e carcerazione illegale, che a quanto accertato commessi in Italia da funzionari del relativo paese.

Ora, il tentativo di ottenere qualcosa del genere da parte di chi non ha né la forza né il potere contrattuale per imporla è indubbiamente un atto ostile ed irrispettoso nei confronti del paese che si sarebbe voluto sottoporre a pressioni, magari invocando solidarietà da parte di “alleati”, o secondo altri padroni, che si sono invece prevedibilmente distinti per la loro totale indifferenza.

La cosa è naturalmente aggravata dal fatto che in Italia sia stato generato internamente un movimento d’opinione, o meglio una campagna mediatica, totalmente prevenuti, ed incline ad attribuire un carattere odioso, se non illegittimo, al modo in cui sono stati trattati gli imputati – che sinora sono stati soggetti ad una detenzione assolutamente speciale per un periodo ridicolmente breve rispetto agli anni e anni di custodia cautelare consentiti dalla procedura penale italiana, e successivamente hanno continuato a vivere indisturbati in India in un albergo di lusso subendo come unica misura di sicurezza il ritiro del passaporto.

Se tutto questo tipo di gestione della crisi può aver eventualmente giovato a qualcuno, è molto dubbio che abbia avvantaggiato la stessa difesa dei due “imputati-martiri”, e certamente ha creato un’ovvia reazione uguale e contraria nell’opinione pubblica indiana, di cui il relativo governo, che probabilmente da parte sua non avrebbe visto l’ora di liberarsi politicamente della relativa piccola grana, non potrà fare a meno di tener conto.

 

 

3) E’ giustificabile nell’intera vicenda l’assenza – o se si è 
mostrato lo ha fatto in maniera molto defilata – del Ministro degli
 Esteri Italiano Terzi di Sant’Agata (solamente De Mistura è comparso a
 più riprese) come quella dello stesso Capo del Governo Italiano Mario
 Monti? Le dimissioni non sono state un atto dovuto?

Le scelte degli interessati sono state probabilmente giustificate da preoccupazioni di politica interna italiana, ma si sono rilevate piuttosto maldestre e schizofreniche anche sotto tale profilo. L’ossessione di dimostrare e strombazzare la pretesa autorevolezza internazionale del “governo dei tecnici” si è in particolare mal combinata con una più tradizionale inclinazione della repubblica italiana a raggiungere un qualche tipo di soluzione sottobanco. Così come si sono mal combinate la consapevolezza della sostanziale impotenza del nostro governo, a cominciare dal profilo militare, e il desiderio di salvare le apparenze facendo la faccia truce, ma non tanto da vedere la propria faccia personalmente identificata con il fallimento che il relativo “ruggito del topo” non ha mancato di sortire.

Il machiavellismo da portineria del “permesso elettorale” e il tentativo di fregare l’India non riconsegnando gli imputati, salvo fare precipitosamente marcia indietro quando ci si è resi conto (ad urne ormai utilmente chiuse…) della china pericolosa e impraticabile su cui ci si era posti, naturalmente ha dato il tocco di ridicolo finale ad una situazione già compromessa.

In questo scenario, le dimissioni del ministro Terzi, certo complice dell’accaduto ma probabilmente preso in giro a sua volta, sono alquanto comprensibili. Come è anche comprensibile che il correlato scandalo istituzionale non abbia trovato di meglio, nella più pura tradizione del basso impero, che farne una questione di “etichetta”. Si sa, nessun monarca e primo ministro è più geloso delle proprie prerogative formali di quelli che amministrano per conto terzi, e sono ridotti a fiduciari o fantocci di altri poteri.

 

 

4) Soltanto per fare una congettura, in che maniera si sarebbe comportato, in una situazione analoga, il governo di un altro Paese?

Il governo di un paese che è in grado di ignorare i giudici e le leggi di un certo territorio, quando ritiene che per certe categorie di atti o persone abbia interesse a farlo, semplicemente lo fa. Non è detto che lo faccia sempre (Amanda Knox è stata pacificamente processata senza che a qualcuno venisse in mente di mandare i marines ad “estrarla” dal territorio italiano), ma tipicamente estende questo trattamento ai suoi diretti agenti, in modo che gli stessi possano agire senza troppe preoccupazioni. Se persino i loro dirigenti e comandanti ritengono che qualche panno sporco vi sia, lo stesso sarà invariabilmente lavato in famiglia.

Al massimo, se proprio il paese in questione si preoccupa di consentire ai governi locali di salvare la faccia farà in modo di far approvare da questi ultimi in via generale qualche regime di extra-territorialità legale, come nei casi della funivia del Cermis, o degli stupri di Okinawa, o di Abu Graib; ma nella maggiorparte dei casi si limiterà a riportare a casa manu militari i possibili responsabili, come per nel caso del rapimento di Abu Omar, ed a rifiutarne ovviamente l’estradizione, salvo magari ottenere tramite i propri fiduciari, ascari e reggicoda locali… la grazia “sovrana“ del paese da cui gli stessi sono evasi.

Al di fuori di questi scenari, noleggiare i propri militari ad armatori privati per compiti di polizia da svolgere fuori dai confini nazionali e da contingenti di qualche entità li espone evidentemente alla cattura.

Se si tratta poi di una cattura da parte di governi riconosciuti dall’Italia, e su cui è impensabile che le forze armate italiane possano far valere il “diritto del più forte”, mi sarebbe parso al tempo stesso più dignitoso e realistico dare la precedenza alla loro difesa processuale, senza sfidare velleitariamente il potere della corte di decidere, come fanno tutte le corti del mondo, sulla propria giurisdizione.

 

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GIRI DI VALZER. LA POLITICA ESTERA DELL’ITALIA NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE SELVAGGIA

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Autore: Fabrizio Di Ernesto
 
La linea politica e quella finanziaria oggi sono legati a doppio filo a quell’Unione europea che tramite l’Euro il Mes, il Fiscal compact ha sostanzialmente svuotato il nostro Parlamento di ogni sovranità politica e monetaria rendendoci succubi delle decisioni prese a Bruxelles da un ristretto gruppo di tecnici che operano in rappresentanza di determinate lobby.La politica militare invece è totalmente dipendente a quella imposta dagli Usa tramite la Nato e l’Onu, senza considerare poi l’Eurogendfor, la nuova polizia sovranazionale creata da alcuni Stati europei con poteri e competenze pressoché illimitate. L’unico campo dove la nostra politica può ancora dirsi libera è quello economico, ed infatti l’Italia continua a stingere accordi commerciali anche con quei Paesi come l’Iran o la Siria messi alla gogna da tutta la comunità internazionale, accordi però che vanno quasi sempre a vantaggio dei grandi gruppi industriali.Il bilancio appare però quanto mai negativo, con il nostro che oggi, come non mai in passato, appare un Paese in via di sottosviluppo.

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IDEOLOGIA DI STATO E POLITICA GIOVANILE DELLA REPUBBLICA DI BIELORUSSIA. PRIORITÀ E VALORI STRATEGICI

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Autore: Jadviga S. Jaskević
 
Dopo il 1991, il continente ex-sovietico si è velocemente trasformato in un vastissimo territorio contraddistinto da crisi economica, terrorismo ed instabilità. Soltanto pochissimi Paesi possono vantarsi di aver saputo nuotare controcorrente e, fra questi, la Bielorussia del Presidente Lukashenko, rappresenta un lodevole esempio, dimostrando come sia possibile conservare le conquiste del passato e valorizzare il significato scientifico-politico per affrontare le sfide del futuro. Il testo della prof.ssa Jadviga S. Jaskević, pubblicato in versione aggiornata nel 2005, costituisce un’analisi di grande spessore teoretico, sociologico e strategico, capace di delineare, le principali direttrici politiche dell’ideologia di Stato della Repubblica di Bielorussia. Prefazione di Andrea Fais.

Schermata 2013-04-08 a 12.21.41 PM

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